Le ragioni di una scelta: in nome del francescano Guglielmo da Baskerville

È arrivato il tempo di farci muovere dal desiderio dell’unica verità e dal sospetto che la verità non sia quella che appare nel momento presente. 

Tempo, come fu per Guglielmo da Baskerville, che ci obbliga a considerare gli uomini di una volta belli e grandi (ora sono dei bambini e dei nani), ma tenendo da conto che questo fatto è solo uno dei tanti che testimoni la sventura di un mondo che incanutisce senza lasciare speranza. 

Si sarebbe tentati di arrivare a dire che la gioventù non vuole o non può apprendere più nulla che la scienza è in decadenza e in troppi la dileggiano come incapace di risolvere le insorgenze, che il mondo intero cammina sulla testa, e dei ciechi conducono altri ciechi e li fanno precipitare negli abissi mentre gli uccelli si lanciano prima di aver preso il volo, l’asino suona la lira, i buoi danzano. Maria non ama più la vita contemplativa e Marta non ama più la vita attiva. Lea è sterile, Rachele ha l’occhio carnale. Catone frequenta i lupanari, Lucrezio diventa femmina. Tutto è sviato dal proprio cammino. 

E spero che per descrivere i tempi non mi costringiate ad andare oltre le parole che Eco scelse, nel finire degli anni Settanta, quando scrisse “Il nome della Rosa“.

Oreste Grani/Leo Rugens 

Per chi non ricordasse (può succedere) a quale romanzo mi stia riferendo, riporto la scheda, ricca e articolata, che giace in rete nella libera enciclopedia Wikipedia

Il nome della rosa è un romanzo scritto da Umberto Eco ed edito per la prima volta da Bompiani nel 1980.

Già autore di numerosi saggi, il semiologo decise di scrivere il suo primo romanzo, cimentandosi nel genere del giallo storico e in particolare del giallo deduttivo. Tuttavia, il libro può essere considerato un incrocio di generi, tra lo storico, il narrativo e il filosofico.

L’opera, ambientata sul finire dell’anno 1327, si presenta con un classico espediente letterario, quello del manoscritto ritrovato, opera, in questo caso, di un monaco di nome Adso da Melk, che, divenuto ormai anziano, decide di mettere su carta i fatti notevoli vissuti da novizio, molti decenni addietro, in compagnia del proprio maestro Guglielmo da Baskerville. La vicenda si svolge all’interno di un monastero benedettino, ed è suddivisa in sette giornate, scandite dai ritmi della vita monastica.

Il romanzo ha ottenuto un vasto successo di critica e di pubblico, venendo tradotto in oltre 45 lingue con oltre 60 milioni di copie vendute in trent’anni. Ha ricevuto diversi premi e riconoscimenti, tra cui il Premio Strega del 1981, ed è stato inserito nella lista de “I 100 libri del secolo di Le Monde“.

Dal romanzo sono state tratte diverse trasposizioni, tra cui si segnalano le seguenti: l’omonimo film del 1986, diretto da Jean-Jacques Annaud, con Sean Connery, Christian Slater e F. Murray Abraham; l’omonima miniserie del 2019, diretta da Giacomo Battiato, con John Turturro, Damian Hardung e Rupert Everett.

Nel maggio del 2020, la casa editrice La Nave di Teseo, fondata dallo stesso Eco, pubblica una versione del romanzo arricchita coi disegni e gli appunti preparatori dell’autore.

Trama

«Il 16 agosto 1968 mi fu messo tra le mani un libro dovuto alla penna di tale abate Vallet, Le manuscript de Dom Adson de Melk, traduit en français d’après l’édition de Dom J. Mabillon (Aux Presses de l’Abbaye de la Source, Paris, 1842)»
(Umberto Eco, Incipit della prefazione a Il nome della rosa, 1980)

Nel prologo, l’autore racconta di aver letto durante un soggiorno all’estero il manoscritto di un monaco benedettino riguardante una misteriosa vicenda svoltasi in età medievale in un’abbazia sulle Alpi piemontesi. Rapito dalla lettura, egli inizia a quel punto a tradurlo su qualche quaderno di appunti prima di interrompere i rapporti con la persona che gli aveva messo il manoscritto tra le mani. Dopo aver ricostruito la ricerca bibliografica che lo portò a recuperare alcune conferme, oltre alle parti mancanti del testo, l’autore passa quindi a narrare la vicenda di Adso da Melk.

Gli omicidi nell’abbazia

È la fine di novembre del 1327. Guglielmo da Baskerville, un frate francescano inglese e il suo allievo Adso da Melk si recano in un monastero benedettino di regola cluniacense sperduto sui monti dell’Appennino toscano, da Pisa verso i cammini di San Giacomo.[3] Questo monastero sarà sede di un delicato convegno che vedrà protagonisti i francescani (sostenitori delle tesi pauperistiche e alleati dell’imperatore Ludovico) e i delegati della curia papale di Papa Giovanni XXII, insediata a quei tempi ad Avignone. I due religiosi (Guglielmo è francescano e inquisitore “pentito”, il suo discepolo Adso è un novizio benedettino) si stanno recando in questo luogo perché Guglielmo è stato incaricato dall’imperatore di partecipare al congresso quale sostenitore delle tesi pauperistiche. L’abate, timoroso che l’arrivo della delegazione avignonese possa ridimensionare la propria giurisdizione sull’abbazia e preoccupato che l’inspiegabile morte del giovane confratello Adelmo durante una bufera di neve possa far saltare i lavori del convegno e far ricadere la colpa su di lui, decide di confidare nelle capacità inquisitorie di Guglielmo affinché faccia luce sul tragico omicidio, cui i monaci tra l’altro attribuiscono misteriose cause soprannaturali. Nel monastero circolano infatti numerose credenze circa la venuta dell’Anticristo.

Nonostante la quasi totale libertà di movimento concessa all’ex inquisitore, viene trovato morto Venanzio, giovane monaco traduttore dal greco e amico di Adelmo. Un personaggio su cui si vociferano malignità è l’aiuto bibliotecario Berengario, troppo succube del bibliotecario Malachia, grasso, minato nella salute (soffre di convulsioni), e peccatore anche di sodomia concupendo i giovani monaci e scambiando favori sessuali con libri proibiti. Guglielmo ipotizzerà infatti che è proprio a causa di questo scambio che Adelmo si toglie la vita, non prima di aver rivelato a Venanzio del libro e come trovarlo.

Guglielmo sospetta sin dall’inizio e man mano si convince sempre più che il segreto dietro tutte le morti sia da cercare nella lotta di potere all’interno dell’abbazia e in un libro misterioso nascosto nella biblioteca, vanto del monastero costruito come un intricato labirinto a cui hanno accesso solo il bibliotecario e il suo aiutante. Durante le indagini sulla morte di Adelmo e Venanzio, Guglielmo trova infatti su un frammento di pergamena delle scritte fatte da due mani diverse, una in greco (che riconduce ad uno “strano” libro) e una in latino (la chiave per entrare nel Finis Africae, settore della biblioteca in cui è custodito il libro, che riporta la frase: “Secretum finis Africae manus supra idolum age primum et septimum de quatuor”). Guglielmo conclude che Venanzio ricevette questo brandello di pergamena da Adelmo quando lo incontrò mentre vagava tra le tombe nel cimitero per andare incontro al suo destino. La notte dopo Venanzio si reca in biblioteca e riesce a recuperare il libro, ma viene poi trovato morto nello scriptorium da un misterioso monaco (che si scoprirà poi essere Berengario), che per allontanare lo scandalo dalla biblioteca si carica il cadavere in spalla e lo scarica nell’orcio pieno di sangue dei maiali.Mappa della biblioteca

Quella stessa mattina, convinti di dar la caccia a un libro in greco, né Adso né Gugliemo prestano attenzione ad un libro scritto in arabo e su diversi tipi di pergamena che si trova sul tavolo di Venanzio. Quella notte, il libro viene sottratto dall’aiuto bibliotecario Berengario, insieme alle lenti da vista di Guglielmo. Guglielmo e Adso entrano nella biblioteca, e non sapendo né come orientarsi né cosa cercare, riescono ad uscirne solo grazie alla fortuna. Il mattino successivo anche Berengario risulta sparito, e sarà ritrovato a sera, morto, nei balnea. All’autopsia, anche Berengario ha la punta delle dita e della lingua nere.

