Si riapre, grazie a mamma Tonina, il Caso Marco Pantani. Proviamo a non lasciarla sola

A Rimini, con la riapertura per omicidio del “Caso Marco Pantani” la magistratura (e quindi una componente portante dello Stato) gioca una partita nodale per la sua stessa credibilità e delle altre istituzioni che potrebbero non aver fatto fino in fondo il proprio dovere all’epoca dei fatti e negli anni successivi. A cominciare dalle carenze metodologiche nella fase investigativa iniziale quando ” Il Pirata” fu trovato morto. Lo diciamo da quando di fatto esiste questo marginale e ininfluente blog che le indagini furono svolte con grandissima superficialità se non con volontà illecita. Ora, sia pure tardi e in condizioni difficilissime (contro ignoti), Cuore di Mamma “Tonina” potrebbe farcela. Se in molti, nel ricordo del Pirata e dell’arte sportiva ciclistica, diamo una mano.
Oreste Grani/Leo Rugens pronto.
PANTANI: QUESTA SERA ATLANTIDE DI ANDREA PURGATORI ARRIVA DOVE – DA TEMPO – QUESTO BLOG, SI ERA POSIZIONATO

Cose gravissime che saranno confermate dall’inchiesta accurata della trasmissione della La7 e su cui sarebbe opportuno, quando si cerca di liquidare tutto con l’accusa di complottismo, si riflettesse.
Marco Pantani, un grande e onesto atleta, ha pagato, con il disonore e la vita, il prezzo imposto dagli schifosi allibratori che tengono nelle loro mani il destino degli esiti delle manifestazioni sportive. Che siano di calcio o di ciclismo, come un tempo erano solo le corse dei cavalli e gli incontri di boxe. Truccate.
Oreste Grani/Leo Rugens
PANTANI, FORSE, È STATO UCCISO: LA “PERFEZIONE” DEL CRIMINE È SPESSO LEGATA ALLA “IMPERFEZIONE” DELLE INDAGINI
Il sopralluogo, in caso di omicidio, rappresenta il primo essenziale passo per la ricostruzione della verità. Questo si studia sui manuali di investigazione criminale e questo è ciò che ogni buon “poliziotto” dovrebbe sapere. I maestri della materia, raramente non esordiscono, quando si rivolgono agli allievi alle prime armi, con ragionamenti relativi alle tecniche di sopralluogo della scena del crimine. Anzi, mi riesce difficile immaginare “forze dell’ordine”, minimamente professionali che, recandosi sul luogo di un atto criminale (anche il suicidio, per la legge, lo è) non ricordino i lineamenti base di medicina forense e “le luci e le ombre” che, come gli devono aver insegnato, compaiono sulla scena del sopralluogo. Già nel 1910, il grande criminologo francese Edmond Locard, stabiliva come fondamentale per la soluzione del rebus investigativo il principio di interscambio tra il colpevole, la vittima e la scena del crimine. Chiunque abbia dovuto studiare la materia per poter divenire “investigatore di qualcosa” sa che l’autore del crimine ovunque passi, qualunque cosa tocchi o lasci, anche inconsapevolmente, servirà come “un testimone silenzioso contro di lui”. Così insegnano, dagli anni cinquanta, in tutte le scuole di polizia del Mondo. Non solo le sue impronte digitali o quelle dei suoi piedi, ma i suoi capelli, le fibre dei suoi vestiti, un vetro che rompe o l’attrezzo che lascia, la pittura che graffia, il sangue o lo sperma che deposita o raccoglie saranno una muta testimonianza a suo carico che non dimentica, che non si confonde nell’eccitazione del momento, come può accadere ad un essere umano.
