Il COVID 19 non è la peste nera ma guai a sottovalutarlo

Come sostengo da anni (certamente da prima che scoppiasse la Pandemia del 2019-2020) un virus va affrontato con straordinaria intelligenza o se ne uscirà sconfitti. Non ci saranno le stragi dovute – nei secoli – alla peste nera ma i danni, negli anni a venire, saranno ugualmente drammatici. Intanto preparatevi alla terza punturina e poi alla quarta e poi a “per sempre”. Con gli inevitabili effetti collaterali su di voi e le tasche della collettività. Fissiamo intanto nella mente che ieri, 18 agosto 2021, negli USA sono morti, per COVID, 1000 persone. Tra guerre autolesionistiche super costose e business della ricostruzione annessa e trasformazione della sanità in chiave di un prioritario contrasto alle ondate pandemiche, l’economia del Pianeta, condizionata dal travolgente cambio climatico, assumerà forme impreviste dalle attuali classi dirigenti del mondo intero.
La ricostruzione storica che trovate a seguire è opera utile di Edoardo Almagià ed è comparsa sull’ultimo numero (quello del commiato) del prezioso trimestrale “Affari Esteri” diretto da Achille Albonetti di cui vi ho parlato nel post ELISABETTA BELLONI (OGGI DIRETTRICE DIS) E L’INNEGABILE PATRIMONIO DELLA RIVISTA “AFFARI ESTERI”
Recuperando il testo di Almagià (che personaggio interessante) non sto ipotizzando il ritorno pedissequo di una stagione delle pestilenze con quegli effetti falcidianti, ma eviterei di rimuovere la complessità del cataclisma in essere. Guerre, insorgenze terroristiche, infezioni dilaganti, fame e sete per centinaia di milioni di ultimi sono una miscela da sballo che la comunità degli umani difficilmente saprà risolvere senza che, come invoco da tempo, si arrivi a dare spazio e autorità ai filosofi (così chiamo i pensatori complessi della contemporaneità) che, unici, mi appaiono capaci di elaborare pensiero utile per la transizione e il governo dei tanti futuri possibili. Ecco il senso di quell’appuntamento ideale che indico nel Congresso Mondiale di Filosofia che è previsto si tenga in Australia, a Melbourne, il 2 luglio 2023.
E di cui vi parlo da tempo.
Oreste Grani/Leo Rugens
P.S.
E poi la rivista che cito non mi è simpatica solo per i motivi benemeriti che ho cominciato, post dopo post, ad enunciare, ma in quanto trovo tra i membri del Comitato “Amici della Rivista Affari Esteri” un nome che, in momenti tanto difficili (anche in chiave personale) mi evoca la giovinezza e la stagione dei sogni che spesso ci si accompagna: Niccolò d’Aquino, che penso sia il Niccolò (gran signore e persona civilissima sin da giovane liceale) che ho avuto l’avventura di conoscere. Al Mameli, troppi anni addietro.

CORONAVIRUS E MORTE NERA ALCUNE RIFLESSIONI
di Edoardo Almagià
Preambolo
La recente pandemia causata dall’avanzare del Coronavirus ha avuto inizio in Cina nell’importante centro di Wuhan, con tutta probabilità nel suo grande mercato alimentare. Per motivi di opportunità politica il Partito Comunista Cinese all’inizio ne ha sminuito la pericolosità ed il potenziale di contagio.
Si trattava infatti di non disturbare le festività dell’anno nuovo e le assemblee nazionali per la scelta dei delegati da inviare a Pechino. Oggi nel mondo si è giunti ad un totale di circa 6 milioni di contagi e 370.000 mila decessi. Questa situazione è da considerarsi come un segnale e costringe a porsi non poche domande: tra il 1960 e il 2004 sono emerse 335 nuove malattie infettive. Qualcosa vorrà dire”.
Questa situazione è da considerarsi come un segnale e costringe ad affrontare non poche domande.
Il modo con il quale sono evolute le nostre società non può non avere delle conseguenze. I nostri rapporti con le altre specie sono cambiati, a partire dalla rivoluzione agricola iniziata poco più di 10.000 anni fa.
Con i primi passi nella domesticazione e nell’allevamento degli animali nel Neolitico, sono apparsi i primi virus: vaiolo e rosolia. All’epoca però di persone in giro ve ne erano molto poche mentre oggi siamo numerosissimi e lo diventiamo sempre di più. Questo ci rende più vulnerabili.
Più cresciamo in numero, più ci si espande e più ci muoviamo, più grande è il numero di patogeni che finiscono con l’interessarsi a noi: lo spazio disponibile si restringe e minore è il numero delle specie da aggredire. Più siamo, più ci spostiamo, più viaggiamo e meno si è capaci di proteggerci e di difenderci. A farla breve, per stare bene tutti è necessario che a star bene sia anche l’ambiente.
Ci si è dimenticati che eravamo protetti da un equilibrio precario e che le specie animali hanno bisogno di nutrirsi e di un loro ambiente e perciò sono costrette ad avvicinarsi a noi. La diversità una volta faceva da scudo, la promiscuità di oggi, l’uniformazione dei nostri tipi di vita e la graduale perdita di biodiversità non fanno che allargare la possibilità di contagio.
Viviamo in un periodo inquieto nel quale ai problemi portati dalla globalizzazione, dall’apparizione di nuove tecnologie, da disuguaglianze e guerre commerciali si vanno ad aggiungere a gravi problemi internazionali, forti tensioni geopolitiche, preoccupazioni riguardo lo sviluppo demografico e, non ultimo, il cambiamento climatico.
Tutto ciò contribuisce ad indebolire, se non addirittura destabilizzare, molti paesi perché non adeguatamente attrezzati ad affrontare una crisi di salute pubblica. Resta a questo punto di chiedersi come reagiranno le società e le economie, in che modo cambieranno le abitudini e che conseguenze questa crisi potrebbe avere sulla democrazia.
Sappiamo intanto che l’attività manifatturiera globale ha subìto la sua maggiore contrazione al punto di non essere mai stata così bassa dal 2008.
I debiti si stanno moltiplicando mentre ne diminuisce la qualità ed i tassi negativi risultano sempre meno efficaci a stimolare la domanda. Di fronte a qualcosa che ancora non si conosce bene sono aumentati i timori e le angosce dei cittadini. In ogni paese il male viene affrontato con strategie diverse e con le autorità che quasi sempre procedono per tentativi.
Queste alcune considerazioni generali. Il segnale che ci arriva e le domande da porsi riguardano soprattutto la sostenibilità del nostro attuale sistema economico e di sviluppo e fino a quando sarà possibile continuare con questo ritmo.
In Cina sessant’anni fa si mangiavano in media cinque chili di carne l’anno. Oggi se ne consumano sessanta. Gli allevamenti in Asia contano settanta miliardi di capi di bestiame. Tra una trentina di anni si pensa saranno il doppio e questo perché ad essere copiati sono i consumi e le abitudini alimentari dell’Occidente. Una volta nei Paesi meno sviluppati ci si nutriva molto più di cereali che di carne.
La domanda di carne sta aumentando anche in India, la cui popolazione potrà presto superare quella cinese e che intanto si appresta a diventare leader mondiale nell’industria del pollame. Al fine di illustrarne le conseguenze, basta ricordare che negli Stati Uniti in media si consumano oggi intorno al 65 kg di pollo l’anno. In India si è a 5.
Le conseguenze sono che con l’aumento della popolazione, l’incremento della ricchezza, il miglioramento degli stili di vita e la crescita dei consumi, vengono alterati e si riducono gli habitat naturali, come giungle e foreste tropicali. Oltre all’uomo, a subirne le conseguenze sono soprattutto le specie animali con tutte le loro abitudini.
Molte di queste specie, infatti, per via dell’intrusione e dello sconfinamento degli uomini che penetrano nel loro ambiente sono costrette a spostarsi in luoghi nei quali prima non vivevano. Questa crescente promiscuità tra noi e gli animali selvatici consente un salto della barriera della specie. Pipistrelli, serpenti, scimmie, pangolini e altri diventano così fonte di trasmissione di patogeni da una specie all’altra.
Spesso i primi ad esserne colpiti sono animali a noi vicini, come il maiale. Da questi all’uomo il passo è breve e da qui l’aumento pericoloso delle zoonosi ed il fatto che questi virus hanno la possibilità di mutare ed adattarsi.