Nel monastero sono presenti anche due ex appartenenti alla setta dei dolciniani: il cellario Remigio da Varagine e il suo amico Salvatore, che parla una strana lingua che combina latino, spagnolo, italiano, francese e inglese. Remigio intrattiene un commercio illecito con una povera fanciulla del luogo, che in cambio di favori sessuali riceve cibo dal cellario. Una notte, anche lo stesso Adso, per una serie di circostanze, fa la conoscenza della ragazza nelle cucine dell’edificio, e scopre i piaceri dei sensi nutrendo per la ragazza un misto di amore e preoccupazione. Confessata pudicamente a Guglielmo la sua avventura, questi gli dice che il fatto non dovrà più ripetersi ma che non si tratta di un peccato così grave se paragonato a quelli che avvengono nell’abbazia sotto i loro occhi.

L’indagine di Guglielmo è interrotta dall’arrivo della delegazione papale. L’inquisitore Bernardo Gui trova la fanciulla insieme a Salvatore e prende spunto dalla presenza di un gallo nero, che la ragazza affamata avrebbe voluto mangiare, per accusare entrambi di essere cultori di riti satanici. Dopo esser riuscito a ottenere una confessione dal povero Salvatore, che ammette il suo passato di dolciniano, Bernardo Gui processa e condanna fra’ Remigio, Salvatore e la fanciulla, dichiarandoli inoltre colpevoli delle morti avvenute nel monastero.

Il bibliotecario Malachia, convinto dall’uomo che aveva cercato di impedire che il libro venisse letto, uccide l’erborista Severino da Sant’Emmerano (che fino ad allora aveva aiutato Guglielmo con le sue conoscenze sulle erbe) e, il giorno seguente, viene ritrovato morto. Guglielmo ricostruisce l’accaduto: Berengario ha disobbedito per la prima volta a Malachia e invece di consegnargli il libro misterioso lo ha letto; tormentato dal veleno, si è recato in erboristeria per cercare delle erbe lenitive per fare il bagno, ha nascosto il libro in erboristeria ed è poi morto nei balnea. Severino trova il libro e cerca di avvertire Guglielmo impegnato nella disputa teologica sul tema della povertà della Chiesa cattolica, ma viene intercettato e ucciso da Malachia. Nemmeno quest’ultimo, però, riconosce il libro. Guglielmo e Adso cercano tra i libri di Severino un libro greco, senza sapere, però, che lo stesso libro è composto anche da un libro arabo, perciò non gli prestano attenzione. Poco dopo lo trova invece Bencio, che lo nasconde. Malachia lo raggiunge e gli propone di diventare il nuovo aiuto bibliotecario, Bencio gli restituisce il libro, e Malachia legge pure lui il libro invece di rimetterlo al suo posto e per questo trova la morte, mentre mormora “aveva il morso di mille scorpioni”.

Bencio è un ambizioso, avendo desiderato il posto da bibliotecario e nascosto informazioni a Guglielmo, ma adesso è disperato e non sa cosa fare. Guglielmo lo rimprovera aspramente e gli consiglia di non fare niente se vuole aver salva la vita.

La lotta di potere all’interno dell’abbazia e la genealogia dei bibliotecari e degli abati

Guglielmo e Adso hanno modo di parlare con tutti i monaci dell’abbazia. In particolare, i colloqui con il mastro vetraio Nicola da Morimondo e il vecchio Alinardo da Grottaferrata risultano molto interessanti: molti monaci sono scontenti per il modo in cui l’abbazia viene guidata; si maligna su Abbone, divenuto abate perché figlio di un feudatario e non per meriti religiosi se non quello di essere riuscito a calare il corpo di San Tommaso d’Aquino dalla torre dell’abbazia di Fossanova (dove l’Aquinate effettivamente morì).

Durante lo stesso colloquio con Nicola da Morimondo, Guglielmo scopre che la nomina ad abate di Abbone ha sconvolto le tradizioni due volte: in primis perché non era stato bibliotecario, e poi perché aveva nominato bibliotecario un tedesco (Malachia), che si era scelto come aiuto un inglese (Berengario), scontentando gli italiani che erano legati alla tradizione di avere bibliotecari (e quindi abati) italiani. All’arrivo di Nicola da Morimondo all’Abbazia, Abbone era infatti già abate ma il bibliotecario era Roberto da Bobbio e i confratelli anziani parlavano di uno sgarbo subito in passato da Alinardo da Grottaferrata a cui era stata negata la dignità di bibliotecario. Roberto da Bobbio aveva un aiutante che era poi morto e al suo posto era stato nominato Malachia che, divenuto bibliotecario, aveva eletto Berengario come suo aiuto. Era voce comune tra i monaci dell’Abbazia che Malachia fosse uno sciocco che faceva il cane da guardia all’abbazia senza aver capito nulla, poiché chiunque avesse bisogno di consigli circa i libri chiedeva a Jorge da Burgos, monaco anziano riverito per la sua erudizione e per il suo zelo religioso, e non a Malachia, tanto che a molti sembrava che fosse Jorge a dirigere il lavoro di Malachia. Guglielmo apprende che, secondo la regola benedettina, il bibliotecario è il candidato naturale a diventare abate. Prima di Abbone l’abate era Paolo da Rimini, prima ancora bibliotecario e lettore voracissimo ma incapace di scrivere e pertanto soprannominato abbas agraphicus, e Roberto da Bobbio era il suo aiuto. Quando Paolo diventa Abate, Roberto diventa bibliotecario, ma è già malato. Paolo da Rimini scompare durante un viaggio e pertanto gli succede Abbone e non Roberto da Bobbio. Nicola è convinto che Berengario e Malachia siano stati uccisi proprio perché un domani non diventassero abati e pertanto conclude che anche Bencio, essendo straniero, è in pericolo se Abbone lo nominerà bibliotecario.

La biblioteca ha un catalogo su cui il bibliotecario o l’aiuto riportano tutti i libri che transitano dall’abbazia. Consultandolo, Guglielmo rintraccia il susseguirsi degli abati e dei bibliotecari attraverso le loro calligrafie. Investigando su chi fosse il proprietario della calligrafia che riporta le acquisizioni al posto di Paolo da Rimini, che non poteva scrivere, capisce infine che l’aiuto bibliotecario di Roberto da Bobbio, che Nicola aveva ipotizzato essere morto, è in realtà vivo.

Nel colloquio successivo con Bencio si scopre che il libro che stanno cercando è strano perché in realtà è composto di 4 testi: uno in arabo, uno in siriano, uno in latino e uno in greco, definito acephalus perché mancante della parte iniziale. Inoltre, Bencio riporta che il testo greco è scritto su carta diversa, più soffice ed intrisa di umidità fin quasi a sfaldarsi. Guglielmo riconosce in quel tipo di carta il pergamino de pano e finalmente ha la certezza dell’identità del responsabile delle morti.