È una prova oggettiva che non è soggetta ad errore e può solo essere presente. Può essere sbagliata solo la interpretazione. Solo l’errore umano nel trovarla, studiarla o comprenderla ne può diminuire il valore probatorio. Così insegnano i maestri. Punto. Gli investigatori, una volta giunti sulla scena del delitto (ripeto, anche un “suicidio” va considerato tale), in sincronia con con l’individuazione e il prelievo dei reperti, descrivono e quindi documentano le caratteristiche e le condizioni del luogo. Come vedete fare in tutti i telefilm, i “poliziotti” annotano, fotografano, fanno schizzi degli ambienti, della posizione della vittima, delle tracce evidenti. Il professore ordinario, (considerato uno dei punti di riferimento della medicina legale italiana), Giancarlo Umani Ronchi, giustamente, ricorda, nei suoi testi, che la rappresentazione fotografica non basta a chi non è presente per comprendere appieno le dimensioni, le dinamiche, le “sensazioni” che il luogo del delitto suscita nell’osservatore: per questo è necessaria la videoregistrazione che può essere riproposta anche nelle aule giudiziarie in quanto in grado di restituire, a chi dovesse capire per giudicare, una immagine tridimensionale del sopralluogo. Addirittura le riprese devono comprendere anche i dintorni, comprese le vie di accesso e di uscita, rappresentare i luoghi nel loro insieme prima di registrare nel particolare la localizzazione delle tracce.
La scena va ripresa anche dal punto di vista della vittima, mettendo la macchina vicino al corpo e spostando l’inquadratura in direzione dei punti cardinali. Questo tecnica “cinematografica” consente valutazioni criminologiche anche a distanza di tempo. Non ricordo se dieci anni fa (quando muore Marco Pantani) c’erano già in dotazione dei laser scanner utili alle ricostruzioni tridimensionali. Mentre scrivo mi rendo conto che, sicuramente, a Rimini, nessuno, tra gli investigatori, poteva avere tale attrezzatura, un decennio addietro. Oggi, sicuramente, un episodio di tale rilevanza, accaduto dentro un “ambiente” come quello in cui fu rinvenuto il cadavere del campione sportivo, sarebbe stato investigato secondo queste tecniche e il materiale elettronico sarebbe stato ulteriormente elaborato da un software specializzato per tradurre i dati in visualizzazioni dinamiche e interattive. I delitti sono eventi complessi che richiedono sin dalla primissima fase delle indagini un approccio interpretativo interdisciplinare. Poi, come sostengo da sempre, in fase di sintesi e di decisioni, si deve passare alla transdisciplinarietà, sola conoscenza che difende dai limiti delle specializzazioni e da alcune miopie tipiche dei tecnici. È evidente che anche il minimo errore, una trascuratezza apparentemente irrilevante, una distrazione della quale ci si rende conto solo dopo giorni, potranno avere ripercussioni inimmaginabili, fino a trasformare un banale omicidio in delitto perfetto.
Che cosa è successo durante il sopralluogo in quella stanza dove era morto (ucciso o suicidatosi, come detto, per chi interviene, non deve fare differenza) Marco Pantani? Sostiene, infatti, Giancarlo Umani Ronchi che la “perfezione” del crimine è legata più alle imperfezioni delle indagini che all’intelligenza diabolica dell’omicida. Se Pantani è stato ucciso, deve essere andata per forza così! Ci troviamo di fronte, ad una delle tante inadeguatezze addestrative del personale investigativo unita ad una superficialità che rasenta la cecità? Stereotipi e tesi preconcette (che il medico legale avvalla) hanno segnato l’episodio in modo eclatante? Forse e, sarebbe terribile scoprirlo, ultimo ma non ultimo, il dolo. Il doping che girava (gira?) intorno al ciclismo e agli altri sport, con il suo mercato milionario (in dollari o euro che siano), potrebbe essere stato movente sufficiente a tanta messinscena. Chiunque, lo avrebbe potuto supporre. Viceversa, non si capisce perché ci siano voluti dieci anni per porsi la domanda che è alla base di tutte le attività investigative di qualunque atto criminale: cui prodest? Quale è il movente dell’agire umano? Chi ne trarrà vantaggio? Questo è il quesito per eccellenza, che sia la bomba alla Stazione di Bologna, l’omicidio di Aldo Moro o il “suicidio” di Marco Pantani.
Difficile ora, dopo dieci anni, che “gli ignoti”, contro cui è riaperta l’inchiesta della magistratura, diventino “noti”. Con l’augurio sincero di essere, rapidamente, smentito.
Oreste Grani