Tutto ciò che si fa nella vita, anche l’amore, lo si fa sul treno espresso che corre verso la morte

Ogni riferimento che vi venisse in mente a fatti o persone delle cronache passate presenti e future è assolutamente puntuale.

Spero di fornire un punto di vista che ritengo non sono valido ma altresì laico e scientifico con lo scopo di esprimere quanto penso in materia e implicitamente dichiarare la personale difficoltà ad accogliere una visione liberalizzante di tutte le sostanze psicotrope (incluse le slot machine e i giochi d’azzardo) che non contempli una adeguata considerazione dei rischi implici: non tutti i cervelli sono uguali e molti sono facilmente attaccabili.

Come risulta chiaro dalle illustrazioni del post, la questione è vecchissima eppure attuale, drammaticamente attuale alla luce delle violenze perpetrare su soggetti deboli per mezzo delle più svariate sostanze, e fino a quando il rimosso della società non sarà risolto, tutti i bisogni a esso connessi saranno soddisfatti dalle mafie assortite.

Alberto Massari

Lukas Kamienski, Shooting up: Storia dell’uso militare delle droghe, UTET 2017

Il concetto di droga è in un certo senso sociopolitico, perché viene continuamente costruito, decostruito, ricostruito e reinterpretato in senso storico, sociale e politico. La deliberata e sistematica politica statale di proibire e penalizzare le sostanze psicoattive risale ai primi decenni del XX secolo, e in particolare all’introduzione delle prime norme nazionali antidroga (nel 1914 negli Stati Uniti e nel 1916 nel Regno Unito) e ad alcuni accordi internazionali (come la convenzione internazionale sull’oppio firmata dalla Società delle Nazioni nel 1912). A seconda del contesto politico, sociale e culturale una sostanza, che per secoli potrebbe essere stata legale e socialmente legittima, può improvvisamente diventare controllata e illecita, salvo limitati impieghi terapeutici. Il processo di regolamentazione e penalizzazione di alcune sostanze ha dato vita a una bufera di polemiche, rendendo estremamente opinabile il concetto di droga. Pensiamo, per esempio, al fatto che l’alcol è ancora legale nonostante le sue forti proprietà psicoattive e un potenziale per l’assuefazione piuttosto alto. Nel 1958 Maurice Seevers ha pubblicato un indice che riportava il tasso di dipendenza delle diverse sostanze. Ha assegnato un punteggio alla capacità di ognuna di produrre tolleranza, dipendenza fisica ed emozionale, deterioramento corporeo e comportamenti antisociali. Il punteggio più alto, ventuno punti, l’ha ottenuto l’alcol; i barbiturici hanno totalizzato diciotto punti, l’eroina diciassette, la cocaina quattordici e la marijuana solamente otto. Perché negli Stati Uniti l’oppio e la morfina sono stati legali fino al 1914 e la marijuana fino al 1937? Ciò che fa definire una particolare sostanza come controllata o illegale è in larga parte il risultato di una decisione politica e delle conoscenze farmacologiche, oltre che di forze sociali e trasformazioni intellettuali. L’essenza di questo condizionamento e di questo giudizio sociopolitico nella categorizzazione e nel bando degli stupefacenti è stata colta particolarmente bene da Thomas Szasz. Szasz, una delle figure più illustri nella corrente dell’«antipsichiatria» (che considerava molti trattamenti psichiatrici più dannosi che utili e che considerava la psichiatria in generale come un mezzo di oppressione) criticava fortemente l’idea della «malattia mentale», che vedeva come uno strumento di repressione sociale degli anticonformisti. Ma Szasz è anche famoso per la sua decisa posizione contro i concetti di «dipendenza» e «narcotismo». Gli piaceva provocare i suoi lettori, come in questo bel passo:
“In passato, l’oppio era una panacea; adesso è la causa e il sintomo di innumerevoli malanni, medici e sociali, in tutto il mondo. In passato, la masturbazione era la causa e il sintomo della malattia mentale; adesso è la cura per l’inibizione sociale e il campo di allenamento per esercitarsi nell’atletica eterosessuale […] il pericolo della masturbazione è scomparso quando abbiamo smesso di crederci: a quel punto, abbiamo cessato di considerare pericolose la pratica e i suoi praticanti; e cessato di chiamarlo «autolesionismo»”.