La soluzione del mistero

Guglielmo cerca di avvertire l’Abate del pericolo che lo minaccia, ma l’Abate decide per insabbiare la vicenda e risolverla con la sua autorità. Grazie a una celia in latino volgare riportatagli da Adso, Guglielmo scopre come entrare nel finis Africae dove è custodito il manoscritto fatale (l’ultima copia rimasta del secondo libro della Poetica di Aristotele), che tratta della commedia e del riso. Mentre salgono in biblioteca dall’ingresso posto dietro l’altare della chiesa che poi attraversa l’ossario, Guglielmo e Adso odono un battere disperato ai muri e capiscono che è l’abate che è rimasto imprigionato in un secondo accesso diretto al finis Africae, le cui porte possono venire azionate solo dall’alto. Nel finis Africae trovano il vecchio Jorge. Il pergamino de pano veniva prodotto in Spagna, e lo spagnolo Jorge è l’aiutante bibliotecario che aveva vinto la carica contro Alinardo e la cui calligrafia nel catalogo copre diverse pagine in corrispondenza del periodo in cui Paolo da Rimini era bibliotecario ma incapace di scrivere; divenuto cieco, aveva dovuto rinunciare alla carica di bibliotecario e di abate, facendo eleggere Malachia al suo posto ma continuando di fatto a governare la biblioteca. Jorge offre a Guglielmo il libro da leggere, ma questi lo sfoglia con le mani protette da un guanto, evitando quindi il contatto con il veleno; l’umidità delle pagine è infatti dovuta al veleno cosparso da Jorge sui bordi in modo da avvelenare ogni malcapitato lettore che dovesse sfogliarlo. Jorge si riprende il libro e scappa approfittando del buio, inseguito da Guglielmo e da Adso che si orientano con la provenienza della voce del vegliardo. Lo raggiungono in una sala e lo trovano intento a strappare e divorare le pagine avvelenate del testo in modo che più nessuno possa leggerlo. Percepito il calore del lume, Jorge lo rovescia, provocando un incendio che nessuno riuscirà a domare e che inghiottirà nel fuoco l’intera abbazia.

Epilogo

Scampati all’incendio, Adso e Guglielmo abbandonano l’abbazia e decidono di separarsi. Adso diventa monaco e narra di aver fatto ritorno anni dopo all’Abbazia, trovando, dove anni prima si erano consumati omicidi, intrighi, veleni e scoperte, solo silenzio ed angosciosa solitudine.

Data d’inizio della visita all’Abbazia

Il primo giorno della visita all’Abbazia effettuata nell’ultima settimana di novembre del 1327, verso le 2 del pomeriggio, Guglielmo chiede se avrebbero trovato qualcuno nello scriptorium anche se era domenica.

Guardando il calendario del novembre 1327 si vede che la domenica dell’ultima settimana di novembre cade il 22 novembre. In un’altra parte del testo il terzo giorno verso le ore 18 si dice che la Luna era luminosissima. Infatti, la notte di martedì 24 novembre 1327, la Luna è crescente, e passa a Luna piena domenica 29 novembre 1327; non può però essere questa la domenica citata da Guglielmo, perché tre giorni dopo la Luna non può essere così luminosa, essendo una Luna calante.

Indice dei capitoli

  • Naturalmente, un manoscritto
  • Nota
  • Prologo
  • Primo giorno
    • Prima. Dove si arriva ai piedi dell’abbazia e Guglielmo dà prova di grande acume
    • Terza. Dove Guglielmo ha una istruttiva conversazione con l’Abate
    • Sesta. Dove Adso ammira il portale della chiesa e Guglielmo ritrova Ubertino da Casale
    • Verso nona. Dove Guglielmo ha un dialogo dottissimo con Severino erborista
    • Dopo nona. Dove si visita lo scriptorium e si conoscono molti studiosi, copisti e rubricatori nonché un vegliardo cieco che attende l’Anticristo
    • Vespri. Dove si visita il resto dell’abbazia, Guglielmo trae alcune conclusioni sulla morte di Adelmo, si parla col fratello vetraio di vetri per leggere e di fantasmi per chi vuol leggere troppo
    • Compieta. Dove Guglielmo e Adso godono della lieta ospitalità dell’Abate e della corrucciata conversazione di Jorge
  • Secondo giorno
    • Mattutino. Dove poche ore di mistica felicità sono interrotte da un sanguinosissimo evento
    • prima. Dove Bencio da Upsala confida alcune cose, altre ne confida Berengario da Arundel e Adso apprende cosa sia la vera penitenza
    • terza. Dove si assiste a una rissa tra persone volgari, Aymaro da Alessandria fa alcune allusioni e Adso medita sulla santità e sullo sterco del demonio. Poi Guglielmo e Adso tornano nello scriptorium, Guglielmo vede qualcosa d’interessante, ha una terza conversazione sulla liceità del riso, ma in definitiva non può guardare dove vorrebbe
    • sesta. Dove Bencio fa una strano racconto da cui si apprendono cose poco edificanti sulla vita dell’abbazia
    • nona. Dove l’Abate si mostra fiero delle ricchezze della sua abbazia e timoroso degli eretici, e alla fine Adso dubita di aver fatto male ad andare per il mondo
    • dopo vespri. Dove, malgrado il capitolo sia breve, il vegliardo Alinardo dice cose assai interessanti sul labirinto e sul modo di entrarvi
    • compieta. Dove si entra nell’Edificio, si scopre un visitatore misterioso, si trova un messaggio segreto con segni da negromante, e scompare, appena trovato, un libro che poi sarà ricercato per molti altri capitoli, né ultima vicissitudine è il furto delle preziose lenti di Guglielmo
    • notte. Dove si penetra finalmente nel labirinto, si hanno strane visioni e, come accade nei labirinti, ci si perde
  • Terzo giorno
    • da laudi a prima. Dove si trova un panno sporco di sangue nella cella di Berengario scomparso, ed è tutto
    • terza. Dove Adso nello scriptorium riflette sulla storia del suo ordine e sul destino dei libri
    • sesta. Dove Adso riceve le confidenze di Salvatore, che non si possono riassumere in poche parole, ma che gli ispirano molte preoccupate meditazioni
    • nona. Dove Guglielmo parla ad Adso del gran fiume ereticale, della funzione dei semplici nella chiesa, dei suoi dubbi sulla conoscibilità delle leggi generali, e quasi per inciso racconta come ha decifrato i segni negromantici lasciati da Venanzio
    • vespri. Dove si parla ancora con l’Abate, Guglielmo ha alcune idee mirabolanti per decifrare l’enigma del labirinto, e ci riesce nel modo più ragionevole. Poi si mangia il casio in pastelletto
    • dopo compieta. Dove Ubertino racconta ad Adso la storia di fra’ Dolcino, altre storie Adso rievoca o legge in biblioteca per conto suo, e poi gli accade di avere un incontro con una fanciulla bella e terribile come un esercito schierato a battaglia
    • notte. Dove Adso sconvolto si confessa con Guglielmo e medita sulla funzione della donna nel piano della creazione, poi però scopre il cadavere di un uomo
  • Quarto giorno
    • laudi. Dove Guglielmo e Severino esaminano il cadavere di Berengario, scoprono che ha la lingua nera, cosa singolare per un annegato, poi discutono di veleni dolorosissimi e di un furto remoto
    • prima. Dove Guglielmo induce prima Salvatore e poi il cellario a confessare il loro passato, Severino ritrova le lenti rubate, Nicola porta quelle nuove e Guglielmo con sei occhi va a decifrare il manoscritto di Venanzio
    • terza. Dove Adso si dibatte nei pentimenti d’amore, poi arriva Guglielmo col testo di Venanzio, che continua a rimanere indecifrabile anche dopo esser stato decifrato
    • sesta. Dove Adso va a cercar tartufi e trova i minoriti in arrivo, questi colloquiano a lungo con Guglielmo e Ubertino e si apprendono cose molto tristi su Giovanni XXII
    • nona. Dove arrivano il cardinale del Poggetto, Bernardo Gui e gli altri uomini di Avignone, e poi ciascuno fa cose diverse
    • vespri. Dove Alinardo sembra dare informazioni preziose e Guglielmo rivela il suo metodo per arrivare a una verità probabile attraverso una serie di sicuri errori
    • compieta. Dove Salvatore parla di una magìa portentosa
    • dopo compieta. Dove si visita di nuovo il labirinto, si arriva alla soglia del finis Africae ma non ci si può entrare perché non si sa cosa siano il primo e il settimo dei quattro, e infine Adso ha una ricaduta, peraltro assai dotta, nella sua malattia d’amore
    • notte. Dove Salvatore si fa miseramente scoprire da Bernardo Gui, la ragazza amata da Adso viene presa come strega e tutti vanno a letto più infelici e preoccupati di prima
  • Quinto giorno
    • prima. Dove ha luogo una fraterna discussione sulla povertà di Gesù
    • terza. Dove Severino parla a Guglielmo di uno strano libro e Guglielmo parla ai legati di una strana concezione del governo temporale
    • sesta. Dove si trova Severino assassinato e non si trova più il libro che lui aveva trovato
    • nona. Dove si amministra la giustizia e si ha la imbarazzante impressione che tutti abbiano torto
    • vespri. Dove Ubertino si dà alla fuga, Bencio incomincia a osservare le leggi e Guglielmo fa alcune riflessioni sui vari tipi di lussuria incontrati quel giorno
    • compieta. Dove si ascolta un sermone sulla venuta dell’Anticristo e Adso scopre il potere dei nomi propri
  • Sesto giorno
    • mattutino. Dove i principi sederunt, e Malachia stramazza al suolo
    • laudi. Dove viene eletto un nuovo cellario ma non un nuovo bibliotecario
    • prima. Dove Nicola racconta tante cose, mentre si visita la cripta del tesoro
    • terza. Dove Adso, ascoltando il “Dies irae”, ha un sogno o visione che dir si voglia
    • dopo terza. Dove Guglielmo spiega ad Adso il suo sogno
    • sesta. Dove si ricostruisce la storia dei bibliotecari e si ha qualche notizia in più sul libro misterioso
    • nona. Dove l’Abate si rifiuta di ascoltare Guglielmo, parla del linguaggio delle gemme e manifesta il desiderio che non si indaghi più su quelle tristi vicende
    • tra vespro e compieta. Dove in breve si racconta di lunghe ore di smarrimento
    • dopo compieta. Dove, quasi per caso, Guglielmo scopre il segreto per entrare nel finis Africae
  • Settimo giorno
    • notte. Dove, a riassumere le rivelazioni prodigiose di cui qui si parla, il titolo dovrebbe essere lungo quanto il capitolo, il che è contrario alle consuetudini
    • notte. Dove avviene l’ecpirosi e a causa della troppa virtù prevalgono le forze dell’inferno
  • Ultimo folio

