Stefania Limiti e la fonte autorevole Frédéric Laurent 

Strage di Bologna, il documento declassificato del 1981: la prova dei buoni rapporti tra Italia e Arafat che contraddice la “pista palestinese”


Strage di Bologna, il documento declassificato del 1981: la prova dei buoni rapporti tra Italia e Arafat che contraddice la “pista palestinese”

Si tratta di un telex mandato dall’Ucigos (la struttura antiterrorismo del ministero dell’Interno) al Sisde (il servizio segreto civile) che prova i rapporti di collaborazione tra l’Olp e il nostro ministero degli Esteri: il movimento di Arafat usava addirittura la cortesia di segnalare alla Farnesina i palestinesi che entravano e uscivano dal nostro Paese. Un’ulteriore smentita a chi ancora nega la pista fascista per la strage del 1980
di Gianni Barbacetto e Stefania Limiti
| 26 Ottobre 2021
C’è un documento che prova gli ottimi rapporti, all’inizio degli anni Ottanta, tra l’Italia e l’Olp, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina guidata da Yasser Arafat. Un’ulteriore smentita a chi ancora nega la pista fascista per la strage di Bologna, sostenendo sia opera di gruppi palestinesi. Il documento è un telex mandato dall’Ucigos (la struttura antiterrorismo del ministero dell’Interno) al Sisde (il servizio segreto civile) datato 10 ottobre 1981 e prova i rapporti di collaborazione tra Olp e il nostro ministero degli Esteri. Il movimento di Arafat usava addirittura la cortesia di segnalare alla Farnesina i palestinesi che entravano e uscivano dal nostro Paese. “Per opportuna conoscenza”, si legge nel telex, “informasi che…”: è in arrivo all’aeroporto di Fiumicino un esponente dell’Olp proveniente dal Kuwait via Parigi; e, dal Libano, nel pomeriggio arriveranno due esponenti del comitato centrale dell’Organizzazione, “accompagnati da sei persone, due dei quali addetti servizi di sicurezza”.

Il documento, che il Fatto ha potuto visionare, è stato tenuto segreto fino a oggi e ora è stato declassificato in attuazione della Direttiva Renzi che toglie il segreto alle carte sulle stragi. È di appena un anno dopo la strage di Bologna del 2 agosto 1980 e conferma il buon andamento delle relazioni diplomatiche tra l’Italia e i palestinesi, a dispetto dell’insistenza pelosa di chi ancora oggi – dopo una lunga istruttoria giudiziaria durata ben sette anni e infine chiusa con una archiviazione – continua a sostenere che il massacro alla stazione non sia di stampo neofascista, ma frutto di una barbara operazione di gruppi palestinesi.
Dopo la strage, invece, continuarono i buoni rapporti tra le due diplomazie, frutto dell’azione politica del presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro, che promosse il cosiddetto “Lodo Moro” stretto tra italiani e palestinesi: prevedeva il libero passaggio dei palestinesi in Italia, in cambio della garanzia che nessuna azione violenta sarebbe stata compiuta in territorio italiano. Anche la Francia di François Mitterrand, prendendo esempio dall’esperienza italiana, avviò una analoga collaborazione con la Resistenza palestinese introducendo un accordo ritagliato sul “Lodo Moro”. “Se solo avessimo avuto il vago sentore di una responsabilità palestinese nella tragedia bolognese, non avremmo mai avviato una collaborazione del genere”, ci conferma Frederic Laurant, all’epoca (maggio 1981) assistente di François Grossouvre, consigliere di Mitterrand per la sicurezza nazionale, conosciuto nel nostro Paese per il suo libro L’Orchestre noir, sulla strage di Piazza Fontana.
Il telex del Sisde è parte del primo versamento dei documenti relativi alle stragi previsto dalla Direttiva Renzi: una raccolta di carte piena di fascette nere (omissis) e di ritagli di giornale, nella quale pure non mancano carte interessanti come questa. Questa prima raccolta di documenti a cui è stato tolto il segreto fu probabilmente organizzata prima che l’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi stilasse la Direttiva, per iniziativa del Dis, il Dipartimento per la sicurezza (che coordina i due servizi segreti per l’interno e per l’estero, Aisi e Aise). La Direttiva Renzi fu probabilmente “ritagliata” sulle proposte del Dis. Ora quella disposizione è stata allargata dal governo Draghi anche a Gladio e P2. Le prossime raccolte di documenti che saranno versati e desecretati saranno dotate anche di indici, per agevolare la consultazione.


