Che fine ha fatto José Palozzi (alias Basilio Monti) e perché Scalfari potrebbe aiutarci a capire qualcosa prima di morire

Intervista apparsa su Frigidaire Aprile 1983 N. 29

Giovanni (José) Palozzi, se mai è esistito un italiano con quel nome, è scomparso nel 1985 ed è l’ultima traccia che ho trovato nel web, la sola “Repubblica” ne dà notizia.

Due parole sulla moglie di Palozzi, Maria Josefina Morales Arrillaga, che conquista le pagine del New York Times il 5 e 7 novembre 1982: “BUENOS AIRES, Nov. 5 (UPI) – A journalist whose magazine was recently shut down by the military Government fled Argentina under Italian diplomatic protection today following a kidnap attempt in downtown Buenos Aires, her husband said. Maria Josefina Morales de Palozzi, who edited Quorum until last week, took refuge in the Italian embassy Thursday and obtained an Italian passport before flying to Rome on an Alitalia flight this evening” e della United Press International (UPI) che la menziona il 5 novembre dedicandole un lungo articolo e, aggiungo, le costruisce una leggenda, ripresa dall’Unità il 7 novembre. Inutile dire che della signora non sappiamo nulla e che quel nome ricorre una sola volta nel web. Le testate americane raccontano che la signora si fosse rifugiata nell’ambasciata italiana dopo un tentato sequestro. Nel 1983, l’Herald, un giornale argentino, racconta la vicenda ma i nostri eroi ormai sono arrivati in Italia.

Guillermo Patricio Kelly è personaggio invero interessante, l’unico reale in questa storia, da risultare sbalorditivo nel ritratto che offre l’Unità, ma dove le prendevano tutte quelle informazioni, così come Gabriel Garcia Marquez che gli dedica molte pagine nel suo “Dall’Europa e dall’America 1955-1960“. Un peronista particolare, viene da dire.

Purtroppo anche Pino Cimò è scomparso così come Saverio Tutino, figura non poco complessa, colui il quale introdusse a Scalfari l’evanescente Palozzi, l’uomo dal passato misterioso.

Riassumendo: Tutino (classe 1923) di tre anni più vecchio del Palozzi (1926) si trovava in Argentina come inviato di Repubblica per seguire il conflitto delle Falkland. Da ex commissario politico della Brigata Garibaldi, in quanto giornalista di guerra e dell’Unità, tutto si può immaginare salvo fosse uno con l’anello al naso inoltre è tra i fondatori di Repubblica dove scrive fino al 1986 per tornare poi all’Unità. L’ultima sua grande impresa fu la fondazione dell’Archivio Diaristico Nazionale che tanto entusiasmo e curiosità suscitò nell’antropologo francese Marc Augé.

Ordunque Tutino introduce Palozzi che sotto lo pseudonimo di Basilio Monti inizia a scrivere articoli su Gelli e la P2 per Repubblica nel 1983 fino a che a qualcuno salta la mosca al naso e blocca tutto con la scusa che l’intervista a Ortolani potrebbe essere una manovra del sodale di Gelli per intorbidire le acque. Palozzi tenta la via Girolamo Modesti (“giornalista anticomunista” morto nel 2011) direttore del Resto del Carlino ricevuto addirittura da Ronald Regan alla Casa Bianca (guarda il video). Niente, non passa.

Il 13 marzo 1983 El Pais parla di Palozzi.

Il 15 marzo 1983 Aldo Ajello del Partito Radicale fa una interrogazione su Palozzi attaccando la giunta militare argentina colpevole di aver tentato di farlo fuori.

Palozzi arriva infine a “Frigidaire” (aprile 1983) dove Cimò gli offre tanto spazio ma avanza qualche dubbio sulla sua identità.

Fin qui carta canta, da qui in avanti le ipotesi.

Cosa legasse Tutino a Palozzi potrebbe essere l’appartenenza a una parte politica oppure un interesse condiviso contro un avversario comune, dando per escluso che Tutino non era uno scemo.

Tutino non poteva non sapere che alle spalle di Scalfari vi fosse Federico Umberto D’Amato che, mi conferma un amico giornalista ai tempi dedicato dal suo giornale alla faccenda P2, tutti sapevano che era un’anima nera ma che nessuno osava nominare.