Personaggi

Protagonisti

  • Guglielmo da Baskerville, frate francescano, già inquisitore, si reca al monastero in cui si svolge la vicenda dietro richiesta dell’imperatore, in qualità di mediatore fra il papato, l’Impero e l’ordine francescano nell’ambito di un incontro che si terrà nell’abbazia. Guglielmo ricorda in maniera palese il filosofo francescano inglese Guglielmo di Ockham, maestro del metodo induttivo; peraltro, nelle citazioni l’autore inventa una fittizia discendenza discepolare di Guglielmo da Ruggero Bacone, anch’egli filosofo d’Oltremanica del XIII secolo. Inoltre per il suo aspetto fisico e acume si rifà al noto personaggio Sherlock Holmes di sir Arthur Conan Doyle, somiglianza rafforzata dalla stessa origine di Guglielmo, che richiama uno dei racconti più famosi dell’investigatore inglese: Il mastino dei Baskerville. È il protagonista del romanzo. È uno spirito pragmatico, esperto nei più vari campi del sapere (filosofia, teologia, politica, lingue, botanica, ecc.) ed estremamente curioso (nel Medioevo la curiosità non era una qualità adatta ad un bravo monaco, perché un monaco fedele aveva già la risposta a tutte le sue domande). Nutre una profonda amicizia e anche pietà verso Ubertino da Casale, un affetto quasi paterno per Adso da Melk e amore per la sua terra d’origine.
  • Adso da Melk, novizio benedettino al seguito di Guglielmo, è la voce narrante della storia. Come il maestro ricorda Sherlock Holmes, così Adso richiama nel nome e nel rango il suo assistente dottor Watson. Entrambi inoltre sono narratori in prima persona dei fatti loro accaduti. Inoltre il suo nome deriva dal verbo latino adsum, cioè “esserci, essere presente, testimoniare” che è esattamente ciò che Adso fa in tutta la storia. La sua figura è correlata a quella del monaco effettivamente esistito Adso da Montier-en-Der. Rivela le caratteristiche di ogni adolescente: una certa ingenuità, freschezza mentale, un grande entusiasmo in ogni cosa che fa, impulsività ed emotività, desiderio di vedere, di imparare e di fare esperienze nuove. Nel rapporto con Guglielmo si mette in evidenza il classico rapporto maestro-allievo / padre-figlio. Si innamora della ragazza del villaggio e soffre tremendamente quando lei viene condannata ingiustamente al rogo come strega.

Monaci dell’Abbazia

  • Abbone da Fossanova, abate del monastero; è l’unico, insieme al bibliotecario, al suo aiutante e a padre Jorge da Burgos, a conoscere i segreti della biblioteca.
  • Jorge da Burgos, anziano cieco proveniente dalla Spagna, profondo conoscitore dei segreti del monastero e in passato bibliotecario. Il personaggio appare una riuscita caricatura di Jorge Luis Borges: ciò non soltanto per la comune cecità e per l’evidente assonanza dei nomi, ma anche per la diretta discendenza borgesiana dell’immagine della biblioteca come specchio del mondo e persino della planimetria poligonale con cui la biblioteca dell’abbazia è disegnata, che si ispira al racconto La biblioteca di Babele. Ritiene che il mondo sia ormai decaduto, vecchio e vicinissimo al momento del giudizio finale, pertanto si sente investito della missione divina di conservare il più a lungo possibile le verità di fede così come sono state elaborate fino a quel momento dalla Scrittura e dai Padri della Chiesa. È fermamente contrario al riso, in quanto capace di distruggere il principio di autorità e sacralità del dogma.
  • Alinardo da Grottaferrata, il più anziano dei monaci. Per il suo comportamento, è considerato da tutti affetto da demenza senile, ma nei momenti di lucidità si rivela utile alla risoluzione della vicenda.
  • Adelmo da Otranto, miniatore e primo morto.
  • Venanzio da Salvemec, traduttore dal greco e dall’arabo, conoscitore dell’antica Grecia e devoto di Aristotele. Secondo morto.
  • Berengario da Arundel, aiuto bibliotecario dell’abbazia. Terzo morto.
  • Bencio da Uppsala, giovane scandinavo trascrittore di testi di retorica. Dopo la morte di Berengario diventa nuovo aiuto-bibliotecario.
  • Severino da Sant’Emmerano, erborista. Quarto morto.
  • Malachia da Hildesheim, bibliotecario. Quinto morto.
  • Remigio da Varagine, cellario ex-dolciniano. Il suo nome può essere ricondotto al frate domenicano (poi arcivescovo di Genova) Jacopo da Varazze, scrittore in latino, che deve la sua fama ad una raccolta di vite di santi, tra le quali spicca la Legenda Aurea, una versione della Leggenda della Vera Croce, ripresa tra l’altro anche da Piero della Francesca per il suo ciclo di affreschi in San Francesco ad Arezzo. Viene processato da Bernardo Gui, condannato alla tortura e poi al rogo.
  • Salvatore, ex-dolciniano, amico di Remigio; parla una lingua mista di latino e volgare. Il suo grido “Penitenziagite!”, con cui accoglie i nuovi venuti all’abbazia, rimanda alle lotte intestine della chiesa medievale, tra i vescovi cattolici e il movimento degli spirituali, portato avanti dai seguaci di fra’ Dolcino da Novara. La parola “Penitenziagite” è una contrazione della locuzione latina “Paenitentiam agite” (“fate la Penitenza”), frase con cui i dolciniani ammonivano il popolo al loro passaggio.
  • Nicola da Morimondo, vetraio.
  • Aymaro da Alessandria, trascrittore italiano.

