Che si spenga, per sempre, la semenza degli uomini "coi piedi per terra"
Ancora su vero/falso o autentico
Perché quell’ignorantone acclarato e anche un po’ stupidotto di Grani si metta a scrivere di Luciana Stegagno Picchio non si deve sapere. A meno che qualcuno tra i miei lettori sappia a cosa mi riferisco e cosa preferisco, in questa sede, non dichiarare. Comunque è cosa che riguarda la statura intellettuale (un vero gigante o si deve dire gigantessa?) della Picchio e del suo amore/conoscenza del Baule di Pessoa. Comunque il post odierno, un po lungo e certamente impegnativo, attiene al tema irrisolto del vero, del falso o dell’autentico di cui a volte ho fatto cenno e di cui, verso la fine del tempo che mi è stato concesso per apprendere, ritengo di essere diventato un discreto cultore. Luciana Stegagno Picchio ha scritto molto. Non so se quelli che sanno chi fosse la professoressa abbiano mai letto il testo che lascio a seguire. Comunque, sentite a me, direi che è ottimo. E detto da un ignorantone, ci si può fidare.
Già il titolo dell’articolo è un capolavoro: Veri Racconti Immaginari.
Siamo nel maggio del 1991 e la Picchio scriveva:
“Uno dei più affascinanti e popolari libri di viaggio di tutti i tempi è, nel tardo medioevo e accanto ad opere come il Milione di Marco Polo, il cosiddetto Mandavilla. E’ la cronaca dei viaggi compiuti nella prima metà del Trecento, in Palestina e in Estremo Oriente, da un controverso Sir John Mandeville, il quale dopo la prima stesura francese del testo, verso il 1357, ne avrebbe curato anche le versioni inglese e latina. Veri o falsi i Manderville’s Travels? Pochi testi come questa summa di un sapere antico e nuovo, che in Italia avrebbe adottato il titolo di Viaggi ovvero Trattato delle cose più meravigliose e più notabili che si trovano al mondo, seppero venire incontro all’attesa di nuovi mondi e di nuove realtà geografiche e antropologiche, ma insieme alla sete di meraviglioso che alimentava i sogni dell’uomo all’uscita del tunnel medioevale. Vi si abbeverarono poeti, narratori e moralisti come l’Ariosto e il Tasso, Montaigne, Rabelais e Cervantes, accanto a un eretico popolano come il Domenico Scandella detto Menocchio, reinventato per noi da uno storico quale Carlo Ginzburg. Ma anche un navigatore come Cristoforo Colombo lo aveva tra le sue letture di studio: se dobbiamo prestar fede alla testimonianza di Fernán Colón, figlio del navigatore, la teoria degli antipodi di Colombo, con quella immagine curiosa degli uomini che si distribuivano attorno alla sfera terrestre «fin che venissero a star piedi contra piedi gli uni con gli altri in qualsivoglia parte che in opposito si trovasse», coincideva parola per parola con quella data nei Travels. Il fatto è che vero e falso, fuori delle contraddittorie posizioni filosofiche, appaiono sempre rapportabili alla situazione e al punto di vista. Così che vero sarebbe ciò che, per comune consenso, si considera tale in una determinata situazione temporale o spaziale. Ed è così che noi possiamo oggi, dal nostro punto di vista e di conoscenze, spigolare il vero tra le fole dell’antichità: e ciò lasciando per ora da parte ogni preliminare discorso sull’attendibilità filologica del testo cui ci si riferisce e, d’altro canto, su l’intrinseca essenza di personaggi storici (la genovesità di Colombo ecc.). C’era, nei Travels of Sir John Mandeville, un inestricabile miscuglio di esperienza e di prefigurazione, di storia e di fantasia, di vero e di falso. I suoi itinerari da Cipro a Gerusalemme, con la descrizione dei Luoghi Santi e delle usanze dei Saraceni, così come le notizie sulla Sicilia e l’Egitto, l’India, il Catai e la Persia, avevano una loro base nei realia e in una tradizione geografica e storiografica che veniva dall’antichità greca e latina, ma già si avvaleva delle nuove nozioni fornite dalla scienza moderna. In un determinato momento può essere considerato vero, sia pur in prospettiva di una innovazione, ciò che riferisce esattamente la tradizione. E forse qui, più che a una coppia come vero/falso ci aiuterebbe meglio nel nostro discorso un’opposizione quale giusto/sbagliato, più facilmente rapportabile a un determinato universo storico.