Altro problema è quello degli allevamenti intensivi, nei quali spesso gli animali vengono tenuti in strettissimo contatto. Per evitare il diffondersi di infezioni o di malattie questi vengono riempiti di antibiotici, al punto che metà degli antibiotici consumati nel mondo lo sono in questi allevamenti.
Col tempo, però, questi medicinali finiscono col perdere efficacia, portando inesorabilmente i virus a diventare più resistenti e ad attaccare l’uomo. Un terzo dei decessi nell’Unione Europea è oggi causato da batteri resistenti ad antibiotici.
In quanto al mercato degli animali selvatici, questo corrisponde oggi ad un giro di affari vicino ai settanta miliardi di euro l’anno. Ulteriore problema quello della filiera alimentare, caratterizzata da troppa specializzazione e concentrazione.
Sia sufficiente pensare che nei soli Stati Uniti sono quattro le grandi società che controllano l’80% della distribuzione della carne. Oltre il 75% delle malattie infettive è di origine animale, mentre il 70% dell’industria della carne, del pesce e dei prodotti caseari presentano pericoli di contagio per l’eccessiva prossimità tra loro degli animali.
Queste realtà rendono necessario ripensare i meccanismi di sviluppo delle nostre società e trovare nuovi equilibri e modelli di consumo più sostenibili.
Nel suo agire, il comportamento umano si è spesso mostrato così irresponsabile e nefasto da rendere inevitabili nuove epidemie, potenzialmente tanto più gravi quanto è crescente la mobilità non solo delle merci e dei capitali ma soprattutto delle persone. Basti pensare che sui nostri cieli volano ogni giorno circa 90.000 aeroplani.
Questa tendenza alla mobilità si porta appresso un potenziale di rapida diffusione delle malattie in tutto il globo, reso più grave dall’addensarsi di un numero sempre maggiore di persone in vasti agglomerati urbani.
Dopo l’apparizione di malattie quali Aids, Zika, Sars ed Ebola questo del Coronavirus è un altro segnale che invia la natura in risposta ai nostri ritmi di sviluppo, di crescita e di consumi. Non a caso, questi ultimi sessant’anni sono stati un periodo di grande espansione ed arricchimento.
A testimoniarlo, anche l’esplosione del debito globale in rapporto al PIL mondiale: nel 2019 questa proporzione era del 322%, equivalente alla cifra record di 253 mila miliardi di dollari. La crisi portata dal Coronavirus ne farà esplodere con tutta probabilità un’altra: quella del debito.

Introduzione
Con il diffondersi del Coronavirus nel mondo ho voluto prendere qualche tempo per parlare di un’altra pandemia, questa avvenuta nel Medioevo e passata alla storia come la “Morte Nera”.
Similmente al Coronavirus, la “Morte Nera” ebbe origine in Cina per poi diffondersi tramite le grandi vie commerciali e gli altri percorsi umani. In un mondo meno avanzato e per nulla attrezzato ad affrontarla, quest’epidemia ebbe effetti devastanti al punto che oggi si pensa che l’Europa abbia perduto fino al 75% della popolazione nel secolo che seguì il 1348.
Le ricadute furono numerose e si protrassero fino alla soglia dei tempi moderni. Basti pensare alla descrizione del Manzoni della peste che colpì il Ducato di Milano nel 1630. Nel XVIII secolo l’arrivo nel porto di Marsiglia del Grand Saint Antoine causò un’ulteriore epidemia e riguardo al mondo islamico, colpito non meno gravemente dell’Europa, basterebbe fermarsi al Louvre di fronte al quadro di Antoine-Jean Gros dipinto nel 1804 e rappresentante la visita di Napoleone agli appestati di Jaffa.
Guardando al passato, ci si può rendere conto che le malattie infettive non sono caratteristiche dei giorni nostri. Ne possiamo tracciare la storia dagli oltre mille anni che ci separano dal Medio Evo e da lì all’antichità.
Tra la fine del VI Secolo a.C sino al tramonto dell’Impero di Roma vi sono state più occasioni di contatto tra le civiltà dell’occidente e quelle della Cina, dell’Asia Centrale, dell’India e dell’Alta Valle del Nilo.
Questi incontri fra persone hanno portato anche il contatto con diverse specie animali.
Ad eccezione della peste di Atene, che tra le sue vittime ebbe anche Pericle, nel mondo classico non vi sono state grandi epidemie. La mobilità che ha caratterizzato i successivi imperi antichi ha fatto sì che questi divenissero vettori di incubazione di future e sconosciute malattie.
La peste di Atene
La tragedia che colpì Atene – come narra lo storico Tucidide – avvenne nel 430 a.C., nel corso del secondo anno della guerra del Peloponneso. Assediata dagli Spartani, la città si era chiusa entro le grandi mura ed aveva accolto un gran numero di persone che vi avevano cercato rifugio di fronte all’offensiva nemica. Al suo interno regnavano affollamento, confusione, disordine e sporcizia.
Topi, pidocchi, mosche e altri insetti proliferavano in stretto contatto alla popolazione. Benché ancora oggi non si è sicuri della natura esatta del male, sappiamo da Tucidide che Etiopia, Egitto e Libia erano state investite da una qualche gravissima forma epidemica.
Con tutta probabilità l’infezione entrò dalle banchine del porto del Pireo, unico collegamento con l’esterno che permetteva alla città di rifornirsi. È dunque dalle rotte commerciali marittime della città, stretta d’assedio, che devono essere penetrati gli agenti patogeni.
Si calcola che le vittime siano state tra le 70.000 e le 100.000. L’anno successivo la pestilenza investì gran parte dell’oriente Mediterraneo e una successiva ondata si verificò nell’Inverno del 427 – 426 a.C.

Le epidemie nell’Impero Romano
Nel caso di Roma, a collegare le parti dell’impero non erano soltanto i 90.000 km di reti viarie che dalle isole britanniche alla Mesopotamia permettevano di raggiungerne ogni punto, ma anche un vasto reticolato di vie marittime, sia commerciali che militari, che convergevano verso il Levante.
Da lì, attraversando le terre d’Arabia, queste raggiungevano l’Oceano Indiano, l’India e l’Asia Meridionale. In Occidente portavano invece verso Grecia, Italia, Francia Meridionale e Penisola Iberica. A queste vie occorre aggiungere anche quelle fluviali, come ad esempio quella del Rodano, che consentivano alle merci di raggiungere le regioni interne.
Alcune delle navi da carico erano molto capienti, al punto di poter trasportare addirittura un obelisco. Oltre all’equipaggio vi potevano trovare posto anche eventuali viaggiatori. Al loro interno non di rado si infilavano insetti e roditori, che potevano diventare mezzi di contagio di pericolose malattie. Questo poteva avvenire anche in imbarcazioni di stazza minore, che solcavano i mari in numero maggiore.
Sappiamo dalle testimonianze del periodo che una pestilenza scoppiò nel 165 d.C. Raggiunse il suo picco tra il 166 e il 167, trascinandosi fino al 180. Oggi conosciuta come “peste Antonina”, l’epidemia investì sia l’Italia che la parte occidentale dell’Impero. A portarla furono con tutta probabilità le legioni impegnate a combattere i Parti, spina nel fianco orientale delle difese di Roma. Oggi pensiamo si sia trattato di vaiolo, una delle malattie più contagiose e letali per chi è privo di difese immunitarie.
Galeno, celebre medico dell’epoca, stimò che nel corso dei 15 anni della sua durata, quest’epidemia uccise nella penisola italiana da un terzo ad un quarto della popolazione. In ambito militare si pensa che la mortalità abbia raggiunto il 20% degli effettivi e che in tutto le vittime siano state circa due milioni.
Quasi un secolo più tardi, in un’epoca di grande caos per l’Impero, apparve sotto il regno di Treboniano Gallo una nuova grande pandemia. Tra le sue prime vittime il giovane Ostiliano, figlio adottivo dell’imperatore stesso.
Dalla descrizione fatta da Cipriano, Vescovo di Cartagine, si pensa possa essersi trattato di rosolia o morbillo. Scoppiata nel 251 d.C., questa si protrasse fino al 260 e nei suoi momenti di maggiore intensità è stato detto che nella sola Roma morissero 5000 persone al giorno.
In quello stesso anno, l’esercito di Valeriano impegnato a contrastare una nuova offensiva persiana e assediato da Shapour ad Edessa, fu decimato dalla pestilenza.
L’imperatore, catturato con l’inganno, terminò la sua vita come schiavo. Benché non più giovane, fu costretto ad accovacciarsi a mo’ di sgabello ogni qualvolta il sovrano persiano doveva salire a cavallo. Quando morì fu scuoiato e la sua pelle, tinta di rosso, portata all’interno di un tempio per esservi appesa come macabro avvertimento alle delegazioni romane che in futuro si sarebbero recate in visita.
