Quanto è ancora forte la necessità del confine?

Tra 24 mesi (un batter di ciglio?) si dovrebbe tenere a Roma il principale momento di incontro tra le comunità accademiche e intellettuali del mondo intero in occasione del 25° Congresso Mondiale di Filosofia. Filosofi, pensatori complessi, numerosi (così mi auguro da anni) intellettuali non accademici proveranno a pensare, per giorni e in sinergia logica, “oltre le frontiere”, appesantiti come quasi tutti saranno da quella che si può definire la necessità del confine. Mai dimenticando che sono gli uomini a creare limiti e frontiere con la loro pratica e la loro conoscenza dello spazio. Mentre la natura non crea che accidenti ai quali, eventualmente, può essere conferito lo statuto di frontiere. A questo pensiero del geografo “umano” Claude Raffestin mi aggrappo quando osservo gli avvenimenti bellici. Quelli di ieri, dell’oggi e, temo, dei due anni che ci separano dall’evento politico culturale previsto a Roma.
Il mio personale contributo, in ruolo di semplice cittadino tifoso, si arricchisce oggi di materiale che raccolgo “passeggiando per il mondo web (e un po’ nella mia labirintica memoria) raccogliendo un filo qui, una latta là, un pezzo di legno più in là e prova ad unirli nel modo consentito dalle loro strutture e circostanze senza altro motivo se non che è lui che può unirli“. O almeno, in questo sogno folle a cui mi lascio andare, così spero che sia.
Il nostro spazio è delimitato e definito da una striscia imponderabile, spartiacque tra un dentro familiare e circoscritto e un fuori ancora da esplorare.
Al di qua dell’orizzonte c’è il mondo conosciuto, rassicurante.
Oltre vi è l’ignoto, l’esterno di cui spesso si è negata l’esistenza identificandolo col nulla.
Ma la storia delle esplorazioni e dei progressi della scienza insegna che si tratta di un confine mobile, che si sposta sempre più in là man mano che l’uomo perfeziona i suoi strumenti conoscitivi, annettendo sempre nuovi territori esterni al suo spazio concepibile.
Percorrendo in auto una strada della Calabria non eravamo sicuri del nostro itinerario e fu per noi di grande sollievo incontrare un vecchio pastore […]
Gli offrimmo di salire in auto per accompagnarci fino al bivio […] poi lo avremmo riportato al punto in cui lo avevamo incontrato. Sali in auto con qualche diffidenza, come se temesse una insidia, e la sua diffidenza si andò via via tramutando in angoscia perché ora, dal finestrino cui sempre guardava, aveva perduto la vista del campanile di Marcellinara, punto di riferimento del suo estremamente circoscritto spazio domestico.
Per quel campanile scomparso, il povero vecchio si sentiva completamente spaesato.
[Quando] lo riportammo […] indietro […], secondo l’accordo, stava con la testa fuori del finestrino, scrutando l’orizzonte, per veder riapparire il campanile di Marcellinara: finché, quando finalmente lo vide, il suo volto si distese e il suo vecchio cuore si andò pacificando, come per la riconquista di una patria perduta […].
Anche gli astronauti […] possono patire di angoscia quando viaggiano negli spazi, quando perdono nel silenzio cosmico il rapporto con quel “campanile di Marcellinara” che è il pianeta Terra, e il mondo degli uomini: e parlano, parlano […] per non perdere il senso della loro terra.ERNESTO DE MARTINO
Striscia imponderabile …
…oltre vi è l’ignoto
…angoscia…
…spaesato …
…la vista del campanile …
…patria perduta.

Cortesemente leggete il testo di Ernesto De Martino. Passate poi a vederne biografia e il forte meridionalismo.
https://it.wikipedia.org/wiki/Ernesto_de_Martino
A questo punto rimanete qualche minuto con lo sguardo sull’opera di Lucio Fontana.
Poi, sempre cortesemente, leggete il testo relativo alla paura, all’angoscia e al dentro e al fuori. E’ un plagio ma in altro post ho già detto la mia sull’argomento dello scopiazzare.

A fine lettura, se siete sopravvissuti, dedicate un po’ di tempo ad Arnold Gehlen senza farvi condizionare dalle sue scelte “politiche” che chiamerò giovanili. Non assolvo nessuno (ci mancherebbe) ma preferisco farlo conoscere che rimuoverlo.
https://it.wikipedia.org/wiki/Arnold_Gehlen
Oreste Grani/Leo Rugens più folle che mai.

Il pericolo assoluto in cui l’umanità sembra essere ricaduta (ma ne era mai uscita?) richiede una protezione dal mondo come tale. Si badi: il “mondo” dell’animale umano non può essere equiparato all’ambiente dell’animale non umano, ossia all’habitat circoscritto in cui quest’ultimo si orienta perfettamente in base a istinti specializzati.