Fascista D’Amato fascista Scalfari fino al 1942 secondo Borso fino al 1943; D’Amato amico del principe partigiano “rosso” Carlo Caracciolo (l’editore dell’Espresso e di Repubblica) che “non è mai stato fedele” a nessuno nonché compagno di orge gay del Carboni, che essendo morto non può querelare.

Rinfreschiamo la memoria del lettore sui recenti svluppi riguardanti la figura di D’Amato.

Giacomo Pacini [autore di “La spia intoccabile. Federico Umberto D’Amato e l’Ufficio Affari Riservati” (Einaudi) ndr] l’ha scritto dopo aver rovistato per anni negli archivi più disparati, benché rallentato dal Covid negli ultimi mesi, con la conseguente inaccessibilità di ulteriori documenti. Così come di quelli che hanno riportato d’attualità la figura di D’Amato, nel sorprendente ruolo di mandante e finanziatore della strage di Bologna: e infatti Pacini fa precedere il libro da una “Premessa” in parte relativa proprio all’inchiesta della Procura generale bolognese. Morti da tempo, i vari D’Amato, Licio Gelli, Umberto Ortolani e l’ex direttore del “Borghese” Mario Tedeschi non saranno più processati, ma il rinvio a giudizio della “primula nera” Paolo Bellini, avvenuto pochi giorni fa [ai primi di aprile del ’22 è stato condannato mentre il presente articolo è di marzo del ’21], avrà l’effetto di portare a dibattimento documenti investigativi che gli storici ancora non hanno visionato. Ed è un passaggio che è stato preceduto, lo scorso anno, dalla condanna all’ergastolo di un altro neofascista per anni solo lambito dalle varie inchieste, Gilberto Cavallini, che nella propria agenda custodiva numeri di telefono di uomini dei servizi che un terrorista, a occhio, non dovrebbe poter detenere. Chissà dunque che non arrivino altri elementi a rafforzare quella corrispondenza tra il nome in codice “Zaff.” e il profilo di D’Amato gourmand appassionato di zafferano (fu a lungo curatore della Guida ristoranti dell’Espresso, oltre che titolare sotto pseudonimo della relativa rubrica sul settimanale), corrispondenza che si ricava da un documento a suo tempo sequestrato a Gelli intitolato “Bologna” (e chissà perché invece non “Parigi”, visto che vi si parla di bonifici dello stesso capo della P2 a D’Amato per l’acquisto di un’abitazione nella capitale francese), da anni sepolto tra gli atti del processo per il crack del Banco Ambrosiano e tornato alla luce solo grazie all’Associazione familiari delle vittime. Fonte Huffpost, Paolo Morando

“E quindi – direbbe l’uomo grigio – mi stai dicendo che Scalfari, Cossiga, visto dal Caracciolo contrito di fronte al feretro del D’Amato nella di lui dimora, per anni si sono accompagnati a quel lurido e non hanno mai capito con chi se la facevano?”

“Boh” è la mia risposta.

Quanto valgono le verità di Espresso e Repubblica sulle vicende sanguinose del Paese? Chi era D’Amato e quale logica seguiva? A giudicare dal sangue e dal caos ha portato acqua ai nemici dell’Italia.

Alberto Massari

N.B. Anche del giornalista Carlos Suay che ha denunciato la scomparsa di Palozzi non c’è traccia cosi di Carlos Mollard suo collaboratore. Non rimane che andare in emeroteca a cercare i numeri di Repubblica dell’83 con gli articoli di Palozzi-Monti e trovare i numeri di “Quorum”.

N.B. Il governo americano seguiva attentamente ciò che succedeva in Argentina

Dulcis in fundo l’intervista di Claudio Sabelli Fioretti a Carlo Caracciolo

Carlo Caracciolo: “Gli affari, le donne, i giornali”