Si annidava nel Mandavilla, e ne costituiva il principale incanto, tutto il meraviglioso e insieme tutta la teratologia che un Medioevo cupido, ma anche timoroso dell’avventura, attribuiva ai paesi ignoti. La materia veniva da precedenti libri dottrinali o enciclopedici – come lo Speculum di Vincent de Beauvais o di viaggio – Marco Polo, Giovanni dal Pian del Carpine, Odorico da Pordenone – relativi alle crociate e alle scoperte nell’Asia centro-orientale: una enciclopedia appunto anche i Travels, la cui verità sarebbe rapportabile solo al momento di cui essa dà testimonianza. Vengono dal Mandavilla, o sono recuperati attraverso questo favoloso libro, molti dei miti che condizionavano allora il sistema di attese dell’uomo moderno di fronte al mondo sconosciuto: le isole, l’oro, ma soprattutto i mostri, che sono combinazioni oniriche di realia: cinocefali, sirene, pigmei, giganti antropofagi e giganti monocoli, donne con occhi di basilisco, uomini senza testa con gli occhi sulle spalle e bocca al centro del petto, uomini col piede equino ed esseri androgini, galline lanute come pecore e alberi con frutti gravidi di agnellini. Ognuno di questi miti aveva alle spalle un nucleo che potremmo chiamare storico: e la veridicità di Mandeville potrebbe essere identificata con il suo scrupolo ad attribuire quel fenomeno, quel mostro, a quella situazione o a quel paese secondo una tradizione già conosciuta e ben assimilata. Ora, se Mandeville sembrerebbe un caso estremo, il discorso potrebbe essere ripetuto per ogni testo di viaggio, dell’antichità o dei tempi moderni, nella lettura del quale si dovrebbe tener conto del punto di vista e dell’orizzonte di attese del viaggiatore. E allora capiremmo perché Colombo, che era un uomo colto e sapeva dell’esistenza delle sirene, le riconoscesse nel momento in cui vedeva saltare le orche marine in lontananza, mentre il suo marinaio, Michele da Cuneo, ben più rozzo e capace di legare senza tanti complimenti un’india antropofaga per farci l’amore, non vedesse in loro assolutamente nulla di femminile. Che è poi la motivazione prima della nouvelle histoire: in che misura poteva essere vero, al di là di ogni volontaria manipolazione o strumentalizzazione, racconto di viaggio della circumnavigazione dell’Africa effettuato dal capitano della flotta di Vasco da Gama o quello, ben diverso, del suo più umile mozzo?
C’è poi, anche da parte di viaggiatori che hanno veramente compiuto un viaggio e che vogliono raccontarlo nel modo più vero, il problema della riproduzione e dell’inclusione, nel racconto, di topoi, luoghi comuni e motivi tratti da racconti precedenti: come il topos dei cannibali. Non è qui il caso di discettare se e in che misura esistano o siano realmente esistiti i cannibali, modernizzazione colombiana – all’incontro coi Caribi-Caraibi delle Piccole Antille – del topos degli antichi antropofagi, che al tempo di Erodoto e di Strabone abitavano significamente le regioni estreme del mondo. Non si tratta cutere se essi esistessero quando navigavano Colombo e Vespucci o il povero lanzichenecco Hans Staden che avrebbe raccontato la sua avventura coi Tupinambá che volevano mangiarlo in una deliziosa Wahrhaftliche Geschichte, Vera Storia, e l’aggettivo è significativo. Ma si tratta di dire a storici e antropologi, e dalla trincea della filologia, che tutti i racconti cinquecenteschi sui cannibali sono calcati parola per parola l’uno sull’altro, lasciando quanto meno il dubbio al lettore sulla verità dell’incontro. E questo a cominciare da Montaigne, che dichiarava di averne tratto l’informazione direttamente da un uomo semplice che era stato laggiù, evitando le notizie elaborate e glossate, e quindi falsate, dai narratori colti; e invece ripeteva anche lui, parola per parola, il topos consolidato, solo mutandogli (e qui stava la genialità) il segno e cioè la connotazione. Cannibali sì, ma buoni.
