Il papa emerito Benedetto XVI a mio modesto avviso muore colpevole 

Da cui si deduce in modo semplice (direi certo) che nel ’68 il “Vaticanoera impegnato a fare altro che a curare anime.
E che il suo futuro destino di luogo segnato drammaticamente da comportamenti illeciti (affarismo spregiudicato), con particolare riferimento alla sfera sessuale (pedofilia, droga, omicidi insiegabili, frequentazioni malavitose) non era certamente influenzato dall’ideologia sessantottina, come viceversa il gran mentitore (un amico è rimasto turbato dai miei modi di trattare il ricordo dell’Emerito) ha sostenuto per anni. Il Vaticano (e Ratzinger non poteva non saperlo visti incarichi e sapienza), era un cesto di vipere e malaffare, da decenni, a cominciare proprio dalla Pro Deo, in cui già allora si aggirava un giovane e aitante Paul Marcinkus. Quale ’68? 

Quando infatti nella biografia di Carmine Pecorelli si legge che l’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno della Repubblica Italiana (Umberto Federico D’Amato tessera P2 n° 554) interviene (era il 17 ottobre del 1968) per impedire la pubblicazione di una scottante (direi devastante) inchiesta su quella centrale di malaffare (IOR) e di spionaggio (Università Pro Deo), si fotografa una condizione di corruzione che non troverà, per decenni, neanche il sia pur timido tentativo di soluzione fino all’elezione del gesuita Bergoglio.

Di Bergoglio e non certamente di Ratzinger che invece di guardare la trave nell’occhio della Chiesa e dello Stato Vaticano, si dilettava a ragionare di pagliuzze rappresentate da qualche giovane laico (in quanto tale libero di farlo) finalmente sessualmente un po’ più estroverso. In Vaticano, viceversa, gli affari e il sesso (ed altro) andavano a spron battuto, di pari passo, reciprocamente alimentandosi perché se si voleva vivere nell’illecito e pagandosi vizi (droga e giovani prestanti), ci volevano soldi e se i soldi delle elemosine non erano sufficienti, si dovevano procurare. A qualunque costo.

Come si scoprì saper fare bene il quarantenne giocatore di golf e rugby Paul Marcinkus il quale non solo, nel 1968, era già ben noto in Pro Deo (e quindi in stretto rapporto con il suo abile scudiero, prefetto Umberto Federico D’Amato) ma cominciava la sua frequentazione spregiudicata di quel capolavoro di criminalità politico-affaristica che fu Mario Foligni. Marcinkus (vedete di non dimenticarlo quando doveste avere la compiacenza di leggermi nei prossimi giorni) era nato a Cicero nell’Illinois, nel 1922: se fosse rimasto in vita avrebbe compiuto da poco cento anni risultando quasi coetaneo di Ratzinger, che era del 1925. Questo riferimento al millesimo è per dire che difficilmente Ratzinger non sapeva chi fosse Marcinkus “il gorilla”, cosa era accaduto nello IOR e come la Curia romana non fosse proprio una confraternita di credenti in Dio. A prescindere dagli scritti teologici (tantissimi) di Benedetto XVI e di quanto oggi dichiara il suo segretario Georg Ganswein ritengo per cominciare a mettere le mani avanti.

Erano gli anni del “demoniaco” Sessantotto e Marcinkus, ormai ai vertici della finanza vaticana, frequentava Michele Sindona.
Anzi era socio del mafioso piduista tessera n°501, in Interbanca, nelle Bahamas. Altro che ’68 corruttore! Per non parlare delle trame certe tra Marcinkus e Leopold Ledl (vedete cosa potete saperne a prescindere da quanto appena posso vi racconto io stesso), l’austriaco che proprio a ridosso degli anni post ’68, risiedeva all’Hotel Columbus, stanza 338, albergo a due passi dal Palazzo della Congregazione della Dottrina della Fede luogo di potere che, per anni, vide le attività “caritatevoli” di Ratzinger quando si interessava di Padre Eterno e di satanassi sessantottini.

