Verso il 25° anniversario di un incontro

Quelle che seguono sono alcune pagine di dialogo tratte dai “I fiori blu” di Raymond Queneau nella traduzione di Italo Calvino. Questo post in realtà lo dovete considerare una prova generale di ragionamento tra ciò che resta della Francia e chi sta per esalare l’ultimo respiro in Italia. Spero che sia chiaro a tutti che le Alpi ormai dividono (e pertanto uniscono) due comunità “democratiche” drammaticamente entrate in fase comatosa.
Oggi (così mi sono risvegliato dopo aver sognato), mi aggrappo, disperatamente, all’idea che un semplice bicchierino di essenza di finocchio (così mi appaiono le pagine scelte), grazie alla fantasmagoria linguistica del capolavoro di Queneau costruita su sfolgoranti giochi di parole e citazioni erudite, vari un’Arca Italo-Francese dove salvare il salvabile ora che, a Roma come a Parigi, è cominciato il Diluvio. Perché, sentite a me, mentre tutti inutilmente abbiamo aspettato la pioggia per le nostre campagne, è cominciato a strapiovere. Ma temo non acqua salvifica. Anzi.

Oreste Grani/Leo Rugens

Cidrolin aperse gli occhi; gli stavano mormorando qualcosa all’orecchio. Era Lalice: gli annunciava che il pranzo era in tavola.

– Però, – aggiunse, – questo sí che si chiama ronfare! La prima colazione già l’ha saltata; non potevo mica lasciarla dormire tutto il giorno: col bel pranzetto che le ho preparato! Cidrolin la guardava distratto: era un ricordo troppo recente per permettergli di riconoscerla.
– I sogni che ho fatto, – mormorò tra sé. – Non bisogna raccontarli.
– E perché no? – domandò Cidrolin, interessato.
– Sono cose che non si fanno.
– Ma perché? 

Lalice, per tutta risposta, disse:
– A tavola.
Faceva ancora bel tempo, la tavola era sul ponte, apparecchiata per uno.
– E lei ha già mangiato? – chiese Cidrolin.
– Sissignore.
– La prossima volta m’aspetterà e apparecchierà per due.
– Molgentile, tangrazie.
Cidrolin s’avviò verso la cambusa. Lalice si precipitò.
– Desidera?
– L’essenza di finocchio. 

– A digiuno, vuol mandar giú dell’essenza di finocchio?
– Ci ho l’abitudine.
– È nocivo.
Cidrolin ride dolcemente.
– È vero, – insiste Lalice. – È quel che c’è di piú nocivo.
– Se vuol andare a rifare la valigia, non la trattengo. Le pagherò pure il salario d’un mese se si toglie subito di mezzo.
– Non voglio che lei perda i suoi soldi, – fa Lalice. 

Cidrolin va a prendere la bottiglia, si versa un quarto di bicchiere e lo colma con l’acqua naturale. Bevendo, fissa con occhio vago un armo di vogatori che s’allenano. 

Quando il bicchiere è vuoto, Lalice gli chiede:
– Posso portare in tavola?
– Sotto.
Lalice serve burro e una scatoletta di tonno all’olio puro d’arachide. Sta a guardare Cidrolin che mangia. 

– Se mi sta a guardare cosí, mi dà sui nervi, – dice Cidrolin. – Si sieda e mi racconti qualche cosa.
– Mica mi ha preso per Shéhérazade? – fa Lalice. 

– Oh! – fa Cidrolin. – Abbiamo una cultura.
– Un po’ non guasta. Non trova?
– D’accordo.
– Neh? – soggiunge Lalice, con soddisfazione.

– Lei ha la sua cultura, i suoi principî: non bere essenza di finocchio a digiuno, non raccontare i sogni. Ma perché non raccontarli, i sogni, poi? 

– Non è buona educazione.
– È la prima parola che sento, – dice Cidrolin. 

– La gente, – continua Lalice, – si credono d’essere chissà che cosa, tutto quel che fanno è meraviglioso, tutto quel che li riguarda… Si dànno tanta di quell’importanza… ci manca pure di sorbirsi la storia di cos’è che si son sognati…
– I miei sogni rivestono un particolare interesse, – asserí Cidrolin.
– Questo lo credono tutti. Difficile da provare, perché non si possono fare paragoni. 

– I miei sogni, – disse Cidrolin, – li scrivessi, farebbero un romanzo. 

– E non le pare che di romanzi ce n’è già fin sopra i capelli?
– Non abbia paura, – disse Cidrolin. – Non sono un lavoratore della scrivania.
– Oh, io non ho paura di niente. 

– Vede, – spiegò Cidrolin, – quando m’ha detto che non bisognava raccontare i sogni, ho pensato che era per via della psicanalisi e dei psicanalisti.
– Della che?
– Psicanalisi. Non sa cos’è? –
– Io no.
– Credevo che avesse una cultura.

– Non si può mica saper tutto, – disse Lalice.
– Vero anche questo.
Avendo cosí egli terminato i filetti di tonno, s’informò di quel che sarebbe venuto in seguito, formulando questa domanda:

– E dopo, cosa c’è?
– Una scatoletta di paté di fegato. Le va?
– Non vorrei che se l’avesse a male, – disse Cidrolin, – ma fin lí ci arrivavo anch’io.
– Il signor Albert mi aveva detto che lei era un tipo che si contentava facilmente, invece è sempre dietro a frignare.
– Be’, – fa Cidrolin. – Era solo una critica marginale. Non ne parliamo piú.
Lalice serve la scatoletta di paté. 

– Posso rimettermi a sedere?
– Certo. 

Melanconicamente, in silenzio, Cidrolin spalma il paté.
– Allora, – fa Lalice, – quella roba che mi diceva prima. Sui sogni.
– La psicanalisi? 

– Eh.
– E i psicanalisti?
– Eh.
– Be’, – fa Cidrolin, masticando laboriosamente il suo sandwich, – sono gente che interpretano i sogni. E non finisce mica lí. Scoprono tutto quel che c’è sotto. Insomma, fan quello. E allora c’è delle persone appunto che non ci stanno, a lasciarsi scoprire cosa c’è sotto, e non vogliono raccontare piú i loro sogni a nessuno.
– Tanto di guadagnato per tutti, – fa Lalice. 

– Ah, ma ce l’ha proprio su.
– Su con chi?
– Con chi racconta i sogni.