Personaggi minori

  • Magnus da Iona, trascrittore.
  • Patrizio da Clonmacnois, trascrittore.
  • Rabano da Toledo, trascrittore.
  • Waldo da Hereford, trascrittore.
  • La contadina del villaggio, il cui nome è taciuto; è l’unica donna dell’intero romanzo, ed è l’unica donna con la quale Adso prova un’esperienza sessuale.

Delegazione pontificia

  • Bernardo Gui, inquisitore dell’ordine domenicano. È il capo della legazione pontificia. Svolge il suo ufficio di inquisitore con durezza e crudeltà implacabili. Il suo obiettivo reale è la buona riuscita della sua funzione politica ed è disposto a tutto pur di mettere in difficoltà i suoi avversari.
  • Bertrando del Poggetto, cardinale a capo della delegazione pontificia.

Delegazione imperiale (minoriti)

  • Berengario Talloni.
  • Girolamo di Caffa, vescovo. Ispirato da Girolamo di Catalogna, primo vescovo di Caffa, in Crimea.
  • Michele da Cesena, generale dell’ordine dei frati minori e capo della delegazione imperiale.
  • Ugo da Novocastro.
  • Bonagrazia da Bergamo.
  • Ubertino da Casale. È un vegliardo, dai grandi occhi azzurri, calvo, con la bocca sottile e rossa, la pelle candida e i lineamenti dolcissimi. Nutre una profonda amicizia verso Guglielmo. È un uomo molto combattivo ed ardente ed ha avuto una vita dura e avventurosa. Francescano spirituale, ritiene che un monaco non debba possedere nulla, né personalmente, né come convento, né come ordine. Afferma la povertà di Cristo e condanna la ricchezza terrena della chiesa del tempo. Per questo è accusato dal papato di eresia. Viene però lasciato libero di abbandonare l’ordine ed è accolto dai benedettini. Quando la spedizione papale di Bernardo Gui arriva nell’abbazia, Ubertino scappa per non essere ucciso dai delegati del papa. Morirà due anni dopo in circostanze misteriose.

Genesi dell’opera

L’autore, Umberto Eco, nel 1984

Umberto Eco aveva alle spalle un gran numero di saggi. L’idea di scrivere un romanzo venne alla luce nel 1978, quando un amico editore gli disse di voler curare la pubblicazione di una serie di brevi romanzi gialli. Eco declinò l’offerta e, scherzando, affermò che se mai avesse scritto un romanzo giallo, sarebbe stato un libro di cinquecento pagine con protagonisti dei monaci medievali. Quello che era nato come uno scherzo prese forma quando nella mente dell’autore si creò l’immagine di un monaco avvelenato mentre stava leggendo in una biblioteca.

Nelle Postille al Nome della rosa Eco scrisse che “voleva uccidere un monaco”, ma in seguito criticò chi aveva preso alla lettera questa dichiarazione, affermando che la sua curiosità nasceva solamente dal fascino che l’immagine di un monaco morto mentre leggeva gli suscitava. Le emozioni connesse a quest’immagine gli derivavano, a suo dire, dalla partecipazione a sedici anni ad un corso di esercizi spirituali presso il monastero benedettino di Santa Scolastica. La visione della biblioteca con il grande volume degli Acta Sanctorum aperti sul leggio e “lame di luce che entravano dalle vetrate opache” gli creò un indelebile “momento di inquietudine”.

La decisione di ambientare il romanzo nel medioevo fu una scelta dettata dalla familiarità di Eco con quel particolare periodo storico, che aveva già approfondito in studi e saggi precedenti. Il primo anno, dopo aver avuto l’idea, l’autore lo passò pianificando i luoghi ed i personaggi della sua opera, per “prendere confidenza” con l’ambiente che stava immaginando ed entrare in familiarità con gli attori:

«[…] ricordo di aver passato un anno intero senza scrivere un rigo. Leggevo, facevo disegni, diagrammi, insomma inventavo un mondo. Ho disegnato centinaia di labirinti e di piante di abbazie, basandomi su altri disegni, e su luoghi che visitavo.»

Titolo

Il titolo provvisorio del libro, durante la stesura, era L’abbazia del delitto. Successivamente Eco valutò anche il titolo Adso da Melk, ma poi considerò che nella letteratura italiana, a differenza di quella inglese, i libri aventi per titolo il nome del protagonista non hanno mai avuto fortuna. Infine si decise per Il nome della rosa, perché a chiunque chiedesse, “diceva che Il nome della rosa era il più bello”.

La scelta del titolo richiama inoltre il verso, di argomento nominalista, I, 952 del De contemptu mundi di Bernardo Cluniacense, che chiude il romanzo: “Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus” (“La rosa primigenia [ormai] esiste [soltanto] in quanto nome: noi possediamo nudi nomi”) — nel senso che, come sostenuto dai nominalisti, l’universale non possiede realtà ontologica ma si riduce ad un mero nome, ad un fatto linguistico. Il titolo inoltre rimanda implicitamente ad alcuni dei temi centrali dell’opera: la frase “Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus” ricorda anche il fatto che di tutte le cose alla fine non resta che un puro nome, un segno, un ricordo. Così è per la biblioteca e i suoi libri distrutti dal fuoco, ad esempio, e per tutto un mondo, quello conosciuto dal giovane Adso, destinato a scomparire nel tempo. Ma in realtà tutta la vicenda narrata è un continuo ricercare segni, “libri che parlano di altri libri”, come suggerisce lo stesso Eco nelle Postille al Nome della rosa, le parole e i “nomi” attorno a cui ruota tutto il complesso di indagini, lotte, rapporti di forza, conflitti politici e culturali.

In un articolo pubblicato da Griseldaonline, una rivista scientifica dell’Università di Bologna, si sostiene che molti elementi del Nome della rosa provengano in maniera deliberata dalle opere di Leonardo Sciascia. Tra questi, il titolo ricalcherebbe un’espressione utilizzata dallo scrittore siciliano in Nero su nero, una raccolta di scritti pubblicata nel 1979, un anno prima dell’uscita del Nome della rosa.

Incipit

  • Umberto Eco ha dichiarato che l’incipit del primo capitolo «Era una bella mattina di fine novembre» è un riferimento al cliché «Era una notte buia e tempestosa», usato da Snoopy per l’inizio di ciascuno dei suoi romanzi, e ideato da Edward Bulwer-Lytton nel 1830.
  • L’incipit del prologo, come già quello del Morgante di Pulci, riprende Giovanni 1,1-2 («In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio»).
  • Nell’incipit del romanzo appare inoltre 1 Corinzi 13,12 «Videmus nunc per speculum et in aenigmate» («Ora vediamo come attraverso uno specchio, in maniera confusa, distorta»), già citato in precedenza da Eco in Opera aperta del 1962.

