La fiducia degli italiani nella magistratura? Si abbassa, si abbassa. Tende a zero?

Qualche anno addietro il magistrato Salvatore Mannuzzo (altre volte, per sua volontà, si chiamò Giuseppe Zuri) elaborò un ragionamento sulla mafia che intitolò “Oltre il rumore di Fondo“. Mi sono messo a cercare quel testo e appena lo trovo ve lo offro per la opportuna riflessione. 

Mannuzzo arrivò a dire che “… Perché la mafia, le mafie, fan parte delle nostre esistenze; e ne costituiscono una rilevante condizione, non solo in quelle parti d’Italia, e del mondo, che possiedono e governano ma dovunque. Si sa che ogni paese, e il mondo stesso, diventano sempre più piccoli: quindi tutto quanto accade davvero s’intreccia e ogni effetto ha innumerevoli cause. Mafia e mafie però premono su di noi, dovunque stiamo, in modo particolare: e, lo avvertiamo o ne siamo ignari, questo peso appartiene alle nostre vite.

Paradossalmente, anzi, è un peso la cui crescita risulta inversa al livello della percezione che se ne possiede. E la percezione non è proporzionata all’entità del fenomeno.

[…] E lo scandalo che la gente prova non tocca le sue vere ragioni: ma diventa contributo alla destabilizzazione di quanto è già così poco stabile, alla incredibilità di assetti pubblici già così poco credibili“.

La sentenza ribaltata rende euforici alcuni? Temo che la fiducia degli italiani anche nella magistratura tenda a zero. E non per la sentenza di 1° grado.  

Tornerò sul pensiero articolato di Mannuzzo e nel tempo sceglierò altri suoi ragionamenti che mi sembrano utilissimi ora che, un inserzione a pagamento sul Corriere della Sera, per fare festa a Marcello Dell’Utri, di fatto anticipava, preveggente, la sentenza assolutoria di queste ore. Compresa la proposta di fare di Mori un senatore a vita della Repubblica. Fate voi. 

Negli anni ho conosciuto persone che sono arrivato a ritenere “specialisti in procure“. Intendo dire che ho conosciuto dei professionisti che avendo accumulato variegate esperienze e spesso conoscenze ad personam di magistrati, non solo ti sapevano dire come poteva andare a finire un processo (in realtà il margine di errore delle loro previsioni tendeva a zero), ma se, per motivi difficili da spiegare in questa sede (in realtà è anche pericoloso farlo perché le mie affermazioni potrebbero divenire vero oggetto di richiesta di chiarimenti da parte di magistrati ed io sono troppo vecchio e tardo per mettermi in altri guai) questo tipo di consulente veniva ingaggiato, l’esito del processo era semi assicurato.  

Lo specialista in procure, sa di molte cose, compreso di come cambia il vento a seconda delle stagioni della politica, delle conseguenze, in quel momento preciso, dei vari scontri tra le varie procure oggetto a loro volta di tutte quelle cosacce di cui continua a raccontare l’Amara di turno. 

Lo specialista in procure è spesso (ma non sempre) un avvocato. Un particolare tipo di avvocato di cui vi ho parlato in una altro post: l’avvocato accompagnatore, ovvero il nuovo principe del foro. Perché di questi tipi, simili ad Amara, stiamo parlando. Perché, vediamo di non dimenticarlo, nei decenni, di Amara loquaci ce ne sono stati altri. E non parlo quindi di banali collaboratori di giustizia ma di persone che per i più diversi motivi hanno tentato di aprire gli occhi e sturare le orecchie all’opinione pubblica su come girava il mondo dei magistrati e di come le sentenze potevano dare esiti stupefacenti a seconda di come il quadro generale cambiava. Per questo, mi hanno spiegato negli anni, bisogna stare attenti a fare causa quando si è convinti di avere ragione perché aver ragione non corrisponde spesso (gli estremisti della materia sostengono mai) ad una sentenza positiva. Anzi. Il problema è con “chi” vai a giudizio.

