Antimafia: saper salire sulle spalle dei giganti è la vera abilità strategica

Guai se non allunghiamo lo sguardo. Ora più che mai. Ora che anche l’ultimo dei cretini è in grado di capire che la trappola del vaccino eterno è scattata e che i cambiamenti che l’evento pandemico ha innescato sono in essere. Per cambiamenti si deve intendere ciò che riguarda i cicli naturali, la salute, il cibo, le materie prime, l’energia, la cultura, la politica. E mentre avviene tutto questo, quello che ha assolutamente bisogno di essere chiarito è ciò che per semplicità chiamiamo, da decenni, contrasto alla mafia. O mafie, che dir si voglia.

Contrasto, non prese per il culo o semplificazioni che rasentano il ridicolo. Il contrasto alle mafie si porta dietro il tema dei nani e dei giganti e delle relative spalle. Nani, giganti e figlie e figli che tendono ad uccidere i loro padri e le loro madri. Il conflitto padri e figli può assumere anche forme non violente, ma non per questo meno drammatiche. Forme che solo pochi specialisti sanno interpretare nella loro paradossalità. Questione psicanalitica o politico-investigativa?

Con questo post dedicato all’enigmatico personaggio di Matteo Messina Denaro e la montagna di denaro di cui sembra disporre apro un mio capitolo di riflessione su quanto si sperpera intorno al tema della caccia ai latitanti di questo calibro. E quando dico sperpera non mi riferisco solo ai fondi dello Stato.
Si legge e si sente dire che bisogna dare la caccia alle teste pensanti, oltre che ai manovali della criminalità organizzata. Confondere, tanto per fare un esempio facile-facile, la rete eversiva di Antonello Montante per una sana iniziativa di onesti imprenditori (è successo anche di prendere questa cantonata negli ambienti benemeriti dell’antimafia), strategicamente utile per sconfiggere i capi e i “soldati” dei clan, è la prova che non è tutto oro quel che luccica e che prendere fischi per fiaschi è quanto può accadere quando ci si sente sufficienti per l’impresa titanica che, viceversa, ha visto cadere giganti come Pio La Torre, Rocco Chinnici, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Boris Giuliano, tanto per fare i primi cinque nomi che mi vengono in mente.

Per salire su quelle spalle non basta essere nani. Il brano che completa il post è saccheggiato da Patria 2010-2020 di Enrico Deaglio. E nel plagiarlo lo ringrazio per lo sforzo mnemonico e concettuale portato a termine. Mentre ringrazio lui, mi ritrovo imbarazzato di fronte a tante altre forme di dilettantismo che connotano l’agire del fronte antimafioso che spesso appare una vera Armata Brancaleone, senza averne neanche le straordinarie qualità ironiche e autocritiche. 

Oreste Grani/Leo Rugens 

Montante e Marcegaglia

MATTEO MESSINA DENARO L’ULTIMA PRIMULA NERA DELLA MAFIA, O PIUTTOSTO UN HEDGE FUND?

Morti e sepolti i corleonesi, pacificata e berlusconizzata l’isola, con tanto di antimafia trasformata in lotte oscure di magistra ti, servizi segreti, giornalisti, industriali nel lungo tran tran di un dopoguerra che sembra “la nuova normalità”, resta però un piccolo punto sulla carta geografica che sfugge alla logica e alle leggi Castelvetrano, 32.000 abitanti in provincia di Trapani, famosa per le olive e perché vi nacque il filosofo del fascismo Giovanni Gentile. Vi mori nel caldissimo luglio del 1950 il famoso bandito Salvatore Giuliano, o almeno li venne trovato cadavere, in un cortile, come ricordato nella stupenda scena iniziale del film di Francesco Rosi. Castelvetrano è l’hub della nuova star di Cosa Nostra, Matteo Messina Denaro, discendente da una potente stirpe di campieri dei feudi del barone D’Ali, latitante dal 1993. Niente da fare, non riescono a prenderlo, eppure ogni ministro dell’Interno che si è succeduto da quel di, ha fatto la promessa. Si sa che è istruito, che ha molte protezioni politiche, che nel suo paese è un re, che ha contatti con i servizi segreti, che ha partecipato, in ruoli di comando, alla campagna stragista del 92-93 e che è seduto su una vera montagna di soldi. Un patrimonio su cui indaga da anni la Dia, con risultati strabilianti.

Questa storia, comparsa sui giornali proprio nel 2017, è indicativa di quanto poco conosciamo il Paese in cui viviamo.

