C’è propaganda e propaganda

Sento parlare ancora una volta di un Piano Marshall cioè di un piano politico-economico per la ricostruzione dell’Ucraina dopo quanto sta accadendo e dovrà ancora accadere.
I filmati mostrano macerie. Le corrispondenze parlano solo di macerie e di luoghi ormai senza acqua, luce, gas, ospedali, ponti, scuole, asfalto stradale, fabbriche, centri commerciali, abitazioni, luoghi di intrattenimento, cimiteri, impianti sportivi e mi fermo per la tristezza di dover elencare ciò che non c’è più. Parlare seriamente del futuro dell’Ucraina senza mettere in conto che il Piano Marshall (a prescindere dalle condizioni storiche completamente diverse) era basato su un’affermazione cardine: “In qualunque circostanza si raggiunge il benessere soltanto insieme“, Together (insieme) era la parola chiave del titanico sforzo economico. Economico e politico. Che ci siano soldi per ricostruire l’Ucraina, ne sono certo. Che si possa – viceversa – usare a ragione l’espressione “sforzo politico” ho i miei fortissimi dubbi. E non vi dico “together“. Insieme a chi? Cosa chiederanno gli eventuali ricostruttori al popolo ucraino per ricostruire la loro Patria azzerata?
Tutto quello che risulta esserci sotto terra? Tutto quello che, per decenni, i cittadini produrranno in agricoltura? Putin si voleva prendere con la prepotenza questo “tutto” ma ora si tratta di capire (forse guardo troppo in avanti ma così sono) chi dovrà pagare il conto. O siete tra quelli che pensano che non debba pagare il conto l’aggressore? Vedete quindi che non si tratta solo di non arrendersi ma mentre non si consente all’orco di massacrare tutti, pensare al futuro.

Per questo Zelens’kyj, sia pur giovanissimo, rischia di invecchiare precocemente. Il presidente eroe comincia non a caso a parlare di soldi e non solo di armi. Dichiara grandi cifre (7 miliardi di dollari americani al mese) necessarie per non morire come stato sovrano. E per ricostruire l’Ucraina quanti miliardi di miliardi ci vorranno? Scelgo un po’ di materiali per avviare questo ragionamento sulla ricostruzione non certo di poco peso.
Oreste Grani/Leo Rugens


RULLI DI TAMBURO? VENTI DI GUERRA? I CANNONI STANNO PER TUONARE? TEMO DI SÌ

La vera complessità – dice Edgar Morin (e non da oggi) – è una sfida per lo spirito. Il destino dell’umanità dipende da un modo nuovo di pensare la realtà umana, da un umanesimo della fragilità, che ci vede tutti uniti, perché tutti naufraghi“. 
Queste parole sono andato a ricercarle in un documento elaborato anni addietro, prima che fosse certo il disastro ambientale, quello contingente pandemico e le conseguenze dell’ennesima ricorrente perdurante crisi planetaria finanziaria, sociale, economica, geopolitica. Nelle frasi di Morin ci sono parole come “complessità” e “spirito”. E poi “umanità”, “umana”, “umanesimo” interconnesse con “fragilità” ed “essere tutti naufraghi”. Mi guardo intorno e vedo solo uomini di Stato che preparano guerre. Spendono qualche paroletta per qualche giorno e in qualche occasione rituale e poi nulla che assomigli ad un nuovo modo di pensare. A prescindere dalla “pandemia”.

Nulla che rimandi ad una strada tracciata per condurre alla convivenza, alla collaborazione, alla cooperazione e a quella pace alimento indispensabile dell’azione politica delle istituzioni, dei governi in rotazione, dell’opera di quanti appartengono al mondo della cultura e dell’arte. In Eurasia si prepara la guerra e tranne pochissimi (Papa Francesco e chi altro?) siamo in troppi, troppo indifferenti. La gente in Ucraina soffre da anni. In Bielorussia altrettanto. Eppure mentre avremmo dovuto, anche noi italiani (e so quello che dico), alimentare la costruzione (anche metaforica) di ponti e canali di comunicazione stimolando, valorizzando, utilizzando le energie (quanta straordinaria intelligenza giace sprecata!), le capacità, le vocazioni, per progetti e finalità comuni, nell’ambito di un ideale e di un programma alto di cittadinanza planetaria.

Viceversa, Covid o non Covid, ci stiamo incartando sprecando eccellenza e vocazioni asservendole alla guerra quale semplicistica soluzione che le peggiori élite che la storia abbia visto governare, si preparano a scatenare. Sperando, allarmisticamente, di sbagliarmi. Ricordatemi (se vi può interessare) di raccontarvi quando spesi soldi (oltre dieci anni addietro) per mandare alcuni collaboratori in quel di Minsk (Bielorussia quindi) a capire come la genialità italiana potesse innestarsi su ciò che si voleva realizzare (parlo di infrastrutture) a quelle latitudini, prima che il tutto prendesse un’altra piega. Quella piega che, sentite a me, ormai gli avvenimenti, a meno di un miracolo, hanno preso.

Oreste Grani/Leo Rugens


NEW PIANO MARSHALL? PROVEREI PRIMA A FAR FARE LE ASTE A QUELLI CHE LO CITANO

Qualche giorno addietro nella programmazione di una qualche tv è andato in onda “Salvate il soldato Ryan” di Steven Spielberg. Un capolavoro. Se non lo sapete (ma è difficile che non lo sappiate) la storia è vera nel senso che trovate a seguire riassunta come è in realtà andata. In questa sede mi interessa usare uno spunto che il film mi ha fatto sovvenire: il nome di George Marshall. Marshall, nel film, è il Capo dello Stato Maggiore dell’Esercito americano (tale nella vita reale, dal primo all’ultimo giorno della Guerra Mondiale che gli anglo-americani vincono, tra l’altro, grazie alle sue grandissime capacità organizzative) che mette in moto il rientro di Ryan prima che anche lui muoia.