www1.lastampa.it
Claudio Sabelli Fioretti

“Mai stato fedele, ma ho sofferto per amore. I berlusconiani? Meglio starne alla larga”
In Italia c’era l’Avvocato, c’è il Cavaliere, c’è l’Ingegnere. E c’è anche il Principe. Carlo Caracciolo, principe di Castagneto, duca di Melito. L’uomo che ha fatto grandi L’Espresso e la Repubblica. Qualcuno lo chiama Dottore. Qualcuno Presidente. Il personale di servizio, a casa, lo chiama Don Carlo.
Principe, chi è che la chiama Principe?
«Nessuno. Solo i posteggiatori: “Tutto sotto sterzo, Principe”».
Sua moglie Violante la chiamava Rag.
«Rag., per ragioniere».
Meglio essere chiamato Principe che Rag.
«No, oggi no».
Una volta serviva?
«Sì. Per rimorchiare le americane».
Caracciolo è un nome popolare a Napoli.
«Dicono: “Caracciolo e monnezza a Napoli non mancano mai”».
L’aristocrazia conta ancora?
«L’aristocrazia non conta niente».
E politicamente?
«Pensi a Vittorio Emanuele».
O al figlio…
«Un disastro anche lui».
È mai stato a Castagneto oppure a Melito?
«Un giorno sono capitato per caso in taxi a Melito. Ero intontito dal sonno e quando ho visto il segnale stradale ho detto al tassista: “Io sono il duca di Melito”. Il tassista mi ha guardato e ha detto: “Sì, sì, certo, lei è il duca di Melito, va bene, stia tranquillo”».
È uscito un libro su di lei. «L’editore fortunato».
«Sono fortunato ma anche laborioso».
Le azioni dell’«Espresso» le ha avute in dono.
«Da Adriano Olivetti. Non poteva più tenerle. Gli enti pubblici non compravano più le sue macchine per scrivere».
Lei è il figlio di Filippo e Margaret Clarke, americana. Tutti e due belli, alti…
«Homo longus raro sapiens, sed, si sapiens, sapientissimus».
Lei quindi…
«Sapientissimus».
Che cosa rammenta della sua vita di ragazzino?
«Le lunghe passeggiate a cavallo nella steppa in Turchia, dove mio padre lavorava. Avevo dodici anni».
E dopo la Turchia?
«La Svizzera. Mio padre divenne console a Lugano».
Ricordi?
«Mio padre che partiva, l’8 settembre, per raggiungere gli alleati a Napoli. Divenne poi sottosegretario nel primo governo Badoglio».
Poi lei si unì ai partigiani. Non riesco ad immaginare un Principe nella Resistenza. Col mitra… Sulle montagne…
«L’ho fatto per un anno. Sono anche stato fatto prigioniero. Avevo visto un gruppetto di combattenti che portavano dei fazzoletti rossi al collo. Li avevo rimproverati: “Non sapete che è proibito?”. Erano fascisti, mascherati da partigiani».
Ha mai ammazzato qualcuno?
«Forse. Eravamo in una baita in montagna. Sentii sparare, uscii di corsa, senza scarpe, vidi uno che mi puntava un mitra contro. Riuscii a sparare prima di lui e scappai. Ma prima lo vidi cadere».
In quale brigata era?
«Brigata Matteotti».
Scalfari ha scritto che era di Giustizia e Libertà.
«Sbagliato».
Mieli ha scritto di lei: assoluto fuoriclasse dell’editoria, mobile e intellettualmente vivace. Si riconosce?
«No».
Non assoluto fuoriclasse?
«No».
Mobile?
«Mobile?».
Intellettualmente vivace?
«Sì, quello sì».
E Mieli com’è?
«Molto intelligente, molto cauto, molto intrigante».
Che cosa pensa degli Angelucci nuovi proprietari dell’«Unità»?
«Una cosa non bella. Per l’Unità, per il Partito Democratico, e per gli Angelucci stessi».
Politica: il suo primo voto?
«Repubblicano. Poi socialista, prima di Craxi. Poi comunista, Pds, Ds eccetera».
Quindi lei è comunista…
«Non sono comunista. Sono un uomo di sinistra».
Però una volta si era iscritto al Clubino, a Milano…
«E infatti mi volevano cacciare perché mi consideravano comunista».
E allora perché si era iscritto?
«Per interesse. Volevo comprare una rivista di Faina, il presidente della Montecatini che andava sempre a giocare a poker al Clubino. Volevo giocare a poker con Faina e convincerlo».
Tentativo furbetto.
«Tentativo penosamente fallito».
Sono mitici i suoi poker con Gigi Melega, Jas Gawronski, Claudio Rinaldi.