STORIA DEL CAVALIERE DEL LAVORO CARMELO PATTI

(ALTRO CHE MARCHIONNE…)

Nel 2017 ha 81 anni, è malato, vive appartato nella sua vil la di Robbio, in Lomellina, costruita come una copia della Casa Bianca. Tra pochi mesi, morirà. È il cavaliere del lavoro Carmelo Patti, uno dei cinque uomini più ricchi d’Italia; self-made man, simbolo del “miracolo economico”, fondatore di una dinastia. Ammirato e invidiato, amico dei potenti, la sua morte sarà stranamente accompagnata da un silenzio ingeneroso. Perché?
Nato nel 1935 nel poverissimo paese di Castelvetrano, Carmelo emigrò a Robbio (Pavia), ove condusse la vita agra del venditore ambulante e poi dell’operaio. Alla fine degli anni cinquanta, intorno a Robbio gravitava la multinazionale americana Philco, che sfornava lavatrici, frigoriferi, e televisori. (Un “Caro sello” con una donna felice annunciava: “Aspetto un Philco”.) Il nostro Carmelo, affascinato dall’industria, comprò un capanno ne e cominciò a produrre cavi, cavetti, interruttori, switch, fusi bili per la Philco. Gli andò talmente bene, che quando la Philco se ne andò, comprò i suoi muri e vi installò la Cablelettra, una start up dell’epoca. I suoi prezzi erano talmente buoni (bella for za: a Castelvetrano tutti intrecciavano i fila per lui: nei casolari, nelle baracche, bambini soprattutto) che si aggiudicò un appalto miliardario dalla Fiat. E così, la sconosciuta Cablelettra di Castelvetrano illuminò i cruscotti di milioni di utilitarie prodotte non solo a Torino, ma a Termini Imerese, in Polonia, in Argentina, in Brasile. Carmelo Patti arrivò ad avere 7000 dipendenti e una galassia di società che fatturavano miliardi. Addirittura Gianni Agnelli, che era uno snob, lo prese in simpatia e lo intro dusse nei salotti bancari torinesi, dove Carmelo fu protagonista di un colpo di scena finanziario. Nel 1998 comprò (400 miliardi cash) dalla Banca Sanpaolo la maggioranza delle azioni della Valtur, ex azienda di Stato, il colosso del turismo organizzato. Un settore che alla famiglia Agnelli, già allora stufa di automobili, piaceva moltissimo.

Le cose, però, non andarono bene: cattiva amministrazione. Si cominciò a dire che nei villaggi Valtur passavano le vacanze gratis sia i latitanti di Cosa Nostra sia l’establishment politico siciliano e che c’erano anomalie fiscali. La Valtur venne commissariata. La Cablelettra, nel frattempo, aveva già smobilitato. Nel 2012, la mazzata. La Dia esamina le centinaia di società di Carmelo Patti, le stima in 5 miliardi di euro, e ne propone il sequestro. La tesi: Patti non è altro che il prestanome dei famigerati Messina Denaro, padre e figlio, suoi concittadini. L’acquisto della Valtur? Un riciclaggio-investimento di Cosa Nostra.

CONGLOMERATO TRAPANESE VALE PIÙ DELLA FIAT?

A distanza di quattro anni, la “pratica” è tuttora allo studio della Procura di Trapani, circondata dal mistero. Il procuratore Marcello Viola da Cammarata, provincia di Agrigento, ha subito intimidazioni e minacce, vive scortatissimo, si dice che abbiano cercato di farlo fuori sull’autostrada Palermo-Trapani e che si è salvato – senza bomb jammer – solo perché il suo convoglio lo ha portato fuori alla velocità di duecento all’ora; ha ottenuto il trasferimento alla Procura generale di Firenze; misteriose trattative stanno avvenendo per diminuire il valore dei beni confiscati e per stabilire a chi andranno le amministrazioni controllate. A decidere è il giudice Piero Grillo, figlio di un famosissimo uomo politico locale, don Salvatore Grillo. Piero Grillo è diventato an che lui famoso perché è il presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Trapani. E vive sotto scorta. Per uno di quei piccoli capricci della storia barocca siciliana, adesso è il Tribunale di Trapani il più grande proprietario terriero della provincia.

E non c’è solo terra. Oltre a tutti i villaggi turistici della Valtur (5 miliardi), ci sono i 43 supermercati, sparsi in tutta la Sicilia orientale, sequestrati a tale Giuseppe Grigoli, per un valore di 700 milioni; ci sono le pale del “re dell’eolico” Vito Nicastri, per 1,3 miliardi, il feudo Arancio (900 ettari di prestigioso vigneto passato dagli eredi Salvo all’azienda trentina Mezzocorona per la cifra, francamente ridicola, di 70 milioni), e poi ancora decine di bar, caseifici, centri commerciali. Tutti, secondo la Dia, sono riconducibili alla “Matteo Messina Denaro holding”, uno dei conglomerati economico-finanziari, più potenti d’Italia. Più forti della Fiat, come era sempre stato nei sogni di Cosa Nostra?

(Patria 2010-2020)
Matteo Messina Denaro