Come la malattia mentale, la dipendenza è un costrutto sociale e politico, pertanto la criminalizzazione e la penalizzazione dell’uso di droghe, sosteneva Szasz, prendono di mira quegli anticonformisti che sono rimasti vittime della «persecuzione rituale». I concetti gemelli di «dipendenza» e di «droga» dovrebbero sempre essere considerati ed esaminati all’interno del contesto interpretativo del giudizio sociale e dei valori di un determinato periodo storico. Fa bene dunque l’approccio antropologico a sottolineare il quadro socioculturale in cui un individuo o un gruppo assume una droga e ne sperimenta gli effetti. Dobbiamo infatti riconoscere che la cultura ha influenzato le consuetudini dell’assunzione di stupefacenti, ma anche che allo stesso tempo gli stupefacenti hanno ispirato una varietà di pratiche sociali differenti. Le sostanze psicoattive assumono quindi un significato appropriato solo in uno specifico contesto sociale, culturale e storico. Jonathan Shay, scrivendo dell’Iliade e di come i guerrieri omerici affogassero i loro dispiaceri nel vino, ha usato la felice definizione «farmacologia culturale», che trovo particolarmente efficace e appropriata. In effetti, l’applicazione sociale della farmacologia dev’essere compresa solo attraverso il prisma della cultura. Il significato assegnato agli stupefacenti è fluido, culturalmente e storicamente mutevole. La stessa sostanza può essere chiamata «droga illegale» in un dato contesto, mentre in un altro può essere utilizzata come medicina o pianta divina. Jacques Derrida ha colto molto bene l’ambiguità intrinseca della definizione e della categorizzazione degli stupefacenti; dobbiamo concludere, scrive, «che il concetto di droga non è un concetto scientifico, ma è stato istituito sulla base di valutazioni morali o politiche: ha in sé sia norma che divieto, e non lascia nessuna possibilità di descrizione o certificazione – è un editto, un termine alla moda». È un editto nel senso che bandisce alcuni composti psicoattivi che in precedenza erano considerati legali e il cui uso era percepito come normale, spesso diffuso, e a volte perfino alla moda. In altre parole, prima che alcune sostanze fossero classificate come «droghe» e poste sotto il controllo dello stato, erano culturalmente accettate e di uso comune. Costituivano parte essenziale e spesso intrinseca di un panorama sociale e non erano assolutamente ritenute nocive o pericolose. È importante riconoscere che è stata l’approvazione culturale dell’utilizzo degli stupefacenti a far sì che il loro abuso non finisse per diventare un problema sociale. La smisurata passione di governi e società per il controllo di vari settori della vita umana ha avuto un effetto molto negativo sulla capacità di autocontrollo dell’individuo e sui suoi processi di autodisciplina, il meccanismo più potente ed efficace per reprimere l’impulso naturale dell’uomo verso il piacere. Dopotutto, è stato il filosofo olandese Baruch Spinoza ad avvertirci che gli sforzi per contenere il comportamento di un individuo con la forza o con la legislazione finiranno probabilmente più per stimolare vizi e dissoluzione, piuttosto che correggerli.