Per i primi scrittori cristiani tutto ciò non era che evidenza della collera di Dio. Con i suoi editti del 257 e del 258 d.C. diretti soprattutto contro i Cristiani e la gerarchia ecclesiastica, Valeriano volle reagire alle calamità che in quegli anni stavano flagellando l’Impero. Tra guerre, carestie, ribellioni e, soprattutto, la pestilenza il suo regno fu tra i più infelici e tormentati, al punto che la sua cattura per poco non si tradusse nel crollo di tutto l’edificio imperiale.
Queste epidemie avevano tutte avuto origine da un virus che si trasmetteva attraverso le vie respiratorie e che risultava devastante per le popolazioni che ne entravano in contatto per la prima volta. È indubbio che queste due grandi pestilenze ebbero un ruolo nel declino dell’Impero: falcidiarono la popolazione italiana, indebolirono l’esercito e ridussero il numero dei contribuenti. Portarono anche all’abbandono di vaste aree agricole, soprattutto in Sicilia e nelle province dell’Africa Settentrionale, e ad una sostanziale riduzione dei traffici tra Oriente e Occidente.
Di una quarta pandemia scoppiata nel 541 d.C. sappiamo che risultò ben più tremenda delle precedenti. Veicolo di trasmissione furono roditori quali il ratto, la marmotta e il gerbillo. Il suo bacillo viveva nei tratti digerenti delle mosche che ogni tanto bloccava, costringendole a rigurgitare sulle loro vittime un gran numero di batteri.
Questi, una volta trasmessi, invadevano le vie polmonari o penetravano il sistema nervoso. Vettori secondari furono anche gli animali domestici e da cortile. In questo caso sappiamo si è trattato della peste.

Alcune considerazioni sulla peste
Meglio informati, siamo oggi a conoscenza che in simili epidemie l’essere umano non è tra gli ospiti preferiti di questo tipo di batterio: vi entra in contatto e ne viene colpito a seguito di mutamenti dell’ecosistema nel quale vivono quegli insetti e roditori dei quali abbiamo parlato prima. Un suo ruolo lo ha anche il clima date le possibili variazioni della temperatura. In Europa vettore principale fu il topo, in particolare quello nero.
Di pesti ne conosciamo tre tipi: bubbonica, setticemica e pneumonica.
La prima è la più comune e la meno letale, ma sempre in grado di uccidere la metà o poco più delle sue vittime. Il suo periodo di incubazione è di circa sei giorni ed in ultimo conduce a disturbi neurologici e psicologici.
La seconda è la meno comune. È sempre letale perché presente in grandi quantità nel flusso sanguigno. Il contagio avviene tramite insetti, soprattutto mosche o pidocchi, quando questi vivono in prossimità delle persone.
L’ultima è la sola ad esser trasmessa da persona a persona. Si manifesta nel caso di una rilevante diminuzione della temperatura esterna ed il suo periodo di incubazione varia dai due ai tre giorni. Aggredisce i polmoni e all’infezione seguono complicazioni neurologiche ed infine il coma.
È mortale nel 95 – 100% dei casi.
La peste è stata la più virulenta delle malattie infettive a colpire l’uomo. Tende a manifestarsi sotto forma di pandemie, ossia un certo numero di epidemie che ricorrono ad intervalli ciclici variabili dai 2 ai 20 anni in una micidiale combinazione di sequenza e virulenza.
I suoi bacilli si definiscono enzootici quando endemici ad una popolazione di roditori che fa da mezzo di trasmissione. In quanto alle mosche, tendono ad avvicinarsi all’uomo solo in caso di decremento o assenza di ospiti secondari.
Epidemie nel mondo tardo antico e bizantino
I bacini di questo male furono la regione dello Yunan in Cina, l’Asia Centrale, l’Asia Orientale e la Penisola Arabica. In epoca Medievale due pandemie di peste investirono l’Europa: la prima, conosciuta con il nome di “Peste di Giustiniano”, dall’Africa Orientale si trasmise lungo il corso del Nilo fino a giungere alle terre del Basso Egitto.
Da lì proseguì per rotte terrestri e marittime giungendo nel Mediterraneo Orientale. Dallo storico bizantino Procopio sappiamo che quando l’Imperatore di Bisanzio cercò di riconquistare dalle tribù germaniche le province occidentali di quello che una volta era l’Impero di Roma, “scoppiò una pestilenza che quasi annientò l’intera razza umana”.
Manifestatasi tra la popolazione egiziana dell’importante centro di Pelusium, giunse presto ad Alessandria per poi diramarsi nel resto dell’Egitto fino in Palestina e da lì propagarsi ovunque.
Tra il 541 ed il 542 d.C., nello spazio di soli quattro mesi, uccise quasi la metà dell’intera popolazione di Costantinopoli. Sappiamo che investì le terre del Nord Africa, l’Italia e la Spagna, ove rimase fino all’autunno del 544 d.C., poi la Francia meridionale e la Valle del Reno, infine Danimarca e Irlanda. Colpì anche l’intera penisola Arabica, l’Asia Centrale e quella del Sud.
Quando finalmente esaurì il suo slancio aveva sterminato forse il 25% delle genti a sud delle Alpi. Il potere e la forza di Bisanzio subirono un tale colpo che l’Impero d’Oriente fu costretto ad abbandonare le sue conquiste occidentali ed è probabile che questa pestilenza contribuì ad indebolirlo al punto da causarne la sconfitta a seguito degli assalti delle genti arabe.
La peste ricomparve tra il 558 e il 561 d.C. Ebbe sempre inizio in Egitto, si estese di nuovo verso Costantinopoli e l’oriente mediterraneo, per poi giungere via mare sino a Ravenna e Genova e da lì al meridione della Francia. Una nuova ondata si verificò tra il 580 e il 582 d.C.
Una successiva dal 588 al 591 d.C. Questa venne aggravata da episodi di vaiolo. Un’ultima grande manifestazione ebbe luogo tra il 599 e il 600 d.C. Sappiamo che vi perse la vita all’incirca il 15% della popolazione della Francia meridionale e dell’Italia.
Nell’area meridionale dell’Europa, soprattutto, abbiamo testimonianza di successive pandemie nel corso del VII e del VIII secolo. Risultarono meno virulente e scoppiarono nel 608, 618, 628, 640, 654, 684-86, 694-700, 718, 740-750 d.C. Portata dalla navigazione commerciale, nel 762 d.C. una nuova epidemia di peste raggiunse Napoli, il sud dell’Italia e la Sicilia.
Con la fine del VIII secolo d.C. si chiuse il periodo della prima grande pandemia a colpire l’area mediterranea. Questa fu un’importante causa di arretramento per il continente europeo. Per via delle sue frequenti ricorrenze, si stima che dal 514 al 700 d.C la popolazione diminuì del 60%, precipitando al di sotto di quella del 541 d.C.
Le rotte commerciali così come le abitudini di scambio ne uscirono stravolte. Lo stesso avvenne per la produzione e la distribuzione delle derrate alimentari.
A parte qualche rara epidemia limitata ad aree costiere, l’Europa non ebbe a subire ulteriori pestilenze fino al 1347, tanto da conoscere un lungo periodo di espansione e crescita demografica. Le sole malattie infettive che seguirono furono portate da carestie o avevano a che vedere con il mondo vegetale, come nel caso del “Fuoco di Sant’Antonio”. Dal X al XIII secolo la malattia più ricorrente e più temuta fu la lebbra: riempiva la gente d’orrore per le piaghe e le devastazioni che lasciava sul corpo.
A chi ne risultava colpito era vietato frequentare luoghi pubblici o metter piede nelle taverne, doveva indossare abiti particolari e portare guanti e scarpe in ogni occasione. Gli era consentito di toccare le cose solo con un bastone e nel caso qualcuno avesse voluto rivolgergli la parola era costretto a tenersi sottovento.
Il solo rimedio disponibile consisteva nel tenere le sue vittime lontane dal resto della popolazione. I casi più numerosi si ebbero nel corso dei primi anni del Trecento ed il male poi diminuì gradualmente fino a sparire del tutto entro il 1400.

Sviluppi in Europa tra il X e il XIV secolo
In questo periodo la popolazione in Europa crebbe del 300% arrivando a toccare i 70/80 milioni dai circa 25 milioni del 950 d.C. Furono anni di forte militanza religiosa lungo i quali l’Europa cristiana era andata espandendosi sino ad includere la Penisola Iberica, la Russia e la Palestina.