Fonti di ispirazione e citazioni

All’epoca della concezione dell’opera, il romanzo storico con ambientazione medievale era stato riscoperto da poco in Italia da Italo Alighiero Chiusano, col suo L’ordalia. Le diverse similitudini (ambientazione temporale, genere inteso come romanzo di formazione, e scelta dei personaggi principali, un novizio e il suo maestro, un saggio monaco più anziano), e la notorietà che L’ordalia aveva nel 1979, che un esperto di letteratura come Umberto Eco difficilmente ignorava, fanno ritenere L’ordalia con molte probabilità una delle principali fonti di ispirazione de Il nome della rosa. Sacra di San Michele, il monastero situato a Sant’Ambrogio di Torino al quale s’ispirò Eco

Dai nomi, dalle descrizioni dei personaggi e dallo stile scelto per la narrazione, risulta invece evidente l’omaggio che Eco fa a sir Arthur Conan Doyle e al suo personaggio di maggior successo: Sherlock Holmes. Guglielmo, infatti, sembra ricavato, per descrizione fisica e per metodo d’indagine, dalla figura di Holmes: le sue capacità deduttive, la sua umiltà e il suo desiderio di conoscenza sembrano infatti riprendere e, a tratti, esaltare gli aspetti migliori dell’investigatore britannico. Inoltre proviene dalla (immaginaria) contea di Baskerville, che riprende il nome dal miglior romanzo di Doyle, Il mastino dei Baskerville, che per atmosfera può tranquillamente essere considerato come una delle fonti del libro di Eco. Parallelamente il giovane Adso riprende alcuni aspetti della figura del fido Watson holmesiano. Come Watson è il narratore in prima persona della vicenda e come lui si mostra ottuso e poco attento, nonostante il desiderio di apprendere, e pronto all’azione. I nomi dei due personaggi (Watson e Adso) presentano inoltre un’assonanza.

Evidenti sono anche i riferimenti nel romanzo di Eco a Brother Cadfael, monaco e investigatore medievale protagonista di una serie di romanzi gialli della scrittrice inglese Ellis Peters (1913-1995) a partire dal 1977 con A Morbid Taste for Bones, tradotto in italiano col titolo La bara d’argento, in cui fratello Cadfael ha come aiutanti due novizi.

La ripartizione del testo in base alle ore del giorno (ore canoniche nel romanzo di Eco) è un prestito dal celeberrimo romanzo Ulisse di James Joyce, anche se l’Ulisse si svolge in una sola giornata e non in sette.

In un dialogo tra Guglielmo e Adso il primo usa la metafora wittgensteiniana della scala che “si deve gettar via” dopo averla impiegata per salire, attribuendola a “un mistico delle tue terre” (Adso, come Wittgenstein, è austriaco).

Dopo il secondo omicidio, Guglielmo, a partire da un’osservazione di Alinardo (secondo giorno, dopo vespri), ipotizza che la serie dei delitti sia basata su un progetto ispirato alle sette trombe dell’Apocalisse, e ciò influenza le sue indagini successive. Ma alla fine si scopre che non c’era alcun piano (“Ho fabbricato uno schema falso per interpretare le mosse del colpevole e il colpevole vi si è adeguato”, settimo giorno, notte; è significativo che Jorge, invece, pensi che si tratti di un piano divino di cui lui è lo strumento). Questo aspetto della vicenda poliziesca sembra ispirato a quanto accade nel racconto La morte e la bussola di Jorge Luis Borges.Abbazia di San Colombano, fondata nel VII secolo a Bobbio, nei remoti e solitari confini fra l’Appennino ligure, piemontese, lombardo ed emiliano ed alla quale s’ispirò per lo scriptorium EcoAbbazia di San Gallo, la cui biblioteca ispirò Eco

Per ambientare il suo romanzo, Eco (che successivamente si è rivelato un profondo conoscitore del pensiero geografico e cartografico del Medioevo europeo, come traspare da molti elementi presenti nel romanzo) si è ispirato alla Sacra di San Michele, abbazia benedettina monumento simbolo del Piemonte.

Per lo scriptorium dell’Abbazia, Eco ha tenuto presente anche l’Abbazia di San Colombano di Bobbio fondata in epoca longobarda (che era, all’epoca delle vicende, considerata in territorio ligure negli Appennini al confine con il Piemonte). Inoltre anche la biblioteca e l’intera abbazia di San Gallo in Svizzera sono state tra le fonti cui l’autore ha attinto per immaginare il monastero in cui è ambientato il romanzo Il nome della rosa (in particolare è da menzionare la Pianta di San Gallo. All’inizio del romanzo, prima del manoscritto, è riportata la pianta di un’abbazia che comunque ha una struttura diversa da quella del romanzo di Eco).

Alla fine del terzo giorno è presente una citazione dal V Canto dell’Inferno di Dante, la cui opera è citata un paio di volte. Inoltre, Adso racconta un proprio svenimento con le parole “Caddi come un corpo morto cade” che sono una chiara citazione della Commedia. Guglielmo invece parla di Malachia come di un “Vaso di coccio tra i vasi di ferro” richiamando Esopo e Manzoni.

Nel sogno di Adso, vengono citate due frasi che oggi sono famose perché ritenute fra i primi documenti del volgare italiano: “Traete, filii de puta!”, da un’iscrizione nella Basilica di San Clemente in Roma, e “Sao ko kelle terre per kelle fini ke ki kontene…” dai Placiti cassinesi.

La scena in cui Adso copula con la contadinella è un collage di spezzoni del Cantico dei cantici e di brani di mistici che descrivono le loro estasi. In questo modo Eco ha cercato di trasmettere come un monaco sperimenterebbe il sesso attraverso la sua “sensibilità culturale”.

La tecnica con cui l’assassino uccide i monaci è ripresa dal film Il giovedì (1963) di Dino Risi.

Il manoscritto

La finzione del manoscritto ritrovato, utilizzata da Umberto Eco, è un espediente narrativo già usato da altri autori nella storia della letteratura: per esempio Alessandro Manzoni nei Promessi sposi, Walter Scott in Ivanhoe (un manoscritto anglonormanno), Nathaniel Hawthorne ne La lettera scarlatta, Cervantes nel Don Chisciotte (il manoscritto in aljamiado di Cide Hamete Benengeli), Ludovico Ariosto nell’Orlando furioso, Giacomo Leopardi nel preambolo al Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco nelle Operette morali. Eco riutilizza questo espediente nel suo romanzo Il cimitero di Praga.

A differenza di Manzoni però, che utilizzò l’espediente del manoscritto per attribuire veridicità storica al suo romanzo e per potersi distaccare dalla vicenda (in quanto non inventata da lui e non coinvolto) potendo quindi giudicare dall’alto le azioni dei personaggi, Eco inserisce numerosi elementi per far capire al lettore che la storia è fittizia e nulla può essere giudicato vero. Infatti mentre Manzoni trova un manoscritto originale del ‘600 Eco ne ritrova uno con numerose correzioni che è stato trascritto e tradotto numerose volte, con i conseguenti errori di copiatura e traduzione a cui tutti i manoscritti sono sottoposti, si perde così il vero storico.

Storia editoriale

Eco aveva già un rapporto di lunga data con la Bompiani, che aveva pubblicato tutti i suoi lavori precedenti e che avrebbe preso Il nome della rosa “a scatola chiusa”. Tuttavia pensò in un primo momento di consegnarlo all’editore Franco Maria Ricci per farlo pubblicare con una tiratura limitata di mille copie in un volume raffinato. La notizia che Eco aveva scritto un romanzo si sparse però velocemente e l’autore ricevette molteplici proposte dalla Einaudi e dalla Mondadori che vedevano del potenziale ne Il nome della rosa. A quel punto Eco tornò sui suoi passi e decise che tanto valeva lavorare con il suo editore storico. Così nel 1980 il romanzo fu pubblicato da Bompiani con una tiratura di 30.000 copie. La prosecuzione delle vendite fu “via via stimolata dal conseguimento di premi letterari a partire dal premio Strega 1981 e altri, dalle notizie sulle traduzioni e sul loro successo all’estero, in particolare negli Stati Uniti”.