Tutti sapevano quasi tutto ma nessuno fece di fatto niente fino all’arrivo dall’estrema periferia (questo era l’Argentina) del Papa “comunista”. Così come, grazie alla complicità di Marcinkus, monsignor Alberto Barbieri (oltre a fare quel che faceva da scatenato sessantottino sempre in compagnia di avvenenti donne pronte a tutto per denaro) riuscì a stornare dalla loro legittima destinazione sessanta tonnellate di burro della CEE. Erano state destinate alla Vatican’s Pontificial Relief Organization che avrebbe dovuto distribuirle ad ospedali, case di riposo e orfanatrofi. Finirono invece, nel 1969 (cioè un anno dopo la rivoluzione sessantottina a cui tutti i comportamenti malvagi dei membri della Chiesa vanno ricondotti, sempre secondo il teologo Ratzinger) al mercato nero.

Mercato occulto e di colore nero, come l’anima di troppi esponenti della Curia romana che Benedetto XVI non mosse un dito per individuare e punire, sia pure a posteriori. Questo per cominciare a lasciare detto che Ratzinger si è fatto da parte per manifesta inferiorità rispetto ai satanassi che compravano e vendevano di tutto all’ombra del Cupolone. E anche sotto i suoi occhi. Manifesta inferiorità o mancanza di coraggio? O altro?

Papa Bergoglio, dal giorno dopo la sua elezione, sta cercando di impedire che i satanassi continuino a spadroneggiare e lo fa secondo un preciso progetto che aveva in mente quando è stato scelto. A tal proposito preferirei lasciarvi leggere l’intervista che Francesco, coraggiosamente, rilasciò il 15/12/2013. Sapevo di Lui da prima dell’evento giornalistico ma quelle dichiarazioni mi convinsero che qualcosa sarebbe successo per provare a scacciare i mercanti dal tempio e per distribuire un po’ di macine per i pedofili. E soprattutto mettere mano allo IOR.


Cosa che non era certo accaduta, torno a ribadirlo, sotto il pontificato del colto teologo tedesco. O io ho visto un altro film e allora mi scuso, anche con l’amico che mi ha criticato per la durezza del mio scrivere.
Comunque, sentite a me, siamo solo all’inizio dell’inevitabile scontro che si delinea per la guerra di successione al vertice della Chiesa. Chiesa che si deve preparare ad una lunghissima Via Crucis. Pena la sua estinzione se dovesse sbagliare il successore di Bergoglio.

Cosa ultima ma non ultima: Ratzinger piaceva molto a Kirill, il Pazzo sanguinario. E Kirill piaceva non poco a Benedetto XVI. E di questi tempi anche queste simpatie non mi sembrano cose minori.

Oreste Grani/Leo Rugens


VATICAN INSIDER

15/12/2013

“Mai avere paura della tenerezza”

Intervista con papa Francesco su Natale, fame nel mondo, sofferenza dei bambini, riforma della Curia, donne cardinale, Ior e prossimo viaggio in Terra Santa

ANDREA TORNIELLI (VATICAN INSIDER)

Il Natale per me è speranza e tenerezza…». Francesco racconta a «La Stampa» il suo primo Natale da vescovo di Roma. Casa Santa Marta, martedì 10 dicembre, ore 12.50. Il Papa ci accoglie in una sala accanto al refettorio.
L’incontro durerà un’ora e mezza. Per due volte, durante il colloquio, dal volto di Francesco sparisce la serenità che tutto il mondo ha imparato a conoscere, quando accenna alla sofferenza innocente dei bambini e parla della tragedia della fame nel mondo. Nell’intervista il Papa parla anche dei rapporti con le altre confessioni cristiane e dell’«ecumenismo del sangue» che le unisce nella persecuzione, accenna alle questioni del matrimonio e della famiglia che saranno trattate dal prossimo Sinodo, risponde a chi lo ha criticato dagli Usa definendolo «un marxista» e parla del rapporto tra Chiesa e politica.

Che cosa significa per lei il Natale?

