Provare a fermare “la scomparsa dei fatti e delle cose”

Se dovessi oggi ri-definire ciò che un tempo ho concorso a chiamare, certamente in Italia, per primo (la già altre volte nominata Bambara era con me ma per scelte da lei fatte successivamente non meriterebbe questo abbinamento), intelligence culturale (cioè una intelligenza dei fatti che sola potrebbe consentire di arrivare a prevedere il futuro, elaborando scenari attendibili su ciò che sarà e mettere così in condizione le classi dirigenti di un paese di fare ciò che ad esse compete) la chiamerei “intelligence della transizione“. 
Intellegere è comprendere l’intero mondo dell’uomo, il suo rapporto con l’ambiente fisico e i suoi rapporti sociali a cominciare dai comportamenti, interessi, valori in perenne trasformazione.
Ogni evento che l’individuo determina e da cui è determinato incide sulla sua vita e sulla vita della società in cui è inserito e il compito delle attività di intelligence, ecco la transizione, è comprendere i fatti per ciò che essi sono quali elementi di una rete complessa di fenomeni che li determinano e li rendono comprensibili e, soprattutto, prevedibili di modo che la loro comprensione, spiegazione e prevedibilità renda possibili due effetti: diminuire l’incertezza, il senso d’angoscia che consegue a ciò che si viene a sapere (non solo genericamente informazioni ma la quantità di informazioni che vengono costantemente  prodotte nel mondo della comunicazione globale e interdipendente) ma nel momento in cui questa massa di informazioni ci raggiunge (o in qualche modo la raggiungiamo) non si capisce quali conseguenze possa avere per la nostra vita a cominciare da catastrofi economiche e naturali, pandemie, criminalità, terrorismo, rivolgimenti politici fino agli eventi bellici. Arrivare a saper spiegare gli eventi – questo sarebbe il primo effetto di una intelligenza della transizione – comporterebbe accrescere il senso di sicurezza degli individui e delle varie forme di comunità in cui si sono organizzati. E nel fare questo riuscire a governare i processi e l’evoluzione delle cose e dei rapporti. E nella lettura delle evoluzioni possibili sviluppare capacità previsive.

L’intelligence necessaria al mondo contemporaneo e a quello in divenire, adeguata alla complessità delle forme che il Pianeta assume, non è pertanto più da intendere come “mestiere” per specialisti, per corpi separati e anonimi dello stato, condizionati da una eventuale visione fobica della sicurezza o dalle esigenze di appagamento di ambizioni e di costi di una vera e propria casta di “sacerdoti” e di “aruspici”, bensì come un’attività intellettuale di tutta la classe dirigente (a questo fine formata e “obbligata” ad una formazione permanente) per essere posta al servizio di una società trattata da adulta che, da tale scelta audace, possa trarre vantaggio e sicurezza reale e non solo abilmente e manipolativamente “fatta percepire”.
Dove il concetto di sicurezza è garantito da scelte eque e non da un’idea ristretta ad un compito di polizia, ma piuttosto ad un bene collettivo cui tutti i cittadini possono e devono essere messi in grado di concorrere grazie ad una progressiva accresciuta consapevolezza di ciò che li circonda (quasi fossero immersi anch’essi favoriti in un processo di formazione permanente simile a quello dedicato alla politica e alla dirigenza della collettività), per pervenire ad un’accresciuta capacità socialmente diffusa di conoscenza della realtà.
Altro che quattro costosi inutili convegnetti, passerella di vecchi arnesi dei servizi, dedicati arrogantemente all’intelligence “diffusa e partecipata“. Partecipata da chi, ancora ci chiediamo perplessi (e un po’ incazzati) visto l’uso stracciaculo che delle nostre idee lasciate (dieci anni prima) volutamente in libertà in rete, è stato fatto?
A cosa, secondo la nostra marginale e ininfluente opinione, viceversa, ci si sarebbe dovuti dedicare, rimuovendo le troppe strisce di carta moschicida spacciate per scuole di intelligence, a cominciare dai famigerati corsi di formazione della Link Campus University? La prima cosa che sarebbe stato opportuno fare era immergersi in uno studio approfondito del ruolo dell’informazione che nell’era contemporanea è il nutrimento dell’intelligence del reale o, a dir si voglia, della transizione. Della transizione o della conoscenza dei futuri possibili. Conoscenza dei fatti quindi o, detto altrimenti, la verità delle cose. Direte che di un “vasto programma” si sarebbe trattato, liquidando così il mio sogno utopico. 