Chi era, dunque, il vero protagonista di Salvate il soldato Ryan? Si chiamava Frederick Niland ed era nato a Tonawanda, nello stato di New York, da una famiglia di origini irlandesi. All’entrata in guerra degli Stati Uniti, come altri suoi coetanei, Frederick e i tre fratelli, Bob, Preston ed Edward, raggiunsero i due fronti principali del conflitto, la Francia e il Pacifico. Edward, creduto erroneamente morto, fu fatto prigioniero in un campo della Birmania, mentre Preston e Bob, invece, persero la vita durante i primi giorni del D-Day. Frederick lo scoprì quando provò a far visita a Bob, assegnato all’82.ma Divisione Aviotrasportata. La notizia arrivò con tutto il suo carico d’angoscia, che sarebbe diventato più pesante alla scoperta del decesso di Preston, a Utah Beach.

 

George Catlett Marshall (Uniontown, 31 dicembre 1880 – Washington, 16 ottobre 1959) è stato un generale e politico statunitense.

Grande organizzatore e stratega militare, assunse nel 1939 la carica di Capo di Stato maggiore dell’Esercito degli Stati Uniti, mantenendo l’incarico per tutta la Seconda guerra mondialee divenendo il principale consigliere militare del presidente Franklin Delano Roosevelt che riponeva piena fiducia nelle sue capacità.

Pur non assumendo mai comandi operativi sul campo, Marshall, personalità austera e autorevole che godeva di grande prestigio all’interno delle forze armate, diresse dagli Stati Uniti lo sforzo bellico globale del paese e svolse un ruolo decisivo per il potenziamento dell’esercito americano che si trasformò nel corso del conflitto in una potente ed efficiente macchina da guerra completamente motorizzata in grado di vincere sia in Europa che nel fronte del Pacifico.

Dopo la seconda guerra mondiale, come segretario di stato del presidente Harry Truman, legò il proprio nome ad un piano per la ricostruzione post-bellica in Europa, passato alla storia come Piano Marshall.

Nacque in una famiglia di ceto medio di Uniontown, Pennsylvania e studiò presso il Virginia Military Institute. Dopo il diploma entrò nell’Esercito degli Stati Uniti e gli vennero assegnati diversi incarichi negli Stati Uniti e nelle Filippine: qui prese parte alla guerra filippino-americana prima come comandante di plotone e poi comandante di compagnia.

Durante la prima guerra mondiale si occupò di pianificare operazioni e addestramenti della 1st Infantry Division. In seguito lavorò al fianco del generale John J. Pershing, comandante dell’American Expeditionary Forces, e la sua collaborazione fu di importanza vitale per la riuscita dell’offensiva della Mosa-Argonne. Divenne generale di brigata nel 1936 e capo di Stato Maggiore generale nel 1939.

In questa carica riorganizzò profondamente le forze armate statunitensi nella prospettiva della guerra, ed esercitò un grande influsso sulla condotta delle operazioni in tutti gli scacchieri bellici del mondo.

Nel 1941 fu fatto Massone “a vista” (cioè senza cerimonia rituale d’iniziazione) dal Gran Maestro della Gran Loggia del District of Columbia.

Partecipò anche alle conferenze interalleate di Casablanca, Jalta e Potsdam, in cui vennero decise le grandi linee strategico-politiche della guerra. Dopo la vittoria tentò, senza successo, una mediazione tra Mao Tse Tung e Chiang Kai-shek per evitare la guerra civile in Cina.

Nel 1947 fu chiamato dal presidente Harry Truman alla segreteria di Stato, e fu allora che, in un discorso all’Università Harvard, offrì agli Stati europei il finanziamento di quel programma di ricostruzione economica che passò alla storia come piano Marshall. Il piano fu accettato solo dai paesi dell’Europa Occidentale, che contribuirono a formularlo nei dettagli.

Nel 1950, nominato da Truman segretario della Difesa degli Stati Uniti d’America in seguito allo scoppio della guerra di Corea, rimase in carica un anno. Ebbe il premio Nobel per la pacenel 1953. Fu anche decorato della Legion d’Onore.

Morì nel 1959 e venne sepolto nel Cimitero nazionale di Arlington, Virginia.

Nella mia vita (e anche in quella di molti di voi) Marshall è il nome del Piano di cui, spesso a sproposito, in questi giorni “bellici”, sentite parlare perfino dall’ultima delle Giorgia Meloni d’Italia. Il Piano Marshall (il proponente era appunto il Segretario di Stato fresco di guerra guerreggiata finita) ha la mia età (è del 1947) e questo è uno dei motivi per cui sono affezionato al nome e agli effetti indotti. Sono – di fatto – un figlio allevato con i proventi del Piano.

La prima cosa che – senza alcuna ipocrisia – va ricordato di Marshall è che è stato un massone. E che massone! Massone di quella massoneria democratica e progressista legata anche al nome dei Roosevelt. E per essere ancora più precisi a Eleanor Roosevelt, moglie del Presidente Franklin Delano e madrina (attenti alle date e alla portata delle scelte culturali) della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, che è del 1948. Marshall, Roosevelt entrambi massoni quindi. Il primo addirittura iniziato alla Massoneria “a vista”, cioè senza cerimonia formale.

OresteGrani/Leo Rugens