Il mondo umano ha sempre qualcosa di indeterminato, è carico di imprevisti e di sorprese, è un contesto vitale mai padroneggiato una volta per tutte: per questo è fonte di una permanente insicurezza. Mentre i pericoli relativi hanno “nome e cognome”, la pericolosità assoluta non ha un volto preciso né un contenuto univoco.La distinzione kantiana tra i due tipi di rischio e di sicurezza si prolunga nel discrimine, tracciato da Heidegger, tra paura e angoscia. La paura è riferita a un fatto ben preciso, alla solita slavina o alla disoccupazione; l’angoscia non ha, invece, una precisa causa scatenante. Nelle pagine di Essere e tempo di Heidegger è, l’angoscia è provocata dalla pura e semplice esposizione al mondo, dall’incertezza e dall’indecisione con cui si manifesta la nostra relazione con esso. La paura è sempre circoscritta e nominabile; l’angoscia è onnilaterale, non è connessa a qualche occasione privilegiata, può sopravvenire in qualsiasi momento o frangente. Queste due forme di timore (paura e angoscia, per l’appunto) e i corrispondenti antidoti si prestano a una analisi storico-sociale.
La distinzione fra timore circoscritto e timore indeterminato vi è là dove vi sono comunità sostanziali, che costituiscono un alveo capace di incanalare la prassi e l’esperienza collettiva. Un alveo fatto di usi e costumi ripetitivi e perciò confortevoli, di un ethos consolidato. La paura si situa all’interno della comunità, delle sue forme di vita e di comunicazione. L’angoscia fa invece la sua comparsa allorché ci si allontana dalla comunità di appartenenza, dalle abitudini condivise, dai “giochi linguistici” risaputi, inoltrandosi nel vasto mondo. Al di fuori della comunità, il pericolo è ubiquo, imprevedibile, costante: insomma, angoscioso. Controparte della paura è una sicurezza che la comunità può, in linea di principio, garantire; controparte dell’angoscia (ossia dell’esposizione al mondo come tale) è il riparo procacciato dall’esperienza religiosa.
Ebbene, la linea divisoria, il limite,il confine tra paura e angoscia, timore relativo e timore assoluto, è precisamente ciò che è venuto meno. Il concetto di “popolo”, sia pure con molte variazioni storiche, è legato a filo doppio alla netta separazione tra un “dentro” abituale e un “fuori” ignoto e ostile. Il concetto di “moltitudine” è incardinato, invece, alla fine di tale separazione. La distinzione tra paura e angoscia, come pure quella tra riparo relativo e riparo assoluto, è destituita di fondamento per almeno tre motivi.
Il primo è che non si può più parlare ragionevolmente di comunità sostanziali. Oggi, ogni impetuosa innovazione non sconvolge forme di vita tradizionali e ripetitive, ma interviene su individui ormai abituati a non avere più solide abitudini, adusi al mutamento repentino, esposti all’inconsueto e all’imprevisto. Si ha a che fare, sempre e comunque, con una realtà già innovata a più riprese. Non è dunque possibile una effettiva distinzione tra un “dentro” stabile e un “fuori” incerto e tellurico. La permanente mutevolezza delle forme di vita, nonché l’addestramento a fronteggiare un’aleatorietà senza argini, comportano una relazione diretta e continua con il mondo in quanto tale, con il contesto indeterminato della nostra esistenza.Si ha dunque una completa sovrapposizione di paura e angoscia. Quando perdo il lavoro, devo affrontare, sì, un pericolo ben definito, che suscita uno specifico timore; sennonché, questo pericolo fattuale si colora immediatamente di una angoscia indeterminata, si confonde con un più generale disorientamento al cospetto del mondo, fa tutt’uno con l’insicurezza assoluta in cui versa l’animale umano in quanto carente di istinti specializzati. Si potrebbe dire: la paura è sempre angosciosa, il pericolo circoscritto esibisce sempre la generale rischiosità dello stare al mondo. Se le comunità sostanziali velavano o attutivano la relazione con il mondo, la loro dissoluzione mette quest’ultima in piena luce: la perdita del posto di lavoro, l’innovazione che cambia i connotati alle mansioni lavorative, la solitudine metropolitana prendono su di sé molti tratti che, in precedenza, appartenevano ai terrori provati fuori dalle mura della comunità. Bisognerebbe trovare un termine, diverso tanto da “paura” quanto da “angoscia”, un termine che dia conto della loro fusione. A me viene in mente perturbante. Ma sarebbe troppo lungo giustificare, qui, questa scelta.