«È l’incontro con Gesù. Dio ha sempre cercato il suo popolo, lo ha condotto, lo ha custodito, ha promesso di essergli sempre vicino. Nel Libro del Deuteronomio leggiamo che Dio cammina con noi, ci conduce per mano come un papà fa con il figlio. Questo è bello. Il Natale è l’incontro di Dio con il suo popolo. Ed è anche una consolazione, un mistero di consolazione. Tante volte, dopo la messa di mezzanotte, ho passato qualche ora solo, in cappella, prima di celebrare la messa dell’aurora. Con questo sentimento di profonda consolazione e pace. Ricordo una volta qui a Roma, credo fosse il Natale del 1974, una notte di preghiera dopo la messa nella residenza del Centro Astalli. Per me il Natale è sempre stato questo: contemplare la visita di Dio al suo popolo».

Che cosa dice il Natale all’uomo di oggi?

«Ci parla della tenerezza e della speranza. Dio incontrandoci ci dice due cose. La prima è: abbiate speranza. Dio apre sempre le porte, mai le chiude. È il papà che ci apre le porte. Secondo: non abbiate paura della tenerezza. Quando i cristiani si dimenticano della speranza e della tenerezza, diventano una Chiesa fredda, che non sa dove andare e si imbriglia nelle ideologie, negli atteggiamenti mondani. Mentre la semplicità di Dio ti dice: vai avanti, io sono un Padre che ti accarezza. Ho paura quando i cristiani perdono la speranza e la capacità di abbracciare e accarezzare. Forse per questo, guardando al futuro, parlo spesso dei bambini e degli anziani, cioè dei più indifesi. Nella mia vita di prete, andando in parrocchia, ho sempre cercato di trasmettere questa tenerezza soprattutto ai bambini e agli anziani. Mi fa bene, e mi fa pensare alla tenerezza che Dio ha per noi». 

Come si può credere che Dio, considerato dalle religioni infinito e onnipotente, si faccia così piccolo?

«I Padri greci la chiamavano “synkatabasis”, condiscendenza divina. Dio che scende e sta con noi. È uno dei misteri di Dio. A Betlemme, nel 2000, Giovanni Paolo II disse che Dio è diventato un bambino totalmente dipendente dalle cure di un papà e di una mamma. Per questo il Natale ci dà tanta gioia. Non ci sentiamo più soli, Dio è sceso per stare con noi. Gesù si è fatto uno di noi e per noi ha patito sulla croce la fine più brutta, quella di un criminale».

Il Natale viene spesso presentato come fiaba zuccherosa. Ma Dio nasce in un mondo dove c’è anche tanta sofferenza e miseria.

«Quello che leggiamo nei Vangeli è un annuncio di gioia. Gli evangelisti hanno descritto una gioia. Non si fanno considerazioni sul mondo ingiusto, su come faccia Dio a nascere in un mondo così. Tutto questo è il frutto di una nostra contemplazione: i poveri, il bambino che deve nascere nella precarietà. Il Natale non è stata la denuncia dell’ingiustizia sociale, della povertà, ma è stato un annuncio di gioia. Tutto il resto sono conseguenze che noi traiamo. Alcune giuste, altre meno giuste, altre ancora ideologizzate. Il Natale è gioia, gioia religiosa, gioia di Dio, interiore, di luce, di pace. Quando non si ha la capacità o si è in una situazione umana che non ti permette di comprendere questa gioia, si vive la festa con l’allegria mondana. Ma fra la gioia profonda e l’allegria mondana c’è differenza».

È il suo primo Natale, in un mondo dove non mancano conflitti e guerre…

«Dio mai dà un dono a chi non è capace di riceverlo. Se ci offre il dono del Natale è perché tutti abbiamo la capacità di comprenderlo e riceverlo. Tutti, dal più santo al più peccatore, dal più pulito al più corrotto. Anche il corrotto ha questa capacità: poverino, ce l’ha magari un po’ arrugginita, ma ce l’ha. Il Natale in questo tempo di conflitti è una chiamata di Dio, che ci dà questo dono. Vogliamo riceverlo o preferiamo altri regali? Questo Natale in un mondo travagliato dalle guerre, a me fa pensare alla pazienza di Dio. La principale virtù di Dio esplicitata nella Bibbia è che Lui è amore. Lui ci aspetta, mai si stanca di aspettarci. Lui dà il dono e poi ci aspetta. Questo accade anche nella vita di ciascuno di noi. C’è chi lo ignora. Ma Dio è paziente e la pace, la serenità della notte di Natale è un riflesso della pazienza di Dio con noi».