Contemporaneamente si ebbe un grande sviluppo dei commerci e dei viaggi, che coincise con l’apertura di nuovi passi alpini, l’inaugurazione di linee marittime dirette tra l’Italia e le città Olandesi e l’integrazione dell’area interna del Baltico e del Mare del Nord con il resto del continente. Conobbero forte sviluppo e crescita anche i rapporti tra l’Europa, il mondo asiatico e l’Africa, soprattutto quella sub-sahariana per via del commercio dell’oro.
L’incremento della ricchezza fece aumentare la domanda di beni di lusso, soprattutto spezie, col risultato che un numero sempre maggiore di navi salpavano verso i porti dell’oriente mediterraneo, del Mar Nero e poi in direzione dell’Asia Meridionale e Centrale. A moltiplicarsi furono anche i traffici terrestri, con un numero sempre maggiore di carovane ad unire la Cina all’Asia Centrale e al vicino Oriente e da lì all’Europa.
Fiorirono così i commerci tra Oriente e Occidente e crebbe il numero dei mercanti, degli intermediari e dei viaggiatori. Ci si spostava con sempre maggior frequenza e mondi fino a quel momento distanti entrarono in più stretto contatto.
A ricordarci tutto questo, il celebre viaggio intrapreso dal veneziano Marco Polo lungo la Via della Seta conclusosi presso la corte dell’imperatore mongolo Kublai Khan. Fece ritorno a casa dopo ben ventiquattro anni.
Nel corso del XIII secolo qualcosa iniziò però a cambiare, tanto che non pochi iniziarono a notare delle variazioni nel clima. Queste finirono con l’alterare in tutta l’area euroasiatica l’ambiente nel quale vivevano insetti e roditori, coincidendo anche con l’avanzata verso occidente delle tribù mongole e dei loro temibili cavalieri che con Gengis Khan iniziarono a sottomettere l’Asia Centrale.
Fu così che dalle distese del deserto del Gobi i mongoli e i loro convogli raggiunsero lo Yunan, nella Cina Meridionale. In gran numero portarono indietro con sé nella loro capitale Karakorum insetti e roditori infetti dal Bacillo della peste. Altri roditori divennero a loro volta infetti e fu così che i cavalieri mongoli, spostandosi nelle varie direttrici dell’Impero diffusero di nuovo la peste.
Intorno al 1330 iniziarono ad arrivare in Europa voci di disastri naturali in Asia. Sappiamo di una pestilenza che si ma- nifestò in Cina verso la metà del secolo e che a seguito di successive ondate fece precipitare la popolazione da oltre 125 milioni a 90. Meglio informati siamo su quello che avvenne in Occidente tra il 1330 e il 1346.
La pestilenza si manifestò in due modi: il primo tramite una migrazione di roditori dovuta a cambiamenti nell’ecosistema ed il secondo, per le attività dell’uomo, lungo il complesso sistema di reti commerciali che si era andato sviluppando tra il XII e il XIII secolo. Le arterie principali erano tre:
- una via terrestre protetta dalla pax mongola e percorsa da numerose carovane che, attraversando la Cina Settentrionale, raggiungevano l’Asia Centrale e da lì gli empori del Mar Nero;
- una rotta marittima destinata al trasporto delle spezie dal meridione asiatico. Attraversando l’Oceano Indiano, le navi arrivavano in occidente per approdare infine nelle acque del Golfo Persico. Lì venivano scaricate e a dorso di cammello, passando per il nord dell’Arabia, raggiungevano la costa del levante;
- vi era infine una rotta, anch’essa marittima, che partendo sempre dall’Asia del sud raggiungeva l’Oceano Indiano e da lì, aggirando la Penisola Arabica, superava lo Yemen per terminare nei porti del Mar Rosso. Via terra, poi, le merci giungevano nei porti del Nilo o a Gaza;
Alla fine di ognuno di questi percorsi dal Mar Nero operavano i mercanti di Genova e nel Mediterraneo soprattutto quelli pisani e veneziani. Questi a loro volta trasportavano via nave le merci in Italia, nel sud della Francia e in Catalogna. Via terra e tramite percorsi fluviali, queste in seguito raggiungevano i paesi del nord Europa. Questo percorso venne ampliato quando nel 1221 navi genovesi penetrarono nell’Atlantico per raggiungere la Manica e i porti olandesi.
Mentre in Oriente migliaia di combattenti cristiani sbarcavano in Terra Santa per liberarla dai Turchi, quelle parti dell’Europa che l’Islam controllava vennero gradualmente riconquistate. Malgrado il conflitto, genti che sinora non si conoscevano bene entrarono in contatto: nuove idee vennero introdotte in Occidente, ne ingentilirono i modi e contribuirono ad accrescerne lo sviluppo, al punto che oggi si parla di un rinascimento del XII secolo.
Nella prima metà del XIII secolo l’Europa medievale aveva raggiunto l’apice del suo sviluppo. Cresceva l’influenza della Chiesa, diveniva più efficiente l’operato dei governi, si erano fondate nuove città, aumentava la conoscenza e acquisivano importanza le università.
A testimoniare questo grande sviluppo, svettavano in tutta la loro altezza le magnifiche cattedrali gotiche. Questo purtroppo non era destinato a durare.

La piccola era glaciale
Dal 1300 al 1347 le cose improvvisamente peggiorarono: il freddo si fece talmente acuto che non poche delle rotte marittime settentrionali dovettero essere abbandonate. Si era agli inizi di quella che oggi conosciamo come “la piccola era glaciale”.
Le conseguenze più gravi si ebbero sulla produzione agricola tanto che, nella seconda metà del XIII, secolo l’Europa scivolò in un clima di stagnazione seguito poi da un ciclo di povertà.
Apparvero le prime carestie in Germania, Inghilterra e Francia e successivamente in parti del bacino mediterraneo.
Questi mutamenti climatici investirono anche l’Oriente. Sap- piamo che i pastori nomadi mongoli e quelli di stirpe turca furono costretti a spostare i loro greggi per andare alla ricerca di pascoli migliori. I roditori selvatici dell’Asia Centrale furono costretti a spostarsi in cerca di acqua e nutrimento ed iniziarono così ad infettare i roditori del luogo.
A questo seguì un insieme di disastri naturali quali terremoti, siccità e, nel 1334, una serie di alluvioni. Poi giunse la peste.
Da antiche cronache sappiamo che nella regione dello Tien Sham buona parte della comunità nestoriana, poco distante dalle rive del lago Issyk Kul, fu annientata da un’epidemia di peste bubbonica scoppiata nel 1339.
Più avanti nel corso dell’anno, la peste fece la sua comparsa nei centri di Belsagun, Talas e Samarcanda. Nel 1345 era giunta a Sarai, grande polo commerciale.
L’anno successivo arrivò ad Astrakhan, nel Caucaso, e poi in Azerbaijan, per giungere nel mese di Settembre in Crimea. Lì i genovesi avevano numerosi empori ed il Mediterraneo non era distante.
La grande peste colpisce l’oriente mediterraneo
Nel 1347 la peste raggiunse Bisanzio per approdare poi nell’Egeo e a Rodi. Mercanti italici la portarono anche sulle coste mediterranee abitate dai musulmani. Nell’autunno raggiunse Alessandria, il più grande porto dell’Egitto, dove uccideva ogni giorno dalle 100 alle 200 persone.
Le cose peggiorarono con l’arrivo del freddo: i morti salirono a 750 al giorno per poi toccare i 1000 all’inizio dell’anno successivo. Le vittime furono così numerose che per tornare alla stessa popolazione di prima dell’epidemia, la città dovette attendere fino al XVI secolo.
Seguirono il delta del Nilo, Damietta, Bibais, dove i cadaveri accumulati per i vicoli erano in tale numero che i banditi li usavano per tendere imboscate. Nella primavera dell’anno successivo, venne il turno de Il Cairo: le vittime raggiunsero le 1000 al giorno, ma fonti parlano anche di giornate con 20.000 morti.
Nelle botteghe e nelle moschee della città tali erano le pile di cadaveri che non si trovavano più bare e, arrivato l’autunno, vennero a mancare persino i sudari. Si ritiene che a perire fu quasi metà degli abitanti, ossia circa 200.000 persone.