Passiamo al secondo approccio critico. In base alla rappresentazione tradizionale, la paura è un sentimento pubblico, mentre l’angoscia riguarda il singolo isolato dal prossimo suo. A differenza della paura, provocata da un pericolo che riguarda virtualmente molti membri della comunità e può essere contrastato con l’altrui soccorso, lo spaesamento angoscioso elude la sfera pubblica e concerne unicamente la cosiddetta interiorità dell’individuo. Questa rappresentazione è diventata del tutto inattendibile. Per certi versi, deve addirittura essere rovesciata. Oggi, tutte le forme di vita sperimentano quel “non sentirsi a casa propria”, che, secondo Heidegger, sarebbe all’origine dell’angoscia. Sicché, non c’è nulla di più condiviso e di più comune, in un certo senso di più pubblico, del sentimento di “non sentirsi a casa propria”. Nessuno è meno isolato di colui che avverte la spaventosa pressione del mondo indeterminato. Detto in altro modo, il sentimento in cui convergono paura e angoscia è immediatamente affare di molti. Si potrebbe dire, forse, che il “non sentirsi a casa propria” è addirittura un tratto distintivo del concetto di moltitudine, mentre la separazione tra il “dentro” e il “fuori”, fra la paura e l’angoscia, contrassegnava l’idea hobbesiana (e non solo hobbesiana) di popolo. Il popolo è uno, perché la comunità sostanziale coopera per sedare le paure che scaturiscono da pericoli circoscritti. La moltitudine, invece, è accomunata dal repentaglio derivante dal “non sentirsi a casa propria”, dall’esposizione onnilaterale al mondo.
Terzo e ultimo rilievo critico, forse il più radicale. Esso concerne la stessa coppia timore-riparo. È sbagliata, in essa, l’idea secondo cui prima proveremmo un timore e, solo poi, ci daremmo da fare per procurarci un riparo. È del tutto fuori luogo uno schema stimolo-risposta, o causa-effetto. C’è da credere piuttosto che l’esperienza originaria sia quella di procacciarsi dei ripari. Anzitutto, ci proteggiamo; poi, mentre siamo intenti a proteggerci, mettiamo a fuoco quali siano i pericoli con cui abbiamo a che fare. Arnold Gehlen diceva che campare, per l’animale umano, è un compito gravoso, per far fronte al quale occorre anzitutto mitigare il disorientamento dovuto al fatto che non disponiamo di un “ambiente” prefissato. Basilare è questo destreggiarsi a tentoni nel proprio contesto vitale. Mentre cerchiamo di orientarci, e con ciò di salvaguardarci, ci avvediamo anche, spesso retrospettivamente, delle diverse forme di pericolo.
C’è di più. Non solo il pericolo si definisce a partire dall’originaria ricerca di un riparo, ma, ecco il punto veramente cruciale, esso si manifesta per lo più come specifica forma di riparo. Il pericolo consiste, a ben vedere, in una orripilante strategia di salvezza (si pensi al culto di una “piccola patria” etnica). La dialettica tra pericolo e riparo si risolve, in ultimo, nella dialettica tra forme alternative di protezione. Ai temibili ripari si oppongono ripari di secondo grado, capaci cioè di far da antidoto ai veleni dei primi. Dal punto di vista storico e sociologico, non è difficile rendersi conto che il male si esprime proprio e soltanto come replica orribile alla rischiosità del mondo, come pericolosa ricerca di protezione: basti pensare alla tendenza ad affidarsi a un sovrano (robusto o da operetta, poco importa), allo sgomitare convulso per la carriera, alla xenofobia. Si potrebbe anche dire: veramente angoscioso è solo un certo modo di fronteggiare l’angoscia. Ripeto: decisiva è l’alternativa tra diverse strategie di rassicurazione, la contrapposizione tra forme antipodi che di riparo. Per questo, sia detto di passaggio, è stolto sia trascurare il tema della sicurezza, sia (e ancor di più) brandirlo senza ulteriori qualificazioni (non ravvisando proprio in esso, in certe sue declinazioni, l’autentico pericolo).
È in questa modificazione della dialettica timore-riparo che si radica, in primissimo luogo, l’esperienza della moltitudine contemporanea (o, se preferite, postfordista).
Forse il confine è il segno (invisibile) più demonizzato che ci sia. Lo si intende sempre come separazione netta tra chi è dentro e chi è fuori.
Eppure la storia insegna che il confine è luogo poroso di scambi, di traffici (mbe sì, non sempre leciti), di contaminazione.
Non c’è muro che tenga. Non alla lunga, almeno.
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Povera carne da macello.
https://www.ilfattoquotidiano.it/2022/06/07/giovani-poveri-morti-lidentikit-dei-soldati-russi-uccisi-in-ucraina-in-tre-mesi-il-tasso-di-mortalita-dei-giovani-e-gia-aumentato-del-20/6617315/
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Caro Cuculo, “segno invisibile” è un ossimoro gigantesco. Grazie per avermi allietato la mattinata.
Alberto Massari
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