In gennaio saranno cinquant’anni dallo storico viaggio di Paolo VI in Terra Santa. Lei ci andrà?

«Natale sempre ci fa pensare a Betlemme, e Betlemme è in un punto preciso, nella Terra Santa dove è vissuto Gesù. Nella notte di Natale penso soprattutto ai cristiani che vivono lì, a quelli che hanno difficoltà, ai tanti di loro che hanno dovuto lasciare quella terra per vari problemi. Ma Betlemme continua a essere Betlemme. Dio è venuto in un punto determinato, in una terra determinata, è apparsa lì la tenerezza di Dio, la grazia di Dio. Non possiamo pensare al Natale senza pensare alla Terra Santa. Cinquant’anni fa Paolo VI ha avuto il coraggio di uscire per andare là, e così è cominciata l’epoca dei viaggi papali. Anch’io desidero andarci, per incontrare il mio fratello Bartolomeo, patriarca di Costantinopoli, e con lui commemorare questo cinquantenario rinnovando l’abbraccio tra Papa Montini e Atenagora avvenuto a Gerusalemme nel 1964. Ci stiamo preparando». 

Lei ha incontrato più volte i bambini gravemente ammalati. Che cosa può dire davanti a questa sofferenza innocente?

«Un maestro di vita per me è stato Dostoevskij, e quella sua domanda, esplicita e implicita, ha sempre girato nel mio cuore: perché soffrono i bambini? Non c’è spiegazione. Mi viene questa immagine: a un certo punto della sua vita il bambino si “sveglia”, non capisce molte cose, si sente minacciato, comincia a fare domande al papà o alla mamma. È l’età dei “perché”. Ma quando il figlio domanda, poi non ascolta tutto ciò che hai da dire, ti incalza subito con nuovi “perché?”. Quello che cerca, più della spiegazione, è lo sguardo del papà che dà sicurezza. Davanti a un bambino sofferente, l’unica preghiera che a me viene è la preghiera del perché. Signore perché? Lui non mi spiega niente. Ma sento che mi guarda. E così posso dire: Tu sai il perché, io non lo so e Tu non me lo dici, ma mi guardi e io mi fido di Te, Signore, mi fido del tuo sguardo».

Parlando della sofferenza dei bambini non si può dimenticare la tragedia di chi soffre la fame.

«Con il cibo che avanziamo e buttiamo potremmo dar da mangiare a tantissimi. Se riuscissimo a non sprecare, a riciclare il cibo, la fame nel mondo diminuirebbe di molto. Mi ha impressionato leggere una statistica che parla di 10mila bambini morti di fame ogni giorno nel mondo. Ci sono tanti bambini che piangono perché hanno fame. L’altro giorno all’udienza del mercoledì, dietro una transenna, c’era una giovane mamma col suo bambino di pochi mesi. Quando sono passato, il bambino piangeva tanto. La madre lo accarezzava. Le ho detto: signora, credo che il piccolo abbia fame. Lei ha risposto: sì sarebbe l’ora… Ho replicato: ma gli dia da mangiare, per favore! Lei aveva pudore, non voleva allattarlo in pubblico, mentre passava il Papa. Ecco, vorrei dire lo stesso all’umanità: date da mangiare! Quella donna aveva il latte per il suo bambino, nel mondo  abbiamo sufficiente cibo per sfamare tutti. Se lavoriamo con le organizzazioni umanitarie e riusciamo a essere tutti d’accordo nel non sprecare il cibo, facendolo arrivare a chi ne ha bisogno, daremo un grande contributo per risolvere la tragedia della fame nel mondo. Vorrei ripetere all’umanità ciò che ho detto a quella mamma: date da mangiare a chi ha fame! La speranza e la tenerezza del Natale del Signore ci scuotano dall’indifferenza».

Alcuni brani dell’«Evangelii Gaudium» le hanno attirato le accuse degli ultra-conservatori americani. Che effetto fa a un Papa sentirsi definire «marxista»?