Certo che la pista palestinese è una bufalotta. E non ci volevano documenti desecretati per averne certezza. 

Leggo l’articolo della sempre ottima Stefania Limiti (scritto a quattro mani con Gianni Berbacetto) che spero ormai stia bene e mi viene in mente che, in biblioteca, mi mancano due libri: uno è sulla figura storica del pensatore complesso algerino Abdel el Kader e l’altro è proprio un volume scritto da Stefania Limiti su ciò che possa essere ricondotto al “doppio livello”.

Ritengo (direi che sono sicuro) di averli regalati entrambi, anni addietro, a Frédéric Laurent. Non posso aver parlato con lui (e con chi me lo introduceva) di el Kader, come di una mia conoscenza, per ovvi motivi anagrafici, ma ritengo di aver a lungo sottolineato il valore della Limiti. Bene quindi su Bologna (ma chi può avere ancora dubbi sulla matrice fascionazista gelliana della sanguinaria strage?).  

Viceversa sul fatto che non sia tutto oro quel che luccica dalle parti di Parigi/Montecarlo (intellettuali raffinati compresi), penso che la studiosa di cose cose complesse debba ancora applicarsi. In attesa di vederla prendere posizione sul memoriale (a puntate) che, da oggi, Mario Mori, speranzoso, affida ad eventuali analisti attenti.

Oreste Grani/Leo Rugens

Tutti fanno finta di non sapere
La vera storia del covo di Totò Riina e il falso mito della perquisizione mancata – Il memoriale di Mario Mori

26 Ottobre 2021

La vera storia del covo di Totò Riina e il falso mito della perquisizione mancata – Il memoriale di Mario Mori