Direi che è terrificante quanto affermo e ora che ho quasi trascorso il tempo che mi è dato di vivere direi che questo, con la degenerazione partitocratica, sia il vero “cancro” della Repubblica. Scrivo di “cancro” perché nel decorso della malattia mortale (o basta vincere un po’ di medaglie alle olimpiadi è tutto si risolve?) abbiamo assistito ciclicamente a maxi e mini scandali di magistrati corrotti (o anche quelle vicende erano inventate di sana pianta?) ma soprattutto ad episodi che per come si verificano lasciano esterrefatti: mi riferisco a quelle che “in appello” vengono definite ribaltamenti della sentenza di 1° grado. Figurarsi se mi permetto di entrare nel merito di quanto l’altro ieri è stato sentenziato a proposito della trattativa “Stato-Mafia“: non sono mica matto vero per cui, sta bene così, sono tutti innocenti. Mi chiedo perché noi cittadini semplici-semplici non ci dobbiamo porre il quesito, altrettanto semplice-semplice, di come siano da considerare, professionalmente, i giudici che emisero la sentenza in 1° grado? Pensate come si deve sentire uno che dovesse, da oggi, essere giudicato da questi magistrati “visionari” che evidentemente hanno studiato poco o niente quando si sono laureati. Non ci fu reato. Mettetevi d’accordo perché a noi persone semplici-semplici quello che chiamate ribaltamento, non può non sconcertare. Soprattutto mentre, sempre sul Pianeta Terra, dalle parti di Roma, Milano, Torino, Catania, Messina, Latina dobbiamo ascoltare i racconti dettagliati non solo dei Pietro Amara, ma dei Luca Palamara.

In un Paese dove ormai (o anche questo non corrisponde al vero?) un organo costituzionale come il CSM (che sarebbe Consiglio Superiore della Magistratura) ce lo raccontano stranamente (o anche questo non è vero?) e pericolosamente sovrapposto ad una associazione sindacale quale è (o non è vero neanche questo?) l’ANM, cioè l’Associazione Nazionale Magistrati. I reati quindi non sono stati commessi. Ma a quelli che invece, tempo addietro, hanno sentenziato l’opposto vogliamo fargli qualcosa? Vogliamo rimandarli a scuola? Vogliamo porci il problema della precarietà di un sistema giudiziario che quando affida un fascicolo a dei giudici, evidentemente, non tutti sanno mettere la cautela necessaria e, quando ci sono le sentenze che ribaltano (ma quanto piace questa espressione ai giornalisti?) scopriamo che sono almeno degli incompetenti. Quasi quasi fossero dei farneticanti visionari che credono che la mafia sia esistita. Perché, come vedrete, nei prossimi mesi questa sentenza storica (smettiamo di scherzare perché di questo si tratta), l’assoluzione pe’ tutti (quasi fosse o’ pilu, sempre e per sempre e per tutti), diverrà il supporto alla riedizione della tesi strategica che la mafia non esiste.  

Me ne vado lontano (ma in realtà, banalmente, in un cerchio concentrico disegnato per provare ad interpretare una realtà complessa come la galassia delle mafie) dal questo clima euforico del tutti assolti per ricordare che la Camera penale di Catania (un luogo impegnativo), è intitolata all’avvocato Serafino Famà. Difensore di molto esponenti delle cosche siciliane, tra i quali il capomafia Piddu Madonia, Famà fu ucciso la sera del 10 dicembre 1995 con sette colpi di pistola 7,65.  

Nella mia particolare mappa concettuale/architettura mnemonica, in un altro cerchio concentrico troviamo la cronaca di quanto accaduto, tra la notte tra il 21 e il 22 ottobre 2011, a Latina, proprio ad una struttura  intitolata all’avvocato catanese Famà. L’episodio, che ritengo opportuno ricordare, avvenne in una città segnata da non pochi episodi di magistrati che si sono dimostrati corrotti e soprattutto pronti a patteggiare le loro pene ammettendo i loro reati. A cominciare da Lollo, The Best. La galassia quindi è quella dei giudici, buoni, cattivi, massoncelli, capaci, incapaci (a giudicare dai ribaltamenti) abitata da tipi alla Palamara (vi ho già detto che l’ho conosciuto a Santa Cristina d’Aspromonte quando era bambino ed ero in visita a suo padre), o alla Giovanni Palaia (anche lui l’ho conosciuto di persona), o alla Pietro Amara (l’ho sfiorato, in STI, quando mi “interessavo” di Ezio Bigotti e del suo ritenersi “intoccabile” in quanto, appunto, colluso sia con magistrati che con esponenti dei servizi), senza dimenticare figure apparentemente minori come la dottoressa Chiara Schettini, regina del Tribunale Fallimentare di Roma o Achille Toro, o Giuseppe Chiaravallotti, o Corrado Carnevale, o Paolo Dell’Anno, o Mario Delli Priscoli, o  Dolcino Favi, o Marianna Li Calzi, o Settembrino Nebbioso, o Anna Maria Palma, o Guido Barbaro, o Salvatore Cassata, o Giuseppe Renato Croce, o Mario Marsili e decine e decine di magistrati a modo o meno a seconda da come si guarda il loro agire/frequentare anche il mondo della politica o degli affari.  

Continua il mio sussulto a fronte della sentenza.

Oreste Grani/Leo Rugens