«Gawronski era il più bravo. Le analisi più interessanti del gioco le faceva Rinaldi. Melega era il più coraggioso».
Quando De Benedetti le ha chiesto di farsi da parte, lei ha ceduto a lui la presidenza del gruppo…
«Vuole sapere se mi è dispiaciuto?».
Sì.
«Un po’ mi è dispiaciuto».
Solo un po’?
«Ma avevo ottant’anni».
Il politico preferito?
«Per intelligenza e passione Ugo La Malfa. Per intelligenza Moro».
Quando rapirono Moro lei era per la fermezza.
«La Repubblica lo era. Una posizione che capivo ma mi ripugnava fisicamente. C’era in gioco la vita di una persona».
«La Repubblica» è sempre stata considerata vicina ai comunisti. Convincimento ideologico o convenienza? I comunisti erano tanti. Un mercato ampio.
«I democristiani erano ancora di più. Il mercato sarebbe stato ancora più ampio».
E infatti vi innamoraste di De Mita.
«L’innamoramento fu di Scalfari. Non mio. Io non l’ho mai considerato un grande politico».
«L’Espresso» era filosocialista, «la Repubblica» filocomunista. Tutti eravate ferocemente anti-Berlusconi…
«C’era anche un motivo personale. La guerra di Segrate aveva lasciato molte ferite aperte».
I berlusconiani sono «antropologicamente diversi»?
«Sono diversi da noi. Con loro cerchiamo di avere a che fare il meno possibile».
E, se possibile, estinguerli.
«Non mi dispiacerebbe».
Jas Gawronski mi ha detto: «Se Caracciolo parlasse con Berlusconi andrebbero assolutamente d’accordo».
«Ma io lo conosco benissimo Berlusconi, da quando faceva il palazzinaro. Veniva spesso a colazione da me. Ogni volta con una ragazza diversa. Per carità, niente di male… Era una sua fissazione…».
Il suo giudizio.
«Svelto, spregiudicato, pieno di fantasia. Non coraggioso. Insopportabile quando racconta barzellette».
Lo avrebbe preso nel suo gruppo?
«Certamente. Mi piacevano gli uomini di cui si era circondato. Oggi no. I suoi ministri sono spesso modesti. Poi in Forza Italia… Bondi… Cicchitto… Un relitto craxiano…».
Mi racconta la guerra di Segrate?
«Girava la voce che Berlusconi stava concludendo un accordo con Cristina e Luca Formenton nonostante i Formenton avessero firmato un accordo con De Benedetti. Un giorno Berlusconi mi invitò a cena. Io, prima della cena, vidi Luca Formenton il quale mi smentì le voci. Mezz’ora dopo Berlusconi mi disse: “Carlo, abbiamo chiuso l’accordo con i Formenton”. Io gli dissi: “Sei un mascalzone e finiremo davanti al giudice”. E lui: “Deciderà il giudice”».
Era sicuro di sé.
«E certo. Lui era uno che pagava i giudici».
Luca Formenton ha badato ai suoi affari.
«Luca Formenton è un voltagabbana».
Che cosa era successo in realtà?
«Spesso dietro a decisioni importanti nella politica e nell’imprenditoria ci sono storie personali».
Simpatie, antipatie, amori?
«Risentimenti… Affetti traditi…».
Lei ha più visto da allora Cristina o Luca?
«Luca. Ma svicolava, mi sfuggiva…».
L’ha perdonato?
«Io non perdono. Ma dimentico».
Non ricorda più nulla di Luca Formenton?
«Ricordo che veniva a trovarmi nel mio ufficio, si sedeva davanti alla scrivania e mi sbatteva i piedi in faccia».
Adesso che un giudice vi ha dato ragione?
«De Benedetti ha chiesto i danni. A me non interessa più niente».
Ogni tanto qualcuno le contesta delle amicizie pericolose. Carboni, Pazienza, Calvi… Lei se la cava dicendo che le piace il «douteux personnage».
«Mi piace avere rapporti con persone fuori dagli schemi. Gli imbroglioni sono simpaticissimi. Ma Pazienza e Calvi non sono mai stati miei amici. Carboni sì. Con lui ho buonissimi rapporti. Mi sommerge di prosciutti e formaggi sardi».
Calvi l’ha conosciuto?
«Come no! Personaggio inquietante».
Tra le carte di Gelli trovarono anche il famoso patto di non belligeranza tra voi e la Rizzoli… Non una bella cosa… Un cartello…
«Era solo un impegno a non ostacolarci a vicenda».
Gli oligopoli nascono così!
«È vero».
Lei era amico anche di D’Amato, il capo degli Affari Riservati…
«Certo».