Dagli albori della storia umana, l’ebbrezza è sempre stata connaturata alla vita culturale, soprattutto nelle pratiche religiose, magiche e rituali. Perciò non sorprende che l’ecstasy giochi un ruolo vitale nell’interpretazione di Nietzsche di arte, mito, religione, politica e del concetto stesso di dionisiaco. Dioniso era il dio orgiastico del vino, del piacere, della festosità, della frenesia estatica e dell’ebbrezza. Ne La nascita della tragedia, Nietzsche sostiene che all’«essenza del dionisiaco» ci si accosta «più ancora attraverso l’analogia con l’ebbrezza». «Gli impulsi dionisiaci», prosegue Nietzsche, «nella cui esaltazione l’elemento oggettivo svanisce in un completo oblio di sé», si risvegliano «per l’influsso delle bevande narcotiche, cantate da tutti gli uomini e dai popoli primitivi». Nel suo celebre libro Phantastika (1931), un’eccellente rassegna dell’uso di svariate piante psicotrope, Louis Lewin è arrivato alla conclusione che era stata la scoperta e la comprensione delle proprietà delle sostanze psicoattive e l’applicazione pratica di queste conoscenze a segnare le origini della cultura nella sua fase primordiale. Sostiene che:
“Se può essere considerato un sintomo di civiltà il caso in cui i desideri dell’uomo, fin qui confinati esclusivamente alle necessità imprenscindibili della vita, oltrepassano questo limite, e l’individuo, ormai insoddisfatto del puro sostentamento concesso o strappato alla natura, trova piacere in stimolanti che hanno principalmente effetto sul sistema nervoso centrale, allora un’origine appropriata per desideri fisici di questo tipo deve far parte della costituzione umana”.
Aldous Huxley, in maniera simile, afferma che:
“L’anelito alle fuga, il desiderio di trascendere se stessi anche solo per qualche minuto, è ed è sempre stata una delle brame principali dell’animo umano. L’arte e la religione, i carnevali e i saturnali, le danze e le orazioni – sono tutti serviti, per usare le parole di H.G. Wells, come «Porte in una parete»”.
Lo stesso Huxley ha sperimentato gli stati alterati della coscienza indotti dalle droghe, principalmente di tipo allucinogeno. Descrivendo la sua esperienza personale con la mescalina e la psilocibina, ha coniato la famosa frase «le porte della percezione». Andrew Weil ricorda sia Lewin che Huxley quando nel suo libro The Natural Mind (1972) asserisce che la ricerca di «stati di coscienza alterati e più elevati» è un desiderio umano fondamentale che ha accompagnato la storia dell’umanità fin dai suoi albori. Questa idea è ampiamente provata. Prendiamo l’amore dei bambini per le giostre che causano vertigini; o le persone religiose che durante la meditazione spesso entrano in trance, perdendo il contatto con la realtà; o l’estasi, il viaggio verso mondi sovrannaturali, come parte essenziale dello sciamanesimo. Weil sfida l’assunto comunemente accettato che l’alterazione chimica della coscienza sia una pratica sgradita, pericolosa e nociva. La brama irrefrenabile di sfuggire a una realtà difficile, oscura e cupa è un desiderio basilare per uomini e donne. È una delle cose che ci rendono umani. E lo stato di ebbrezza ha rappresentato un modo importante di raggiungere questo obiettivo. Nelle parole dell’artista francese Jean Cocteau: «Tutto ciò che si fa nella vita, anche l’amore, lo si fa sul treno espresso che corre verso la morte. Fumare l’oppio è abbandonare il treno in marcia, è occuparsi d’altro che della vita, della morte». In questo, Cocteau è arrivato particolarmente vicino alla verità.
L’ebbrezza, nelle sue varie forme, è stata così uno dei tratti distintivi degli esseri umani e una parte importante della storia degli uomini. In un articolo su Nietzsche, Alphonso Lingis scrive della dimensione esistenziale dell’ebbrezza, insistendo che «[una] vita senza sogni e senza ebbrezza è una vita malsana, rancorosa e senza valore. Si vive per i sogni e per l’estasi della festa». Cercando l’esperienza dello stordimento, del torpore, dell’allucinazione e della stimolazione l’homo ludens (l’uomo che gioca) ha sperimentato un assortimento di piante e sostanze e a tempo debito si è trasformato in homo narcoticus. Per secoli, le sostanze psicoattive hanno accompagnato le cerimonie religiose e i rituali di illuminazione spirituale. Consumate in gruppo, erano agenti socializzanti cruciali che favorivano la creazione dei legami sociali e rafforzavano la coesione. Permettevano di integrare gli individui nelle strutture della società (per esempio durante i diversi riti di passaggio), erano d’aiuto in caso di gravi avversità e fatiche, e consentivano alla gente sia di rilassarsi che di darsi una scossa. Di fatto, è esistita solo una società che non ha mai reperito alcuna droga: gli Inuit, indigeni che abitavano le regioni artiche. Il motivo era l’ambiente in cui vivevano, che non offriva alcuna opportunità di crescere piante psicoattive. Nelle parole di Stuart Walton, che a mio parere riassumono la questione, è assolutamente «poco funzionale separare la fioritura della cultura occidentale dalle pratiche inebrianti nelle quali è in parte radicata, sia nell’antichità classica che nei deliri dei giorni nostri».