Nelle interminabili discussioni originate dall’attività operativa del Ros dei Carabinieri nel contrasto alla mafia, il punto di partenza è sempre costituito dalla mancata perquisizione del “covo” di Salvatore Riina. Quale protagonista di quei fatti espongo in merito la mia versione. Subito dopo la cattura del capo di “cosa nostra”, nella riunione tra magistrati e investigatori che ne seguì, fu naturalmente considerata l’ipotesi dell’immediata perquisizione della sua abitazione, ubicata a Palermo in via Bernini 54, ma al momento non individuata precisamente, perché inserita in un comprensorio – delimitato da un alto muro di recinzione – costituito da una serie di villette indipendenti.
Prospettata dal cap. Sergio De Caprio, e da me sostenuta, prevalse la decisione di non effettuare la perquisizione. La proposta derivava della considerazione che il Riina era stato appositamente arrestato lontano dal luogo di residenza della famiglia – un suo “covo” non è mai stato trovato – e teneva conto della prassi mafiosa di non custodire, nella proprie abitazioni, elementi che potessero compromettere i parenti stretti. Questa soluzione avrebbe dovuto permetterci lo sviluppo di indagini coperte sui soggetti che gli assicuravano protezione, senza che fosse nota la nostra conoscenza della sua abitazione. L’improvvida indicazione dell’indirizzo ad opera di un ufficiale dell’Arma territoriale di Palermo, che consentì alla stampa, dopo circa ventiquattro ore dalla cattura, di presentarsi con le telecamere davanti all’ingresso di via Bernini, “bruciò” l’obiettivo, e i conseguenti servizi di osservazione del cancello di accesso al comprensorio furono sospesi per il serio pericolo di lasciare dei militari dentro un furgone isolato, esposto a qualsiasi tipo di offesa.
A questo punto anche le indagini che ci eravamo prefissi di svolgere in copertura divennero molto più difficili, stante l’eco addirittura internazionale della vicenda. Malgrado queste difficoltà, la cattura del Riina non rimase un fatto episodico, perché attraverso alcuni “pizzini” trovatigli addosso, fu possibile risalire alla cerchia stretta dei suoi favoreggiatori, procedendo in successione di tempo al loro arresto. La perquisizione della villetta abitata dai Riina venne eseguita solo dopo alcuni giorni su iniziativa della Procura della Repubblica di Palermo, in un quadro di scollamento tra le attività della magistratura e della polizia giudiziaria. Noi eravamo convinti di potere sempre agire nell’ambito delle iniziative preliminarmente concordate, mentre la Procura era sicura del mantenimento del controllo sull’obiettivo. L’equivoco diede luogo all’apertura di un procedimento giudiziario che i sostituti procuratori incaricati, Antonio Ingroia e Michele Prestipino, proposero per due volte di archiviare, ma il Gip, attraverso un’ordinanza di imputazione coatta, decise per l’apertura del processo, con l’ipotesi, a carico mio e del cap. Sergio De Caprio, di favoreggiamento di elementi di “cosa nostra”. La vicenda penale si concluse con la nostra piena assoluzione, perché “il fatto non costituisce reato”.
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Nella motivazione, la 3° Sezione penale del Tribunale di Palermo, sulla decisione volta a dilazionare la perquisizione, sosteneva testualmente: «… Questa opzione investigativa comportava evidentemente un rischio che l’Autorità Giudiziaria scelse di correre, condividendo le valutazioni espresse dagli organi di Polizia Giudiziaria direttamente operativi sul campo, sulla rilevante possibilità di ottenere maggiori risultati omettendo di eseguire la perquisizione. Nella decisione di rinviarla appare, difatti logicamente, insita l’accettazione del pericolo della dispersione di materiale investigativo eventualmente presente nell’abitazione, che non era stata ancora individuata dalle forze dell’ordine, dal momento che nulla avrebbe potuto impedire a “Ninetta” Bagarella (moglie del Riina, ndr) che vi dimorava, o ai Sansone, che dimoravano in altre ville ma nello stesso comprensorio, di distruggere o occultare la documentazione eventualmente conservata dal Riina – cosa che avrebbero potuto fare nello stesso pomeriggio del 15 gennaio, dopo la diffusione della notizia dell’arresto in conferenza stampa, quando cioè il servizio di osservazione era ancora attivo – od anche terzi che, se sconosciuti alle forze dell’ordine, avrebbero potuto recarsi al complesso ed asportarla senza destare sospetti. L’osservazione visiva del complesso, in quanto inerente al cancello di ingresso dell’intero comprensorio, certamente non poteva essere diretta ad impedire tali esiti, prestandosi solo ad individuare eventuali latitanti che vi avessero fatto accesso ed a filmare l’allontanamento della Bagarella, che non era comunque indagata e le frequentazioni del sito».