Ne ha molti di amici un po’ fuori dagli schemi.
«Quando ho saputo che era morto e sono andato a casa sua, sa chi ho trovato, solo, seduto davanti al morto? Cossiga. È simpatico Cossiga».
Cossiga vi odia.
«Riesco a sopravvivere all’inimicizia di Cossiga. E poi mi è simpatico».
Intervistato da Alessandra Borghese, per «Style», lei ha detto: «Ho provato grandi emozioni per le cose d’amore». Però non le si conoscono tante fidanzate.
«Cerco di essere un uomo discreto».
La madre di sua figlia Jacaranda, e sua moglie Violante Visconti di Modrone…
«Ce ne sono state anche altre».
Lei è geloso?
«Sono stato geloso. Ma non facevo scenate. Soffrivo dentro».
Era fedele?
«Mai stato fedele».
La gente dice che lei è freddo, cinico e anche cattivo! È vero?
«No, sono buono».
Perché lo dicono allora?
«Non lo so! Forse perché la gente è fredda, cinica e anche cattiva».
Amicizie rotte a causa dei giornali?
«È capitato. D’Alema arrivò a troncare i rapporti con De Benedetti quando L’Espresso di Rinaldi lo attaccava. Era convinto che Rinaldi lo attaccasse perché De Benedetti gli diceva di farlo».
Lei ha dei nemici?
«No. Ma c’è molta gente che non mi ha in simpatia».
Perché?
«Questioni di donne. Una volta, tantissimi anni fa, in un night-club, incontrai una signora con la quale andavo a letto. La invitai a ballare ma il marito si arrabbiò: “Mascalzone! Maleducato!”. Uscimmo fuori e ci prendemmo a cazzotti. La mattina dopo all’alba ricevetti una visita: “Sono il padrino, scelga l’arma per il duello”. Io gli dissi: “Ci mettiamo a giocare con gli spadoni?”. Così mi sfidò a duello anche il padrino».
In un’intervista ad Alessandro De Feo, ha detto: «L’Espresso è sempre stato libero di sparare contro tutti, anche contro di me».
«Va bene, c’è un po’ di esagerazione. Però una volta sull’Espresso scrissero che andavo a braccetto con un fascista».
Lei chiese la testa del direttore?
«No. Era vero».
C’è un grande mistero nella stampa italiana: vende più «la Repubblica» o «Il Corriere della Sera»?
«Più la Repubblica».
E perché non lo dite?
«Perché non serve».
Il gioco della torre. Scalfari o De Benedetti. Chi buttiamo?
«Butto De Benedetti. Scalfari è troppo amico mio. Non è buttabile».
De Benedetti a un certo punto fece una società con Berlusconi.
«Avrebbe voluto farla».
Fu stoppato da lei?
«E soprattutto dalle redazioni di Repubblica ed Espresso».
I soldi non hanno colore…
«Però da quando è entrato nel nostro gruppo…».
Da quando è entrato nel vostro gruppo?
«È molto cambiato».
Scalfari?
«Arrigo Benedetti lo chiamava il social-orgiastico…».
Avete litigato qualche volta?
«Con me è difficile litigare. Sfuggo al litigio».
Qualche momento di tensione…
«Qualche momento di freddezza, ma non ricordo nemmeno per che cosa».
Quando Scalfari attaccò suo cognato Gianni Agnelli? Scrisse: «L’avvocato di panna montata».
«Ammetto. Mi dette un po’ fastidio».
Monica Bellucci o Carla Bruni?
«Non conosco nessuna delle due».
Non le sto chiedendo chi è più intelligente.
«Mi sta chiedendo chi vorrei portarmi a letto?».
Veda un po’ lei.
«Monica Bellucci».
Barbara Palombelli o Barbara Spinelli?
«La Spinelli è più intelligente, più capace…».
Dica la verità. Butta la Palombelli…
«… per colpa del marito? Forse».
Andiamo sul difficile. Bocca o Pansa?
«Butto Pansa. I suoi ultimi libri non mi piacciono».
D’Urso o Gawronski?
«Si odiano. Fanno a chi era più amico di Gianni Agnelli».
Lei si rispecchia nei suoi giornali?
«Certamente. Se mi dicessero: ti regalo Libero, io lo rifiuterei».
Lei è vendicativo?
«Lo sarei se avessi memoria. Ma dimentico. Una volta, quando avevo venticinque anni, avevo qualcosa contro Nicky Pignatelli. Ma non mi ricordavo che cosa. La situazione era grottesca. Continuavo a perseguitare questo Pignatelli e non sapevo perché!».
A quel punto l’ha perdonato!
«No. Mi sono ricordato. Mi aveva portato via una ragazza».
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