Se c’è un genere i cui testi in ogni epoca siano dovuti passare al vaglio non solo dei posteri ma già dei contemporanei, alla luce dell’opposizione vero/falso, questo è privilegiatamente l’insieme degli scritti, d’invenzione e testimonianza, che va sotto il nome di letteratura di viaggi. Dopo essere stato a lungo, e per tradizione romantico-ottocentesca, applicato selettivamente al complesso degli scritti di invenzione e immaginazione, il termine «letteratura» ha visto nel nostro secolo allargato il proprio dominio con l’introduzione di una categoria del «letterario» correlata al concetto di funzione poetica: per cui anche i resoconti di viaggio, i diari e le cronache, e perfino i portolani dei piloti potrebbero venir giudicati più o meno «letterari» a seconda dell’incidenza in essi di questa specifica funzione poetica. Lasciamo stare che, nella comune accezione del termine, la letteratura sia comunque ancora e sempre equivalente di invenzione poetica, sottolineatura retorica, menzogna; o, se si vuole, metafora, trasfigurazione e interpretazione a un più alto livello dei dati del reale e, sulla base di questi, prefigurazione. Comunque è un fatto che la letteratura di viaggi si trova a partecipare dei due universi espressivi cui il suo nome rimanda: quello del viaggio e quello della sua registrazione. Prescindiamo da viaggi metaforici come quello della Commedia, e limitiamoci a quel tipo di testi che, nel Cinquecento di Ramusio, i letterati raccoglievano in sillogi quali le Navigazioni e Viaggi al servizio di geografi e cosmografi, di astronomi e di storici della navigazione. Quanto valgono, in un testo che si pone come testimonianza di un’esperienza di viaggio realmente vissuta da parte del soggetto che ne dà testimonianza diretta – garanzia di un ipse vidi non contaminato dalla trasmissione testuale – i referenti oggettivi del racconto, i tempi e i luoghi dell’esperienza, le realtà geografiche e antropologiche?
E quanto valgono i racconti di imprese da lui attribuite a terzi e raccontate come fededegne? E quanto infine incide sulle prime e le seconde la loro inclusione, per scelta dell’autore o per nostro attuale riconoscimento, nella sfera del letterario? Il testo è, o si finge, documento, supporto di storia, e di una storia in cui lo storico è insieme colui che ha visto e colui che indaga, nel senso erodoteo della parola. Ma la storia, lo sappiamo, è anche racconto e il racconto è organizzazione personale di una materia di per sé informe, è scelta e interpretazione: non basta che il racconto abbia una sua «base storica» anziché essere pura favola, per poter rientrare nella casella del vero. Perché è qui che si inserisce la categoria del letterario o, meglio, l’intersezione del reale con il letterario. Senza contare che quando il viaggio è raccontato da un io narrante, esso si pone anche come autobiografia, con tutte le implicazioni che il nuovo sottogenere comporta: idealizzazione dell’io, enfasi o litote. L’attuale voga in ogni paese della cosiddetta letteratura di viaggio deriva senza dubbio da un intreccio di circostanze: ma la stessa conclamata rivalutazione della paraletteratura, dove il diario di viaggio si troverebbe a dar di gomito al diario del politico o della prostituta, rispecchia anzitutto il desiderio di capire, e di capire per la via più schietta della testimonianza, ciò che avviene nel mondo. La fame di storia è di tutti i tempi ed è di tutti i tempi la discussione sul suo vero e il suo falso. Ed è per questo forse che nel Cinquecento dei portoghesi, mentre nessuno contestava la verità del poema nazionale dei Lusíadas, perché la sua verità era di ordine superiore, la critica del popolino si accaniva contro un libro di viaggi molto più fededegno di quello (ce ne accorgiamo oggi), come la Peregrinazione di Fernão Mendes Pinto, un navigatore solitario in India, Cina e Giappone, al cui sofferto racconto si rispondeva col giocarello onomastico: Fernão Mendes? Minto. Fernando, menti? Mento.”
LUCIANA STEGAGNO PICCHIO
Filologa e storica della letteratura. Docente di Lingua e letteratura portoghese all’Università di Roma – La Sapienza Vi ho detto che era un post impegnativo. E ho mantenuto la “promessa”.
Sì, sì! Ci è piaciuto! E non solo per l’ovvia simpatia tra un Cuculo ed un Picchio…
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