«L’ideologia marxista è sbagliata. Ma nella mia vita ho conosciuto tanti marxisti buoni come persone, e per questo non mi sento offeso». Le parole che hanno colpito di più sono quelle sull’economia che «uccide»… «Nell’esortazione non c’è nulla che non si ritrovi nella Dottrina sociale della Chiesa. Non ho parlato da un punto di vista tecnico, ho cercato di presentare una fotografia di quanto accade. L’unica citazione specifica è stata per le teorie della “ricaduta favorevole”, secondo le quali ogni crescita economica, favorita dal libero mercato, riesce a produrre di per sé una maggiore equità e inclusione sociale nel mondo. C’era la promessa che quando il bicchiere fosse stato pieno, sarebbe trasbordato e i poveri ne avrebbero beneficiato. Accade invece che quando è colmo, il bicchiere magicamente s’ingrandisce, e così non esce mai niente per i poveri. Questo è stato l’unico riferimento a una teoria specifica. Ripeto, non ho parlato da tecnico, ma secondo la dottrina sociale della Chiesa. E questo non significa essere marxista».

Lei ha annunciato una «conversione del papato». Gli incontri con i patriarchi ortodossi le hanno suggerito qualche via concreta?

«Giovanni Paolo II aveva parlato in modo ancora più esplicito di una forma di esercizio del primato che si apra ad una situazione nuova. Ma non solo dal punto di vista dei rapporti ecumenici, anche nei rapporti con la Curia e con le Chiese locali. In questi primi nove mesi ho accolto la visita di tanti fratelli ortodossi, Bartolomeo, Hilarion, il teologo Zizioulas, il copto Tawadros: quest’ultimo è un mistico, entrava in cappella, si toglieva le scarpe e andava a pregare. Mi sono sentito loro fratello. Hanno la successione apostolica, li ho ricevuti come fratelli vescovi. È un dolore non poter ancora celebrare l’eucaristia insieme, ma l’amicizia c’è. Credo che la strada sia questa: amicizia, lavoro comune, e pregare per l’unità. Ci siamo benedetti l’un l’altro, un fratello benedice l’altro, un fratello si chiama Pietro e l’altro si chiama Andrea, Marco, Tommaso…».

L’unità dei cristiani è una priorità per lei?

«Sì, per me l’ecumenismo è prioritario. Oggi esiste l’ecumenismo del sangue. In alcuni paesi ammazzano i cristiani perché portano una croce o hanno una Bibbia, e prima di ammazzarli non gli domandano se sono anglicani, luterani, cattolici o ortodossi. Il sangue è mischiato. Per coloro che uccidono, siamo cristiani. Uniti nel sangue, anche se tra noi non riusciamo ancora a fare i passi necessari verso l’unità e forse non è ancora arrivato il tempo. L’unità è una grazia, che si deve chiedere. Conoscevo ad Amburgo un parroco che seguiva la causa di beatificazione di un prete cattolico ghigliottinato dai nazisti perché insegnava il catechismo ai bambini. Dopo di lui, nella fila dei condannati, c’era un pastore luterano, ucciso per lo stesso motivo. Il loro sangue si è mescolato. Quel parroco mi raccontava di essere andato dal vescovo e di avergli detto: “Continuo a seguire la causa, ma di tutti e due, non solo del cattolico”. Questo è l’ecumenismo del sangue. Esiste anche oggi, basta leggere i giornali. Quelli che ammazzano i cristiani non ti chiedono la carta d’identità per sapere in quale Chiesa tu sia stato battezzato. Dobbiamo prendere in considerazione questa realtà». 

Nell’esortazione lei ha invitato a scelte pastorali prudenti e audaci per quanto riguarda i sacramenti. A che cosa si riferiva?

«Quando parlo di prudenza non penso a un atteggiamento paralizzante, ma a una virtù di chi governa. La prudenza è una virtù di governo. Anche l’audacia lo è. Si deve governare con audacia e con prudenza. Ho parlato del battesimo, e della comunione come cibo spirituale per andare avanti, da considerare un rimedio e non un premio. Alcuni hanno subito pensato ai sacramenti per i divorziati risposati, ma io non sono sceso in casi particolari: volevo solo indicare un principio. Dobbiamo cercare di facilitare la fede delle persone più che controllarla. L’anno scorso in Argentina avevo denunciato l’atteggiamento di alcuni preti che non battezzavano i figli delle ragazze madri. È una mentalità ammalata». 