Certo che è un disegno audace ma senza la conoscenza verace dei fatti e delle cose almeno cercata grazie alla scienza transdisciplinare, le pantomime delle passerelle di esperti sostanzialmente finalizzate a coprire i giochi delle nomine e delle cordate (se non delle bande) a cui affidare l’uso opaco dei fondi a disposizione nelle agenzie (come da sempre si era fatto), erano destinate a fare la fine che hanno fatto: chiacchiere perché nulla cambiasse. E nulla è cambiato.
Si sarebbe dovuto, come ho accennato, lavorare sul ruolo dell’informazione mai rimuovendo che essa è possibile solo dove regni la libertà di informazione intesa come libertà di accesso alle fonti, come condizione di autenticità della conoscenza. E quando dico “accesso alle fonti” non intendo dire “girare per internet”.
Se si riuscisse nel primo intento ci si potrebbe dedicare a capire se stiamo vivendo “in democrazia” o già in una forma ormai degenerata delle istituzioni repubblicane per cui in realtà di libertà e di democrazia se ne respira pochissima. Intendo principalmente il diritto alla libertà di informare e di essere informati. Poca libertà e pochissima qualità degli addetti ai lavori condizionano lo stato dell’arte dell’informazione nel nostro Paese. Certo che non siamo nella Russia di Putin dove i giornalisti sono fatti sparire o imprigionati ma a ritenere che si sia liberi di concorrere realmente alla formazione della volontà politica con cui i cittadini sono comunque “governati”, ci passa un oceano.
Benjamin Franklin,  che sono certo sappiate chi fosse, era solito dire : “La libertà della stampa deve essere assoluta, i giornali devono essere lasciati liberi di esercitare la propria funzione investigativa e di controllo con forza, vigore e senza impedimenti“. Stiamo nel 1789 .
Pochi anni dopo, da Napoleone Bonaparte furono pronunciate altrettanto famose parole: “Temo più i giornali che centomila baionette“.
La libertà di stampa quindi per secoli temuta da tutti i nemici della democrazia e della libertà di pensiero e d’azione.
Per non farsi mancare nulla aggiungerei l’affermazione lapidaria di Alexis de Tocqueville: “La libertà d’informazione è la sola difesa reale contro la tirannide della maggioranza“.
A voi sembra che nel mondo e nella nostra Italietta ci sia “libertà di stampa”?
E non viceversa una condizione generale di grave soffocamento dove il sistema dei media nel suo complesso (tranne poche felici eccezioni che andrebbero coltivate e opportunamente protette) soffre di una patologia che potremmo definire come “la scomparsa dei fatti” (figurarsi un’intelligence delle cose e dei fatti come accennavo) che sembra essersi costituita come una vera e propria strategia di difesa con cui le oligarchie politiche, nelle forme oggi già operanti, cercano abilmente (e in parte riuscendoci) di sottrarsi al giudizio dell’opinione pubblica sul proprio operato. Per questo, tra l’altro, il 50% degli aventi diritto al voto, si astengono.

Una patologia (è una malattia e va in qualche modo curata o vi ucciderà) che, dietro lo scudo di un pluralismo formale e senza la forma tradizionale della tirannide, somiglia moltissimo a quel “delitto perfetto” che il grande (per me certamente lo è stato) studioso dei mezzi di comunicazione, ormai deceduto ma vivo e vegeto nelle tracce che il suo pensiero ha lasciato (ci sono perfino cultori che vorrebbero la trilogia cinematografica Matrix ispirata alla sua visione della complessità quella in cui siamo immersi e in cui ci prepariamo a vivere) Jean Baudrillard imputa principalmente al sistema dei media (e non solo quindi), colpevoli di avviluppare la coscienza dell’uomo moderno in un mondo virtuale, ecco Matrix, di mera apparenza sempre più lontano dal contatto con la realtà. Un mondo che, tra gli effetti che produce, priva il cittadino della possibilità di conoscere la realtà, limitandone il potere di incidere su di essa e pregiudicando così, sostanzialmente, l’essenza stessa della democrazia.
Ecco quindi profilarsi le ragioni strategiche che mi hanno indotto, anni addietro, a ritenere il terreno della individuazione di ciò che è notizia/fatto vera/o, falsa/o, autentica/o quello su cui si sarebbe giocato il futuro delle collettività umane. E non solo quelle degli umani. Per ora ci fermiamo e ce ne andiamo dal cardiologo a verificare se l’intervento (è trascorso quasi un mese) ha fatto il suo effetto taumaturgico e ripristinante un buon uso di quel che mi rimane in zucca.
Buona giornata a tutti. Comunque.

Oreste Grani/Leo Rugens

P.S. Jean Baudrillard, ad onor del vero, ha sempre smentito di essere l’ispiratore di Matrix. Ma alcuni (ed io sono tra questi) sono attratti dall’idea che ci sia un filo rosso che unisce il pensiero complesso di Baudrillard (e quindi anche di Morin) al prodotto cinematografico che tanto successo ha avuto.