Il romanzo è stato più volte ristampato nel corso degli anni ed è arrivato a vendere circa 50 milioni di copie in Italia e nel resto del mondo, dove è stato tradotto in oltre 40 lingue. Nel 2002 fu oggetto di un curioso fenomeno, grazie al lancio di un’iniziativa editoriale del quotidiano La Repubblica che lo distribuì gratuitamente in oltre un milione di copie.

Nel 2011 Eco rivisitò Il nome della rosa effettuando delle modifiche che portarono il libro ad allungarsi di 18 pagine. Questo lavoro di correzione generò critiche controverse, tra cui quella di Pierre Assouline di Le Monde, che accusò l’autore di voler abbassare il livello del romanzo e semplificarne la lingua per andare incontro alle generazioni digitalizzate. Eco respinse le accuse affermando che il suo era stato solo un piccolo lavoro di “cosmesi”, volto soprattutto a sveltire certi passaggi per preservare il ritmo della narrazione; eliminare certe ripetizioni; togliere degli errori che da anni gli pesavano e modificare leggermente l’aspetto fisico dei personaggi, che erano a suo dire “troppo grotteschi”.

Anche a causa della sua peculiare struttura, fatta di citazioni di altri testi, il romanzo è stato accusato più o meno apertamente di plagio nei confronti di vari libri. Nel 1989 venne avanzata nei confronti di Umberto Eco un’accusa formale da parte di uno scrittore cipriota, il quale sosteneva che alcuni contenuti del libro erano ripresi da un proprio romanzo, dove due personaggi entravano in un monastero e discutevano con l’abate dell’Apocalisse. Tuttavia le numerose differenze tra la storia cipriota, che si svolgeva ai giorni nostri, e la scarsa rilevanza del colloquio, che occupava solo poche pagine, condusse alla sentenza di un tribunale cipriota, che scagionò lo scrittore italiano assolvendolo nel 1992. Riguardo alla traduzione in lingua araba del romanzo, nel 1998 Ahmed Somai, primo traduttore tunisino, accusò di plagio il firmatario della edizione egiziana, Kamel Oueid El – Amiri.

Postille

Nel 1983 Umberto Eco pubblicò, attraverso la rivista Alfabeta, le Postille al Nome della rosa, un saggio col quale l’autore spiega il percorso letterario che l’aveva portato alla stesura del romanzo, fornendo chiarimenti su alcuni aspetti concettuali dell’opera. Le Postille al Nome della rosa sono state poi allegate a tutte le ristampe italiane del romanzo successive al 1983.

Nel paragrafo intitolato “Il Postmoderno, l’ironia, il piacevole”, Eco afferma che il “post-moderno è un termine buono à tout faire“. Inoltre, secondo l’autore, il postmoderno è sempre più retrodatato: mentre prima questo termine si riferiva solamente al contesto culturale degli ultimi vent’anni, oggi viene impiegato anche per periodi precedenti. Tuttavia per Eco il post-moderno non è “una tendenza circoscrivibile cronologicamente, ma una categoria spirituale, un Kunstwollen, un modo di operare”. “Potremmo dire che ogni epoca ha il proprio post-moderno, così come ogni epoca avrebbe il proprio manierismo”. In ogni epoca si giunge a momenti in cui ci si accorge che “il passato ci condiziona, ci sta addosso, ci ricatta”. All’inizio del Novecento, per questi motivi, l’avanguardia storica cerca di opporsi al condizionamento del passato, distruggendolo e sfigurandolo. Ma l’avanguardia non si ferma qui, procede fino all’annullamento dell’opera stessa (il silenzio nella musica, la cornice vuota in pittura, le pagine bianche in letteratura etc). Dopo ciò “l’avanguardia (il moderno) non può più andare oltre”. Dunque siamo costretti a riconoscere il passato e a prenderlo con ironia, ma senza ingenuità. “La risposta post-moderna al moderno consiste nel riconoscere che il passato, visto che non può essere distrutto, perché la sua distruzione porta al silenzio, deve essere rivisitato: con ironia, in modo non innocente”.

Piani di lettura

«[…] Mi avvedevo ora che si possono sognare anche dei libri, e dunque si possono sognare dei sogni.»
(Umberto Eco, op. cit., p. 440)

Il nome della rosa (omaggio del pittore William Girometti ad Umberto Eco)

Attribuire un genere letterario al romanzo di Eco è assai difficile: esso infatti è stato particolarmente apprezzato per la presenza di molteplici piani di lettura, che possono essere colti dal lettore a seconda della sua preparazione culturale. Pur presentandosi come un giallo, o come un romanzo storico ad una lettura superficiale, il libro è in realtà costruito attraverso una fitta rete di citazioni tratte da numerose altre opere letterarie, dunque è, in un certo senso, un libro fatto di altri libri. È costante il riferimento linguistico e semiologico. È anche presente, appena sotto la superficie, una forte componente esoterica, e di fondo la storia può essere vista come una riflessione filosofica sul senso e sul valore della verità e della sua ricerca, da un punto di vista strettamente laico, tema del resto comune alle opere successive di Eco.

Nel piano di lettura storico presente nel romanzo, i personaggi e le forze che nella vicenda narrata si contrappongono rappresentano in realtà due epoche e due mentalità che in quel periodo storico si sono trovate a fronteggiarsi: da un lato il medioevo più antico, col suo fardello di dogmi, preconcetti e superstizioni, ma anche intriso di una profonda e mistica spiritualità, dall’altro lato il nuovo mondo che avanza, rappresentato da Guglielmo, con la sua sete di conoscenza, con la predisposizione a cercare una verità più certa e intelligibile attraverso la ricerca e l’indagine, anticipazione di un metodo scientifico che in Europa di lì a poco non tarderà ad affermarsi.

L’autore usa un espediente narrativo e così il romanzo scritto da Umberto Eco è in realtà una narrazione al quarto livello di incassamento, dentro ad altre tre narrazioni: Eco dice di raccontare ciò che ha trovato nel testo di Vallet, che a sua volta diceva che Mabillon ha detto che Adso disse… In questo senso Eco non fa che riproporre un artificio letterario tipico dei romanzi inglesi neogotici, e utilizzato anche da Alessandro Manzoni per I promessi sposi.

Un ulteriore piano di lettura vede il romanzo come un’allegoria delle vicende italiane contemporanee o di poco precedenti all’uscita de Il nome della rosa, ovvero la situazione politica degli anni settanta, con le diverse parti in causa a rappresentare sì l’evolversi politico e spirituale legato al dibattito sulla povertà nel Trecento, ma anche le diverse correnti di pensiero o situazioni proprie degli anni di piombo: Papa Giovanni XXII e la corte avignonese a rappresentare i conservatori, Ubertino da Casale e i francescani nel ruolo dei riformisti, Fra Dolcino e i movimenti ereticali medievali in quello dei gruppi, armati e non, legati all’area extraparlamentare.

Critica

Nonostante gli apprezzamenti e il suo successo editoriale, Eco lo considerava un libro sopravvalutato e si dispiaceva che i lettori vi siano così affezionati, quando gli altri suoi romanzi sono, a suo dire, migliori:

«Io odio questo libro e spero che anche voi lo odiate. Di romanzi ne ho scritti sei, gli ultimi cinque sono naturalmente i migliori, ma per la legge di Gresham, quello che rimane più famoso è sempre il primo.»