Nel Febbraio del 1349 la pestilenza scese verso Assuan e poi Asyut. Il centro di Gaza venne colpito nella primavera del 1348, costringendo a chiudere per due mesi i mercati alimentari. Da lì si propagò in tutta la Palestina, investì la Siria per toccare a fine anno Antiochia e Damasco – due delle città più grandi del Mediterraneo – che persero quasi la metà dei loro abitanti. Non fu risparmiata neppure La Mecca, Città Santa dell’Islam.
Queste le parole da un testo dell’epoca: “L’India si è spopolata, la terra dei Tartari, la Mesopotamia, la Siria e l’Armenia sono coperte di cadaveri. I Curdi invano cercano nelle montagne di sfuggire alla morte, mentre in Caramania e Cesaria non vi è rimasto più nessuno in vita”.
Via mare e via terra dall’Egitto la peste invase il Nord Africa ed in questo ebbero un ruolo anche i mercanti pisani, genovesi e siciliani. Tunisi fu colpita nella primavera del 1348. L’anno successivo l’intero mondo musulmano era stato contagiato e a perire fu circa il 30% dell’insieme della popolazione.
Nei centri urbani il tasso di mortalità poteva raggiungere il 40 – 50%. A tal punto devastante fu l’effetto che lo storico Ibn Khaldun scrisse: “La situazione era tale da sfiorare l’annientamento della popolazione ed il dissolversi dell’intera società. Col ridursi del genere umano diminuiva anche la civiltà, devastate furono intere città ed un gran numero di edifici, cancellate strade e segnalazioni. Case e insediamenti si svuotarono e venivano decimate tribù e dinastie. Con i suoi abitanti tutti l’intero mondo era cambiato”.
Le cose non andarono meglio altrove: navi italiane portarono il morbo nelle isole dell’Egeo e poi, via Rodi, a Cipro. Questo sappiamo da uno storico bizantino: “Tale calamità non si limitò ad annientare solo gli uomini, ma sterminò anche molti degli animali che con loro vivevano e che da loro erano stati addomesticati. Intendo dire cani, cavalli, tutte le specie di uccelli e persino i topi che alloggiavano all’interno delle case”.

Il male arriva in Italia
Nell’Ottobre del 1347 una flotta Genovese giunse a Messina, allora il porto più importante della Sicilia. Benché alle navi fu proibito restare, queste rimasero all’ancora il tempo sufficiente per infettare sia i roditori che vi si trovavano che i suoi abitanti. La pestilenza si estese rapidamente costringendo molti a fuggire. Fu così che la peste raggiunse Catania. Con l’arrivo del mese di Dicembre, l’epidemia si era diffusa nell’intera Italia Meridionale e in buona parte del Sud Europa. Verso la fine dell’anno sbarcò inevitabilmente anche nel porto di Genova.
Stessa sorte toccò a Pisa, che perse tra il 30 e il 40% della popolazione. Da lì dilagò in Toscana, la regione più prospera e moderna della Penisola. Prato perdette il 40% dei suoi abitanti. Venne poi il turno di Pistoia, Lucca, Siena, che perse due terzi dei suoi abitanti e Firenze, che nello spazio di sei mesi vide morire metà della popolazione.
Dal mercante pratese Francesco Datini sappiamo che in quel centro tessile la mortalità raggiunse il 40%. Nel Maggio del 1348 la malattia colpì anche Orvieto che, nel corso dell’Estate, perse giornalmente il 3% della cittadinanza.
Agnolo da Tura, banchiere senese, ci ha lasciato questa drammatica testimonianza: “Nel mese di Maggio la gente iniziò a morire. Si trattava di una cosa orribile e crudele, al punto da risultare impossibile a lingua umana narrare l’orrore dei fatti. In molti luoghi della città furono scavati grandi pozzi che vennero poi riempiti da un gran numero di cadaveri. I morti furono centinaia sia di giorno che di notte e tutti venivano gettati in quelle fosse poi ricoperte di terra.
Appena riempite, se ne scavavano altre ancora ed io, Agnolo da Tura, detto Il Grasso, ho seppellito i miei cinque figli con le mie stesse mani, così come tanti altri hanno fatto. A perire fu un sì gran numero di persone che si credeva fosse giunta la fine del mondo”.
Sappiamo inoltre che “il padre abbandonava il figlio, la moglie il marito, il fratello l’altro fratello per il fatto che questa pestilenza sembrava diffondersi tramite gli sguardi ed il respiro. Fu così che morirono tutti e nessuno, né per denaro né per amicizia poteva trovarsi per seppellire i morti”. “Le campane avevano smesso di suonare e nessuno più piangeva, dato che tutti si aspettavano di morire”.
Verso la fine del 1347 galere provenienti dall’emporio genovese di Caffa in Crimea portarono la peste a Venezia. Benché fosse stato imposto un rigoroso sistema di quarantena a perire fu il 60% della popolazione.
Milano perse la metà dei suoi abitanti malgrado il suo Duca avesse cercato di proteggerla, ordinando di murare in casa chiunque avesse contratto il morbo, inclusi tutti i familiari. Neanche Roma fu risparmiata. I cadaveri si andavano accumulando e nel vagare per i suoi vicoli disseminati dagli scheletri di antichi monumenti invasi dalla gramigna la sensazione era delle più lugubri.
Per via dei tempi, a soffrirne di più fu l’Italia: vi furono prima una serie di bancarotte a Firenze, che furono seguite dal crollo della produzione agricola e dai tumulti operai del 1346 e 1347. Roma era insanguinata dalla rivolta di Cola di Rienzo. All’apparizione della peste si ebbe nel Gennaio del 1349 un fortissimo terremoto, che devastò l’intera penisola da Napoli a Venezia e le cui distruzioni giunsero fino alla Germania e alla Grecia.

L’epidemia arriva in Francia e Spagna
Dall’Italia, via mare la peste sbarcò a Marsiglia. Venne poi il turno di Montpellier. Passò ad Avignone, ove la mortalità toccò il 50% e sappiamo che vi perì un terzo dei cardinali. Successivamente toccò a Narbona, Carcassonne, Tolosa, Montauban e infine Bordeaux, lungo la costa atlantica. Si calcola che ognuno di questi centri perse intorno al 40% degli abitanti. Nella ricca Linguadoca la mortalità raggiunse il 50%.
A Perpignan, cittadina prossima al confine iberico, si arrivò al punto che cessarono le domande di prestiti. In quanto alle zone rurali del sud della Francia, l’infezione fu trasmessa, sia da gente che fuggiva dalle città portuali, che dallo spostamento dei roditori.
Ad essere risparmiata non fu neppure la Spagna: dal sud, la peste la raggiunse via Gibilterra tramite i califfati del Nord Africa ed in seguito da quelli della penisola stessa. Da nord entrò seguendo la via dei Pirenei. Navi mercantili italiane la portarono nelle Baleari da dove si diffuse nei grandi porti di Valencia e Barcellona. Nel Marzo 1350, Re Alfonso XI di Castiglia, impegnato nell’assedio della fortezza di Gibilterra, fu l’unico sovrano europeo a morire di peste.
In Portogallo, come in Catalogna, Aragona e Granada, la mortalità finì col portarsi via almeno il 30% degli loro abitanti. Nell’area del Mediterraneo il picco dell’epidemia era stato intanto raggiunto e si pensa che abbia ucciso circa il 40% dell’intera popolazione.
Dal sud della Francia, la peste risalì per le vie fluviali, come quella del Rodano e percorrendo gli altri itinerari commerciali. Borgogna e Normandia furono colpite nella Primavera del 1348. Si pensa che in quest’ultima a morire fu circa il 30% della popolazione. Nelle città di Caen e Rouen la stessa sorte toccò a quasi metà degli abitanti. Da lì a Parigi, il passo fu breve e le conseguenze altrettanto severe.
Jean de Venette, frate carmelitano e teologo dell’Università, scrisse: “La mortalità all’ospedale dell’Hotel de Dieu era così elevata che per un lungo periodo oltre cinquecento cadaveri venivano trasportati quotidianamente e con gran devozione per essere tumulati nel cimitero dei Santi Innocenti.
Comportandosi come sante ed incuranti della morte, molte delle sorelle che operavano nell’ospedale si prodigarono con gentilezza ed umiltà per alleviare le sofferenze dei malati. Senza pensare agli onori, in gran numero vennero raggiunte dalla morte”.
È il turno dell’Europa settentrionale
Venne poi la volta di Tournai, importante centro tessile del nord confinante con l’Olanda. Seguirono Ypres, Gent, Bruges, Bruxelles e Anversa. La peste da lì dilagò nelle Fiandre e nel Brabante. Particolarmente colpita risultò l’Olanda.