Per quanto riguarda l’esercito, ci sono almeno due ragioni principali per cui procedo con cautela nella denuncia dell’uso di sostanze psicoattive da parte delle forze armate. Primo, storicamente parlando, non c’era niente di immorale nel consumo di stupefacenti, la maggior parte dei quali potevano essere ottenuti facilmente e in modo legale fino agli anni trenta e cinquanta del Novecento. Le sostanze che oggi sono proibite e prese di mira nella guerra globale alle droghe, in passato erano di uso comune, se non quotidiano. I «rimedi», un tempo dispensati in abbondanza da molte forze armate e considerati cure efficaci per innumerevoli malattie e afflizioni, oggi ricadono nella categoria di droghe dannose, che danno assuefazione e vanno controllate. In passato l’uso di agenti psicotropi era strettamente legato a determinati obiettivi, culturalmente definiti – che fossero religiosi, mistici, d’iniziazione o medici – inquadrati in un contesto di forti sanzioni sociali che ne prevenivano l’abuso. Ci sono stati vari fattori che hanno contribuito alla nascita del moderno problema della tossicodipendenza, ma i più importanti sono stati la diffusione dell’«edonismo narcotico» (ossia l’uso ricreativo destinato a incentivare il piacere, la felicità o l’euforia), lo sviluppo di politiche di regolamentazione e divieto, e la produzione di composti psicoattivi sintetici sempre più potenti. Considerando tutti questi fattori, non bisognerebbe spiegare, giudicare, né condannare l’uso storico delle droghe da parte dell’esercito usando come filtro i criteri dell’odierna civiltà occidentale. Non dobbiamo proiettare i pregiudizi e le generalizzazioni che prevalgono nelle società contemporanee nella vita e negli usi delle generazioni precedenti. In sostanza, il consumo di sostanze psicoattive da parte dei militari rifletteva un comune costume sociale dell’uso di stupefacenti, con una particolarità: era basato su un fondamento logico decisamente pratico. Non solo era pragmatico più che edonistico, ma solitamente, benché non sempre, era anche sottoposto a un controllo molto rigido. In secondo luogo, visto che la guerra è un processo straordinariamente drammatico, molte attività, forme di condotta e costumi che sarebbero considerati inaccettabili, o addirittura immorali, nel mondo civile sono piuttosto normali nella vita militare. La realtà del combattimento e la realtà della vita quotidiana di un civile sono molto differenti. Sono due mondi drasticamente diversi. Molte regole, norme, dispute e vincoli che salvaguardano e mantengono le società in ordine ed equilibrio non valgono in un contesto bellico. Sono altre le leggi che lo governano. Non solo la guerra è la vicenda umana più estrema, ma anche la più esistenziale. L’homo furens (l’uomo furente) si ritrova in una situazione di vita o di morte. L’esperienza della battaglia ha un profondo significato personale al quale i civili non possono nemmeno avvicinarsi, tantomeno comprendere del tutto. Il combattimento si ripercuote sul corpo di un soldato, e ancora più a fondo sulla sua psiche. È quindi importante riconoscere che fu in un contesto terrificante ed estremo come quello della battaglia che ai soldati vennero prescritti – o che i soldati si autoprescrissero – stupefacenti di vario tipo. Perciò spesso l’homo narcoticus è stato solo un’altra faccia dell’homo furens.
Non intendo dissimulare il mio punto di vista: non sono un sostenitore del «calvinismo farmacologico» nel settore militare. I critici potranno quindi accusarmi di giustificare l’uso di sostanze stupefacenti in guerra, sia come attività di gruppo (nelle forze armate) che come comportamento individuale (tra i soldati). Ma a pensarci bene, non sarebbe incredibile se i militari non avessero cercato nessun sostegno farmacologico?