La stampa italiana e internazionale, invece, accolse con grande entusiasmo Il nome della rosa e molti critici scrissero parole d’elogio per l’opera di Eco.

«Il libro più intelligente — ma anche il più divertente — di questi ultimi anni.»
(Lars GustafssonDer Spiegel)
«Il libro è così ricco che permette tutti i livelli di lettura… Eco, ancora bravo!»
(Robert MaggioriLibération)
«Brio ed ironia. Eco è andato a scuola dai migliori modelli.»
(Richard EllmannThe New York Review of Books)
«Quando Baskerville e Adso entrarono nella stanza murata allo scoccare della mezzanotte e all’ultima parola del capitolo, ho sentito, anche se è fuori moda, un caratteristico sobbalzo al cuore.»
(Nicholas Shrimpton, The Sunday Times)
«Nel filone dei racconti filosofici di Voltaire.»
(L’Express)
«È riuscito a scrivere un libro che si legge tutto d’un fiato, accattivante, comico, inatteso…»
(Mario FuscoLe Monde)
«Mi rallegro e tutto il mondo delle lettere si rallegrerà con me, che si possa diventare bestseller contro i pronostici cibernetici, e che un’opera di letteratura genuina possa soppiantare il ciarpame… L’alta qualità e il successo non si escludono a vicenda.»
(Anthony BurgessThe Observer)
«L’impulso narrativo che guida il racconto è irresistibile.»
(Franco FerrucciThe New York Times Book Review)
«Benché non corrisponda ad alcun genere (logicamente non può, deve essere a-generico) è meravigliosamente interessante.»
(Frank KermodeThe London Review of Books)

Non sono mancate tuttavia voci più critiche in ambito cattolico, in particolare riguardo all’attendibilità storica del romanzo e alla relativa rappresentazione del cattolicesimo medievale:

«[…] presentazione prima letteraria e poi cinematografica di un Medioevo falsificato ed elevato a “simbolo ideologico”; i temi della più trita polemica anticattolica di sempre, il cui scopo “positivo” si compendia nell’apologia della modernità come carattere specifico del mondo contemporaneo.»
(Massimo IntrovigneCristianità n. 15, febbraio 1987)
«Mini-museo antireligioso posto dall’altra parte di una cortina di ferro sempre presente.»
(Régine Pernoud30 Giorni, gennaio 1987)
«[…] un romanzo bello e falso come Il Nome della Rosa, che in materia di Medioevo esprime un’attendibilità storica inferiore ai fumetti di Asterix e Obelix.»
(Mario PalmaroLa Bussola Quotidiana, settembre 2011)

Premi e riconoscimenti

Il 9 luglio 1981, otto mesi dopo la pubblicazione del libro, Il nome della rosa vinse il Premio Strega, il più alto riconoscimento letterario in Italia. Nel mese di novembre 1982 ottenne in Francia il Prix Médicis nella categoria opere straniere. Nel 1983 il romanzo entrò nell'”Editors’ Choice” del The New York Times, nel 1999 fu selezionato tra “I 100 libri del secolo” dal quotidiano francese Le Monde e nel 2009 fu inserito nella lista dei “1000 romanzi che ognuno dovrebbe leggere” dal quotidiano inglese “The Guardian”.

Influenza culturale

  • Un albo del fumetto italiano Zagor ha omaggiato l’opera di Eco: L’abbazia del mistero (n. 317-320), realizzato da Moreno Burattini e Gallieno Ferri.
  • Il romanzo è stato anche oggetto di una parodia apparsa su Topolino, dal titolo Il nome della mimosa, per i disegni di Giampiero Ubezio.
  • Il romanzo ha ispirato la canzone The Sign of the Cross del gruppo heavy metal britannico Iron Maiden, presente nell’album The X Factor, pubblicato nel 1995.
  • Il romanzo ha inoltre ispirato il secondo album della band AOR/melodic metal britannica Ten, appunto The Name of The Rose, pubblicato nel 1996.
  • Il primo album del gruppo visual kei giapponese D si chiama The name of the ROSE, in omaggio al libro.
  • Il film ha ispirato la canzone Abbey Of Synn, contenuta nell’album Actual Fantasy (1996) di Ayreon, progetto prog-metal del noto compositore e polistrumentista olandese Arjen Anthony Lucassen.
  • Dal romanzo hanno tratto ispirazione Bruno Faidutti e Serge Laget nella realizzazione del gioco da tavolo Il Mistero dell’Abbazia (“The Mystery of the Abbey”), edito nel 2003 da Days of Wonder.
  • Il videogioco Murder in the Abbey, sviluppato dalla Alcachofa Soft e distribuito nel 2008 dalla DreamCatcher Interactive (in Italia dalla Blue Label Entertainment), è chiaramente ispirato al romanzo di Eco.
  • Un albo a fumetti della serie “Le Storie”, ad opera di Giovanni Di Gregorio e Christopher Possenti, edito dalla Sergio Bonelli Editore e intitolato Ex tenebris, si ispira palesemente al romanzo di Eco.

Errori

Alcuni errori storici presenti sono molto probabilmente parte dell’artificio letterario, la cui contestualizzazione è documentabile nelle pagine del libro che precedono il prologo, in cui l’autore afferma che il manoscritto su cui è stata successivamente svolta la traduzione in italiano corrente conteneva interpolazioni dovute a diversi autori dal medioevo fino all’epoca moderna. Eco inoltre ha segnalato di persona alcuni errori ed anacronismi che erano presenti nelle varie edizioni del romanzo fino alla revisione del 2011:

  • Nel romanzo si menzionano i peperoni, prima in una ricetta (“carne di pecora con salsa cruda di peperoni”), poi in un sogno di Adso, ma si tratta di un “piatto impossibile”. I peperoni furono infatti importati dall’America oltre un secolo e mezzo dopo l’epoca in cui si ambienta il romanzo. Lo stesso errore si ripropone più avanti quando Adso sogna una sua rielaborazione della Coena Cypriani, nella quale tra le diverse vivande che gli ospiti portano alla tavola compaiono, appunto, anche i peperoni. Un anacronismo simile si ritrova quando nel romanzo viene citata la zucca, che viene confusa con la cicerbita, menzionata in un erbario dell’epoca.
  • Durante il settimo giorno-notte, Jorge dice a Guglielmo che Francesco d’Assisi “imitava con un pezzo di legno i movimenti di chi suona il violino”, strumento che non esisteva prima dell’inizio del XVI secolo.
  • In un punto del romanzo Adso afferma di aver fatto qualcosa in “pochi secondi” quando quella misura temporale non era ancora utilizzata nel medioevo.

Presente ancora nella Nota prima del prologo, nella quale Eco cerca di collocare le ore liturgiche e canoniche:

  • Nell’ora Prima si confonde l’aurora con l’alba.
  • Se si ipotizza, come logico, che Eco abbia fatto riferimento al Tempo Medio locale, la stima dell’inizio dell’ora Prima (alba) e dell’inizio del Vespro (tramonto), così come quelle nelle righe finali (“alba e tramonto verso le 7,30 e 4,40 pomeridiane”), portano ad una durata, dall’alba a Mezzogiorno, uguale o inferiore a quella da Mezzogiorno al tramonto, quindi errata: il contrario di quanto avviene nella realtà a fine novembre (si tratta di una errata applicazione dell’Equazione del tempo). Se Eco avesse usato (ma senza darne evidenza) il Tempo Vero, la stima dell’inizio dell’ora Prima (alba) e dell’inizio del Vespro (tramonto), simmetrici rispetto a Mezzogiorno, tornerebbero corretti, ma resterebbe l’errore della dissimmetria nelle righe finali (“alba e tramonto verso le 7,30 e 4,40 pomeridiane”).