Forse nel Maggio del 1349 il contagio giunse nel Settentrione tramite il porto norvegese di Bergen, importantissimo centro commerciale della Lega Anseatica: vi fu avvistato un vascello proveniente da Londra, che andava alla deriva e il cui equipaggio era perito a bordo. Una volta arenatosi, venne abbordato dalle autorità municipali che volevano rendersi conto di cosa fosse accaduto. Questo bastò per scatenare la peste.
Benché le sue aree rurali fossero scarsamente popolate, la Scandinavia pagò un prezzo talmente alto che il Re Magnus scrisse: “Per tutti i peccati dell’uomo, Iddio ha flagellato il mondo con questa grande punizione di una morte improvvisa. Per via di questa, la maggior parte della nostra gente è morta”. Neppure l’Islanda e la Groenlandia furono risparmiate.

Il morbo sbarca in Inghilterra
Navi salpate dalla Guascogna, probabilmente da Bordeaux, centro di un fiorente mercato di esportazione vinicola, portarono il morbo in Inghilterra nel Settembre del 1348. Erano attraccate a Melcombe Regis, nel Dorset. La peste si diffuse poi a Bristol, ove colpì una prima volta nella sua forma bubbonica per mutarsi in pneumonica nel corso dell’Inverno.
Vi rimase sei mesi portandosi via quasi metà della popolazione. Venne poi il turno di Southampton, Plymouth ed Exeter. A Londra, il porto più importante del Paese, la peste giunse verso la fine dell’Autunno: a perirvi fu forse metà della popolazione e tale fu la devastazione che la città tornò ad avere lo stesso numero di abitanti solo agli albori del XVI secolo.
Intorno all’estate si diffuse in Cornovaglia, poi nelle Midlands, nel Suffolk, ad Oxford, Bicester, Wycombe, Lincoln e York. Nel Febbraio 1349 arrivò a Winchester. La regione più colpita fu quella dell’Anglia occidentale, che sappiamo essere stata raggiunta nella primavera dello stesso anno.
Nella parte orientale ad essere investite dall’epidemia furono Norwich, il centro commerciale ed ecclesiastico di Cambridge e Bury St. Edmunds. In questa regione la peste giunse sia via mare dall’Olanda che via terra da Londra e dall’Essex. Fu poi in Galles nel Marzo del 1349.
Nel mese di Luglio l’epidemia salì in Scozia, da dove John di Fordun la descrisse come un flagello mai visto prima, per aggiungere “che la pestilenza toccò un’intensità tale che quasi un terzo dell’umanità dovette scontare il suo debito con la natura.
Per volontà divina questo male ha condotto ad una morte misteriosa ed inconsueta, tanto che le carni degli ammalati apparivano rigonfie e tumefatte e che questi riuscivano a trascinare la loro esistenza terrena per appena due giorni”. Sappiamo che in Irlanda arrivò in Primavera, probabilmente via mare dai porti di Bristol e Chester.
Il minorita francescano John Clyn di Kilkenny lasciò questo lamento: “Affinché queste pagine non periscano insieme a chi le sta scrivendo e che questo testo non scompaia con chi lo redige, lascio della pergamena nel caso qualcuno riesca a sopravvivere per vedere il futuro o che qualche figlio di Adamo possa sfuggire a questa pestilenza e proseguire l’opera così iniziata”. A queste ultime parole un’altra mano poi aggiunse: “…e qui sembra che l’autore sia morto”.
In Germania tra peste e flagellanti
Salendo dall’Italia tramite i valichi alpini e dalla Francia e dall’Olanda tramite il Reno, la peste, che aveva attraversato l’Alsazia e la Lorena, giunse poi in Germania. Investì Munster, Lubecca, Brema, Amburgo, Norimberga, Magdeburgo e Wismar sulla costa Baltica. Si stima che nel Nord del Paese il numero di vittime si sia avvicinato al 30%.
Malgrado la mortalità fosse stata più bassa che altrove, apparvero movimenti quale quello dei flagellanti e si scatenarono violentissime reazioni contro gli ebrei.
Riguardo i primi, Jean de Froissart ci informa che questi penitenti emersero prima in Germania per poi dilagare altrove. “Erano uomini che facevano penitenza in pubblico e si flagellavano con fruste di un robusto cuoio con nodi e piccole punte di ferro.
Alcuni di loro lo facevano con tale forza da provocarsi copiose perdite di sangue tra le scapole e, portandosi appresso degli stracci, un certo numero di donne sciocche, vi raccoglievano il sangue sgorgato dalle ferite per poi strofinarseli sugli occhi gridando fosse sangue miracoloso”. Nel compiere questi rituali, i flagellanti intonavano inni pieni di tristezza sulla Natività e la Passione di Cristo. “Scopo di questa penitenza il far cessare tanta mortalità, perché in quel tempo era scomparso almeno un terzo dell’intero genere umano”.
Spostandosi di luogo in luogo a piedi scalzi, di solito spogliati fino alla cintola, si radunavano in vasti gruppi o formavano numerose bande. Portando candele, reliquie e corde legate intorno al collo, sfilavano in processione invocando i Santi ed il perdono della Vergine. Traversando incroci e passando per le piazze delle città o dei villaggi più grandi imploravano pietà.
Quando entravano in un paese si fermavano di fronte alla chiesa e al suono delle campane si inginocchiavano. Dopo essersi disposti in cerchio si frustavano spalle, braccia e schiena con tale zelo da provocare tagli e lesioni che spesso sanguinavano copiosamente. Era proibito loro radersi, lavarsi o cambiarsi d’abito, non potevano scambiar parola con nessuno e si negavano comodi giacigli per dormire.
Cantavano inni, celebrando la passione del Cristo e la gloria della Vergine Maria. In questo clima di fervore religioso veniva invocata pietà per tutti i peccatori. Intorno a loro la gente si dimenava, gridava, singhiozzava e si strappava i capelli pensando che così si sarebbero lavati i peccati del mondo ed evitate ulteriori sofferenze per via della peste.
L’epidemia non scomparve, apparvero e si svilupparono invece numerosi movimenti di stampo millenarista. Questo era particolarmente vero in Germania, dove si andava anche diffondendo l’idea che l’Imperatore Federico Barbarossa sarebbe riapparso sulla terra per annunciare l’inizio di una nuova era, nella quale i ricchi si sarebbero sposati con i poveri e i preti sarebbero stati cacciati.
Dai cieli sarebbe poi disceso il Cristo e, scomparsa la peste, l’umanità intera sarebbe entrata nella nuova era. Il 20 Ottobre del 1349 Papa Clemente VII emise una bolla condannando questi rituali ed ordinandone la proibizione.
I flagellanti ed i membri di altri gruppi millenaristi andavano predicando veementemente contro gli ebrei, accusandoli di avvelenare i pozzi e le acque ed anche di corrompere l’aria. Sappiamo da Jean de Venette che “basandosi su queste accuse, l’intero mondo insorse crudelmente contro di loro.
In Germania venivano massacrati e fatti a pezzi dai cristiani e, ovunque, a migliaia venivano bruciati in modo sommario”.
Massacri di ebrei ebbero luogo sia nella penisola iberica che nel resto dell’Europa meridionale. Gli episodi più violenti si verificarono però nel centro Europa, soprattutto in Svizzera, a Strasburgo, a Bruxelles, nella Renania e nelle città anseatiche lungo la cosa del Baltico.
Sempre dal de Venette sappiamo che tale era la forza della loro fede che “le madri scaraventavano i figli tra le fiamme per evitare loro il battesimo e poi vi si gettavano anche loro per ardere insieme ai figli e ai loro mariti”.
A tanta ostilità seguirono eccidi così numerosi da cancellare oltre sessanta importanti comunità ebraiche ed almeno centocinquanta più piccole. Si parla inoltre di altri trecentocinquanta massacri. È a quest’epidemia di peste nera che si deve lo spostamento verso Oriente della maggioranza degli ebrei sopravvissuti, in Polonia e Russia soprattutto, ove rimasero per circa 600 anni.
Le devastazioni in Europa orientale
Meno certe le notizie sull’oriente europeo. La Polonia dovrebbe aver perduto circa il 25% della popolazione. Nella Marca del Brandeburgo la peste giunse all’inizio del 1351. In Boemia scom- parve il 15% della popolazione ed in Ungheria il 30%.