Sull’ipotesi, emersa già anche in quel processo, di una trattativa condotta dal Ros con uomini di “cosa nostra”, il Tribunale la escludeva con queste considerazioni: «… La consegna del boss corleonese nella quale avrebbe dovuto consistere la prestazione della mafia è circostanza rimasta smentita dagli elementi fattuali acquisiti nel presente giudizio». A conferma dell’approccio sempre manifestato, fondato cioè sulla convinzione della nostra non colpevolezza, la Procura di Palermo non interpose appello. Malgrado l’esito processuale, che non avrebbe dovuto concedere ulteriori margini di discussione, “la mancata perquisizione del covo di Riina” rimane tuttora un postulato per coloro che sostengono il teorema delle mie responsabilità penali nell’azione di contrasto a “cosa nostra”. In particolare viene sempre citata l’esistenza di una cassaforte – contenente chissà quali segreti – che sarebbe stata smurata ed asportata dall’abitazione del boss e a nulla vale presentare la fotografia, scattata anni dopo e agli atti dei procedimenti giudiziari, che ritrae il mio avvocato, il senatore Pietro Milio, a fianco della cassaforte ancora ben infissa nel muro. Nell’ipotesi peggiore, l’attività investigativa mia e dei militari che comandavo è considerata sostanzialmente criminale. Bene che vada, la tecnica operativa attuata dal Ros, mutuata dal Nucleo Speciale Antiterrorismo del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, è definita come autoreferenziale, quindi non perfettamente in linea con i canoni stabiliti dalle norme procedurali.
Di fronte a queste accuse che considero ingiuste, ritengo di dovere fare alcune considerazioni. Le critiche che mi vengono rivolte, relative alle indagini svolte dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, sono sostenute per lo più da persone che, all’epoca, in quella primavera/estate del 1992, se non erano minorenni, certamente non hanno avuto nessuna partecipazione e conoscenza vissuta degli eventi, per cui esprimono giudizi senza avere presente la realtà di quei drammatici mesi. La società nazionale ed in particolare i siciliani, già profondamente colpiti dal tragico attentato di Capaci, accolsero attoniti la nuova strage di via D’Amelio. Chi si trovava allora a Palermo poteva constatare l’angoscia e la paura diffuse, non solo tra i cittadini comuni, ma anche in coloro che per gli incarichi ricoperti avevano il dovere di contrastare con ogni mezzo “cosa nostra”. Ricordo in particolare come alcuni magistrati sostenessero che era finita la lotta alla mafia e parlassero di resa; ho ancora ben presenti tutti quei politici, giornalisti ed esperti che esprimevano il loro sconfortato pessimismo, valutando senza possibilità di successo il futuro del contrasto al fenomeno. Anche molti colleghi, tra le forze di polizia, avevano iniziato a privilegiare il più prudente e coperto lavoro d’ufficio rispetto alle attività su strada.
Nessuno, comunque, a livello di magistratura ma anche da parte degli organi politici competenti, ovvero delle scale gerarchiche delle forze di polizia, ritenne, in quei giorni, d’impartire direttive o delineare linee d’azione investigative aggiornate per contrastare più efficacemente l’azione criminale di “cosa nostra”. Le istituzioni sembravano dichiararsi impotenti contro l’attacco mafioso. In particolare erano scomparsi dalla scena i protagonisti dell’antimafia militante. In questo sfacelo generale alcuni, e tra questi i Carabinieri del Ros, ritennero invece un dovere, prima morale e poi professionale, incrementare l’attività investigativa, nel rispetto della propria funzione e per onorare la memoria dei morti nelle due stragi. Decisi così d’iniziativa, ma nella mia competenza di responsabile di un reparto operativo dell’Arma, di attualizzare e rendere più incisiva l’attività d’indagine, costituendo un nucleo, comandato dal cap. Sergio De Caprio, destinato esclusivamente alla cattura di Riina ed autorizzai il cap. Giuseppe De Donno a perseguire la sua idea di contattare Vito Ciancimino, personalità politica notoriamente prossima alla “famiglia” corleonese, nel tentativo di ottenere una collaborazione che consentisse di acquisire notizie concrete sugli ambienti mafiosi, così da giungere alla cattura di latitanti di spicco.
Si tenga conto che il cap. De Donno, negli anni precedenti, aveva arrestato Vito Ciancimino per vicende connesse ad appalti indetti dal Comune di Palermo, ma se si voleva ottenere qualche risultato concreto, non si poteva ricercare notizie valide tra i soliti informatori più o meno attendibili, ma avvicinare chi con la mafia aveva sicure relazioni. A proposito del contatto con Vito Ciancimino non posso essere criticato per un’attività riservata nella ricerca di notizie e di latitanti; infatti le norme procedurali consentono all’ufficiale di polizia di ricercare e tenere rapporti con quelli che ritiene in grado di fornirgli informazioni. Ciancimino quindi, libero cittadino in attesa di giudizio, era una potenziale fonte informativa e per questo avvicinabile in tutta riservatezza dalla polizia giudiziaria, così come previsto dall’art. 203 del nostro codice di procedura penale.
(FINE PRIMA PUNTATA – CONTINUA)
Mario Mori