E quanto ai divorziati risposati?

«L’esclusione della comunione per i divorziati che vivono una seconda unione non è una sanzione. È bene ricordarlo. Ma non ho parlato di questo nell’esortazione». 

Ne tratterà il prossimo Sinodo dei vescovi?

«La sinodalità nella Chiesa è importante: del matrimonio nel suo complesso parleremo nelle riunioni del concistoro in febbraio. Poi il tema sarà affrontato al Sinodo straordinario dell’ottobre 2014 e ancora durante il Sinodo ordinario dell’anno successivo. In queste sedi tante cose si approfondiranno e si chiariranno». 

Come procede il lavoro dei suoi otto «consiglieri» per la riforma della Curia?

«Il lavoro è lungo. Chi voleva avanzare proposte o inviare idee lo ha fatto. Il cardinale Bertello ha raccolto i pareri di tutti i dicasteri vaticani. Abbiamo ricevuto suggerimenti dai vescovi di tutto il mondo. Nell’ultima riunione gli otto cardinali hanno detto che siamo arrivati al momento di avanzare proposte concrete, e nel prossimo incontro, in febbraio, mi consegneranno i loro primi suggerimenti. Io sono sempre presente agli incontri, eccetto la mattina del mercoledì per via dell’udienza. Ma non parlo, ascolto soltanto, e questo mi fa bene. Un cardinale anziano alcuni mesi fa mi ha detto: “La riforma della Curia lei l’ha già cominciata con la messa quotidiana a Santa Marta”. Questo mi ha fatto pensare: la riforma inizia sempre con iniziative spirituali e pastorali prima che con cambiamenti strutturali». 

Qual è il giusto rapporto fra la Chiesa e la politica?

«Il rapporto deve essere allo stesso tempo parallelo e convergente. Parallelo, perché ognuno ha la sua strada e i suoi diversi compiti. Convergente, soltanto nell’aiutare il popolo. Quando i rapporti convergono prima, senza il popolo, o infischiandosene del popolo, inizia quel connubio con il potere politico che finisce per imputridire la Chiesa: gli affari, i compromessi… Bisogna procedere paralleli, ognuno con il proprio metodo, i propri compiti, la propria vocazione. Convergenti solo nel bene comune. La politica è nobile, è una delle forme più alte di carità, come diceva Paolo VI. La sporchiamo quando la usiamo per gli affari. Anche la relazione fra Chiesa e potere politico può essere corrotta, se non converge soltanto nel bene comune».

Posso chiederle se avremo donne cardinale?
«È una battuta uscita non so da dove. Le donne nella Chiesa devono essere valorizzate, non “clericalizzate”. Chi pensa alle donne cardinale soffre un po’ di clericalismo».

Come procede il lavoro di pulizia allo Ior?

«Le commissioni referenti stanno lavorando bene. Moneyval ci ha dato un report buono, siamo sulla strada giusta. Sul futuro dello Ior si vedrà. Per esempio, la “banca centrale” del Vaticano sarebbe l’Apsa. Lo Ior è stato istituito per aiutare le opere di religione, missioni, le Chiese povere. Poi è diventato come è adesso». 

Un anno fa poteva immaginare che il Natale 2013  lo avrebbe celebrato in San Pietro?
«Assolutamente no». 

Si aspettava di essere eletto?

«Non me l’aspettavo. Non ho perso la pace mentre crescevano i voti. Sono rimasto tranquillo. E quella pace c’è ancora adesso, la considero un dono del Signore. Finito l’ultimo scrutinio, mi hanno portato al centro della Sistina e mi è stato chiesto se accettavo. Ho risposto di sì, ho detto che mi sarei chiamato Francesco. Soltanto allora mi sono allontanato. Mi hanno portato nella stanza adiacente per cambiarmi l’abito. Poi, poco prima di affacciarmi, mi sono inginocchiato a pregare per qualche minuto insieme ai cardinali Vallini e Hummes nella cappella Paolina».