Tramite Germania, Polonia e Lituania la pestilenza arrivò in Russia tra la fine del 1350 e l’inizio dell’anno successivo: si stima che le perdite ammontarono al 20 – 25% degli abitanti.
Di tutta quest’area ancora oggi non si conosce molto, salvo che centri urbani ed aree rurali furono colpite con pari intensità e che si trattò di una immensa catastrofe demografica.
Successive ondate del morbo
Verso la fine del 1351 la morte nera aveva esaurito la sua spinta. Da emissari di Papa Clemente sappiamo che nello spazio di questi tre anni le vittime nell’Europa cristiana ammontarono a quasi 24 milioni, su una popolazione iniziale di circa 75 milioni. La tragedia però non si era ancora conclusa.
Altre ricorrenze si verificarono generalmente tra ogni quattro o dodici anni. Prendendo ad esempio l’Olanda, sappiamo di un nuovo episodio tra il 1360 e il 1362. Successive ondate si ebbero tra il 1363 ed il 1364 e poi negli anni 1368 – 1369; 1371 – 1372; 1382 – 1384; 1400 – 1401; 1409; 1420 – 1421; 1438 – 1439; 1450 – 1454; 1456 – 1459; 1466 – 1472; 1481 – 1482, poi 1487 – 1490 ed infine tra il 1492 e il 1494. Queste ricorrenze con tutta probabilità portarono ad una diminuzione del numero degli abitanti dell’Europa calcolabile tra il 60 ed il 75%. Ad essere più colpito fu il mondo contadino, che in quell’epoca costituiva la maggioranza della popolazione.

Il punto di vista religioso tra Cristianesimo e Islam
In un mondo imbevuto di religione, partendo dallo studio della Bibbia molti pensarono che la causa di tanto male andasse ricercata nel giudizio di Dio.
Questa credenza si manifestò in un incremento di pellegrinaggi e in più numerose testimonianze di fede. Sorse il culto di nuovi santi come quello di San Rocco, che veniva invocato insieme a San Sebastiano per far da scudo al male. Non è azzardato supporre che sia potuta crescere l’influenza della Chiesa con il diffondersi di forme di misticismo. Al fine di accumulare un tesoro di meriti andarono moltiplicandosi le richieste di indulgenze.
Un simile atteggiamento lo troviamo tra i musulmani. La peste vi era vista come un castigo inviato da Dio per punire l’umanità dei suoi peccati. Molti cercarono rifugio in pratiche di magia e nella superstizione, andando alla ricerca di amuleti, talismani e formule capaci di offrire protezione. Nel clero prevaleva l’idea che il credente non dovesse sfuggire al flagello ma abbracciarlo come segno di volontà divina: Iddio era misericordioso e al vero credente avrebbe offerto il dono del martirio e l’accesso al Paradiso.
A credere si trattasse di un male trasmesso per contagio erano in pochi. Tra cristiani e musulmani l’atteggiamento in ambito medico era però diverso e molti si interrogarono sulla natura del male, cercando di trovare una risposta per comprenderne il corso e arginare il contagio.
Conseguenze della “Morte Nera”
Le conseguenze di questi anni di pestilenza furono molteplici ed investirono molti campi, dall’arte al pensiero, dalla demografia alla medicina. Come spesso accade in momenti di grande cambiamento, la prima cosa che salta all’occhio è l’accelerazione di tendenze già precedentemente attive.
L’effetto forse più importante fu quello psicologico: si era trattato di un semplice capriccio inviato da Dio oppure quest’ultimo non c’entrava nulla?
Se questo fosse stato il caso, allora un ordine prestabilito ed immutabile poteva non esistere e, se vero, perché allora sottomettersi ad un ordine che nulla ha di fisso ma è del tutto mutevole? Vi sarebbe dunque posto per la coscienza e l’agire dell’individuo: fu in questo modo che la grande peste può avere aperto la via all’uomo moderno.
Quel che è certo è l’emergere di una vena di individualismo fino ad allora sconosciuta.
Vi fu indiscutibilmente una generale perdita di fiducia nei valori antecedenti l’epidemia, una crisi morale di fronte al collasso di un ordine ormai non più adeguato, davanti al quale ancora non ne era apparso uno nuovo. Gli effetti più immediati furono di natura psicologica e comportamentale.
Questi si tradussero nella graduale apparizione di nuovi valori e si riflessero in modo particolare nella letteratura. Ad esserne esempio sono il Decameron di Boccaccio, le opere di François Villon in Francia e i Canterbury Tales di Chaucer in Inghilterra.
Nei testi successivi a questa crisi troviamo un clima pervaso da un’atmosfera di malinconia, introspezione e pessimismo.
Nelle arti figurative, nuove iconografie esprimono un senso di fascinazione per la morte e una perdita di ottimismo, che si traduce in un’enfasi per il sovrannaturale, i tormenti dell’Inferno e lo sviluppo del tema della morte e della corruzione del corpo. I timori per la salvezza dell’anima si fecero più intensi traducendosi in un accresciuto numero di opere pie. Nel campo del vestire appaiono abiti stravaganti e dai colori sgargianti.
Senza entrare nei dettagli perché servirebbe un intero libro, il periodo che dal 1350 si estese fino al 1500 fu di spopolamento generale, accompagnato da un alto tasso di mortalità e livelli decrescenti di fertilità. Questo ebbe riflessi sul livello dei salari contadini e portò ad una svalutazione dei possedimenti agrari che condusse ad un declino economico, politico e militare della classe feudale dei proprietari terrieri.
Ne seguirono variazioni nelle pratiche agricole, così come nella produzione industriale.
Si verificarono tensioni sociali ed economiche, che esplosero in rivolte operaie e contadine: sia sufficiente ricordare l’episodio dei Ciompi a Firenze, le due Jacqueries in Francia, oltre che i gravi fatti avvenuti in Inghilterra. Non a sorpresa, vi fu una reazione nobiliare e allo stesso tempo un rafforzamento del potere centrale e municipale, accompagnato da un aumento della burocrazia.
Ne seguirono nuovi sviluppi politici, costituzionali e nel campo dell’educazione, che incisero sull’accrescimento intellettuale e culturale dell’Europa. Il concetto di tempo acquistò maggiore importanza con l’impiego di un numero crescente di orologi e, nei centri urbani, con lo scandire regolare delle ore dai campanili e dagli edifici pubblici.
Riflessi si ebbero anche sugli equilibri politici del continente: con l’inizio del declino dell’Italia andò crescendo l’importanza della Germania, così che l’asse economico dell’Europa si spostò gradualmente verso il nord-ovest.
In un Medioevo che fu cruciale nell’insediarsi delle malattie infettive in Occidente, soprattutto nell’area mediterranea, movimenti di persone e di animali portarono la lebbra, il vaiolo, la peste, l’influenza, il tifo, la dissenteria ed il morbillo.
Altra malattia fu la sifilide, che gli italiani chiamarono il mal francese, i francesi il male italiano, gli inglesi il mal spagnolo. I polacchi dal canto loro parlavano di mal tedesco ed i russi di mal polacco. A conseguenza di tutto ciò, ebbe inizio la medicina moderna, un’enfasi sulla deontologia, nuovi studi sulla chirurgia e l’anatomia e la ridefinizione del ruolo degli ospedali. Migliorarono anche i criteri di igiene pubblica.
Al confine tra il Medioevo e il mondo moderno, se da un lato questa grande pandemia servì a mostrare l’impotenza dell’uomo di fronte alle forze della natura, dall’altro fu uno dei maggiori punti di svolta della civiltà occidentale.
Se vi furono stagnazione e regressione e molte convinzioni si rivelarono carenti, ne seguì anche un’epoca di grande fluidità, che vide l’emergere di nuove idee, strumenti e tecniche. Vennero gettate le basi dell’empirismo e delle scienze sperimentali e l’umanità iniziò a compiere i primi passi verso una nuova era, liberandosi gradualmente dagli effetti di quella che fu la più grande crisi ambientale dall’inizio della civiltà. L’uomo torna ad essere misura e arbitro di se stesso.

Conclusione
Tornando ai nostri giorni, la domanda da porsi è: come sarà il mondo dopo il Coronavirus? Credo sia possibile affermare che assisteremo ad un’accelerazione delle tendenze già presenti nelle nostre società. La storia infatti insegna che il mondo di oggi contiene in sé già tutti gli elementi di quello di domani.
Parlando in termini generali, penso che vedremo un po’ più di Asia e un po’ meno di Occidente. Stati Uniti e Cina hanno evidenziato le rispettive debolezze, cosa che dovrebbe rendere più acute le loro rivalità. Gli Stati Uniti subiranno un indebolimento per via delle evidenti disfunzioni all’interno della Casa Bianca, inefficienze che si rifletteranno anche sulla campagna elettorale.
Il Presidente Trump si mostrerà più divisivo e sfrutterà ogni possibile occasione per polarizzare il Paese ed esacerbare le tensioni. Sa bene di non aver mai conquistato il voto popolare e punterà a soddisfare la sua base elettorale e favorire chiunque possa dargli un nuovo mandato. Aspettarsi anche riflessi in politica estera, in particolare una rinnovata tendenza ad attaccare Pechino.
In Cina il governo ha messo in luce la sua vulnerabilità per un’evidente assenza di trasparenza ed una centralizzazione spinta che ne ha indebolito l’efficacia.
La propaganda del Partito Comunista non è riuscita a nasconderne gli errori, cosa che con tutta probabilità si rifletterà sulla politica estera e in una retorica maggiormente ostile a Stati Uniti e Occidente in generale. Pechino aumenterà le sue pressioni su Hong Kong e Taiwan anche se a risentirne sarà la sua immagine. Questo clima di tensione farà sorgere dubbi sul progetto della nuova Via della Seta.
Riguardo l’Europa, anche in questa occasione si è distinta per la sua assenza e ha rivelato le carenze delle strutture comunitarie. È comunque probabile che questa crisi possa condurre ad una rinnovata cooperazione. Molto importanti saranno le scelte di Berlino.
India, Africa e America Latina resteranno più esposte ad un’aggressione del virus, conservando intatte le preoccupazioni odierne. Per tutti questi paesi resta acuto il problema di come alimentare un mercato che per via della demografia continua ad espandersi. Già in numerosi ambienti ci si interroga sul modello di crescita e di sviluppo seguito sino ad oggi e sul fatto che globalizzazione e liberismo non hanno spesso contribuito a rafforzare le rispettive strutture produttive.
Riguardo l’Unione Africana, si pensa al suo interno che l’integrazione del continente sia un bene e gradualmente si possa procedere a farne una zona di libero scambio.
Le conseguenze economiche dovute al Coronavirus ancora non si sono fatte sentire nella loro interezza. I vari governi hanno dato la priorità all’emergenza sanitaria. Ora che l’epidemia ha subìto un rallentamento, a risaltare saranno le difficoltà delle economie.
Con tutta probabilità assisteremo ad un crescendo di proteste e tensioni nel corso dell’autunno. Nei suoi aspetti economici, il Coronavirus potrebbe favorire un ritorno al populismo e ridare carica ai sovranisti.
È ancora da vedere, ma è probabile che questa pandemia possa condurre a maggiore cooperazione e reciprocità internazionale. Si tratta delle poche garanzie di stabilità in un mondo sempre più connesso ed interdipendente che però continua a vivere nell’inquietudine ed in preda a gravi problemi internazionali e tensioni geopolitiche.
La Federal Reserve americana e le altre banche centrali continueranno a tenere i tassi di interesse ai minimi: le incertezze portate dal virus tenderanno inevitabilmente a limitare gli investimenti e le spese dei consumatori.
Le preoccupazioni maggiori verranno dalle piccole e medie imprese i cui ammortizzatori finanziari sono molto più ridotti. Tutti questi dislocamenti si ripercuoteranno anche sull’andamento dei mercati, che finiranno col riflettere tutte le preoccupazioni inerenti ai rischi del virus e alla futura traiettoria delle economie.
Riguardo al resto, il mondo che da questa crisi qualcosa ha imparato, concentrerà i suoi sforzi a spingere i dettami dell’accordo di Parigi e puntare sull’ambiente, le fonti alternative di energia (idraulica, idroelettrica, eolica, solare, geotermica e nucleare), la decarbonizzazione dei sistemi di trasporto pubblici e privati e delle industrie, l’economia durevole, il risparmio energetico, la diminuzione dell’inquinamento, la trasformazione ed il trattamento dei rifiuti e degli scarti alimentari, il riscaldamento globale.
Questo è un discorso già avviato, ma l’improvviso arrivo del virus ne accelererà i tempi e lo renderà più urgente. Come detto all’inizio, si tratta di ripensare un intero modello di crescita e di sviluppo, tenendo conto del fatto che il nostro immenso progresso sta sfilacciando il tessuto vivente del pianeta.
È indubbio verranno rivisti numerosi parametri della globalizzazione ed è probabile si possa verificare un ritorno di alcune produzioni che dai Paesi occidentali erano state trasferite verso quelli emergenti al fine di incrementare i profitti.
Senza approfondire il tema, sia sufficiente pensare che gran parte della produzione di articoli farmaceutici, mascherine incluse, è stata delocalizzata soprattutto in Cina e in India. Lo stesso vale per i medicinali e gli strumenti ospedalieri.
A livello individuale alcuni comportamenti cambieranno. È probabile che il timore di fronte a qualcosa che non si conosce possa portare le persone ad allontanarsi da ciò che è complesso per tornare alla semplicità, al risparmio e al personale. In quanto ai paesi, progrediranno quelli meglio governati e gestiti, mentre aumenteranno il declino e le difficoltà di quelli meno capaci e peggio amministrati.
Andrà affrontato anche il problema delle disuguaglianze: sappiamo dall’Oxfam che ad oggi poco più di duemila miliardari possiedono maggiori ricchezze del 60% del resto dell’umanità.
Vorrei ricordare anche come la ricchezza del dibattito scientifico abbia reso evidente che di questo virus ancora se ne sa poco. Il virus può dirsi adesso contenuto, ma non è stato né attenuato, né debellato e non è irragionevole pensare che con l’arrivo dell’autunno e dell’inverno, con il calo di temperatura che ne consegue, si possa avere una ripresa del contagio.
In poche parole, nessuno può dirsi sicuro sulla durata della crisi, né sulle condizioni dalle quali emergeranno molti Paesi.
Ritengo vada fatta un’ultima considerazione. A parte quella del Coronavirus, vi è stata un’altra epidemia certamente non meno degna di nota: quella dell’eccessiva esposizione mediatica.
La portata globale dell’informazione, la corsa alla notizia ed i numerosissimi sistemi di comunicazione istantanea hanno fatto sì che siano stati scritti e trasmessi decine di migliaia di articoli e che ogni giorno intorno all’80% del tempo dedicato ai notiziari non abbia parlato che di Coronavirus.
Mi asterrò dal menzionare il pullulare di false notizie, le cosiddette “fake news”, farcite di assurde teorie complottiste e da storie di fantascienza riguardo fughe di virus da laboratori segreti. Di altro poco si è sentito e di politica estera quasi nulla. Tutto ciò ha avuto un grande effetto sia sull’opinione che sugli organismi pubblici. A farla breve, oltre che col virus toccherà anche fare i conti con questa sovraesposizione mediatica che non ha certo contribuito a rassicurare gli animi.
In questo dilagare di notizie e di opinioni, ho trovato particolarmente ridicole affermazioni del tipo che questo virus abbia fatto più danni della crisi del 1929 e del secondo conflitto mondiale. A parte le considerazioni di tempo (la prima ha le sue radici negli anni che seguono la Grande Guerra e può dirsi conclusa solo con l’arrivo del secondo conflitto mondiale, durando comunque oltre dieci anni; la seconda, iniziata nel 1939, si è conclusa nel 1945), in ambedue i casi i danni economici sono stati infinitamente più rilevanti, senza contare gli immensi danni materiali ed il numero di morti risultati dal conflitto, che supera i 60 milioni. Sarà necessario garantire un’informazione accurata e trasparente che dia una versione attendibile dei fatti.
Per quanto fastidioso e grave, l’odierno Coronavirus è durato solo pochi mesi e ad oggi le vittime sono state circa 370.000. Va anche aggiunto che mai il mondo è stato così ricco e prospero, il potenziale scientifico così grande ed il progresso medico così avanzato come ai giorni nostri: mai in passato l’umanità ha beneficiato di tanto benessere ed è stata meglio attrezzata per affrontare questo tipo di emergenza. Tutto questo lascia pensare che le cose possano riprendersi nel giro di un paio d’anni. Nel 1968 vi fu una grande pandemia che fece oltre un milione di morti, non se ne parlò molto ed oggi nessuno la ricorda più. Non parliamo poi della “Morte Nera”.
EDOARDO ALMAGIÀ è Direttore dell’Ufficio Affari Esteri del Partito Repubblicano Italiano. Cura il sito http://www.appuntiesteri.