Il presente futurocentrico e il valore della vecchiaia 

l 23 febbraio 2022, nell’Aula Paolo VI, Papa Francesco ebbe a dire a proposito della grazia del tempo e di una necessaria alleanza delle età della vita:

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Abbiamo finito le catechesi su San Giuseppe. Oggi incominciamo un percorso di catechesi che cerca ispirazione nella Parola di Dio sul senso e il valore della vecchiaia. Facciamo una riflessione sulla vecchiaia. Da alcuni decenni, questa età della vita riguarda un vero e proprio “nuovo popolo” che sono gli anziani. Mai siamo stati così numerosi nella storia umana. Il rischio di essere scartati è ancora più frequente: mai così numerosi come adesso, mai il rischio come adesso di essere scartati. Gli anziani sono visti spesso come “un peso”. Nella drammatica prima fase della pandemia sono stati loro a pagare il prezzo più alto. Erano già la parte più debole e trascurata: non li guardavamo troppo da vivi, non li abbiamo neppure visti morire. Ho trovato anche questa Carta per i diritti degli anziani e i doveri della comunità: questo è stato editato dai governi, non è editato dalla Chiesa, è una cosa laica: è buona, è interessante, per conoscere che gli anziani hanno dei diritti. Farà bene leggerlo.

Assieme alle migrazioni, la vecchiaia è tra le questioni più urgenti che la famiglia umana è chiamata ad affrontare in questo tempo. Non si tratta solo di un cambiamento quantitativo; è in gioco l’unità delle età della vita: ossia, il reale punto di riferimento per la comprensione e l’apprezzamento della vita umana nella sua interezza. Ci domandiamo: c’è amicizia, c’è alleanza fra le diverse età della vita o prevalgono la separazione e lo scarto?

Tutti viviamo in un presente dove convivono bambini, giovani, adulti e anziani. Però è cambiata la proporzione: la longevità è diventata di massa e, in ampie regioni del mondo, l’infanzia è distribuita a piccole dosi. Abbiamo pure parlato dell’inverno demografico. Uno squilibrio che ha tante conseguenze. La cultura dominante ha come modello unico il giovane-adulto, cioè un individuo che si fa da sé e rimane sempre giovane. Ma è vero che la giovinezza contiene il senso pieno della vita, mentre la vecchiaia ne rappresenta semplicemente lo svuotamento e la perdita? Quello è vero? Soltanto la giovinezza ha il senso pieno della vita, e la vecchiaia è lo svuotamento della vita, la perdita della vita? L’esaltazione della giovinezza come unica età degna di incarnare l’ideale umano, unita al disprezzo della vecchiaia vista come fragilità, come degrado o disabilità, è stata l’icona dominante dei totalitarismi del ventesimo secolo. L’abbiamo dimenticato questo?

L’allungarsi della vita incide in maniera strutturale sulla storia dei singoli, delle famiglie e delle società. Ma dobbiamo chiederci: la sua qualità spirituale e il suo senso comunitario sono oggetto di pensiero e di amore coerenti con questo fatto? Forse gli anziani devono chiedere scusa della loro ostinazione a sopravvivere a spese d’altri? O possono essere onorati per i doni che portano al senso della vita di tutti? Di fatto, nella rappresentazione del senso della vita – e proprio nelle culture cosiddette “sviluppate” – la vecchiaia ha poca incidenza. Perché?

Perché è considerata un’età che non ha contenuti speciali da offrire, né significati propri da vivere. Per di più, manca l’incoraggiamento delle persone a cercarli, e manca l’educazione della comunità a riconoscerli. Insomma, per un’età che è ormai una parte determinante dello spazio comunitario e si estende a un terzo dell’intera vita, ci sono – a volte – piani di assistenza, ma non progetti di esistenza. Piani di assistenza, sì; ma non progetti per farli vivere in pienezza. E questo è un vuoto di pensiero, di immaginazione, di creatività. Sotto questo pensiero, quello che fa il vuoto è che l’anziano, l’anziana sono materiale di scarto: in questa cultura dello scarto, gli anziani entrano come materiale di scarto.

La giovinezza è bellissima, ma l’eterna giovinezza è un’allucinazione molto pericolosa. Essere vecchi è altrettanto importante – e bello – è altrettanto importante che essere giovani. Ricordiamocelo. L’alleanza fra le generazioni, che restituisce all’umano tutte le età della vita, è il nostro dono perduto e dobbiamo riprenderlo. Deve essere ritrovato, in questa cultura dello scarto e in questa cultura della produttività

La Parola di Dio ha molto da dire a proposito di questa alleanza. Poco fa abbiamo ascoltato la profezia di Gioele: «I vostri anziani faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni» (3,1). Si può interpretare così: quando gli anziani resistono allo Spirito, seppellendo nel passato i loro sogni, i giovani non riescono più a vedere le cose che devono essere fatte per aprire il futuro. Quando invece i vecchi comunicano i loro sogni, i ragazzi vedono bene ciò che devono fare. I ragazzi che non interrogano più i sogni dei vecchi, puntando a testa bassa su visioni che non vanno oltre il loro naso, faticheranno a portare il loro presente e a sopportare il loro futuro. Se i nonni ripiegano sulle loro malinconie, i giovani si curveranno ancora di più sul loro smartphone. Lo schermo può anche rimanere acceso, ma la vita si spegne prima del tempo. Il contraccolpo più grave della pandemia non sta forse proprio nello smarrimento dei più giovani? I vecchi hanno risorse di vita già vissuta alle quali possono ricorrere in ogni momento. Staranno a guardare i giovani che smarriscono la loro visione o li accompagneranno riscaldando i loro sogni? Davanti ai sogni dei vecchi, cosa faranno i giovani?

La sapienza del lungo cammino che accompagna la vecchiaia al suo congedo va vissuta come una offerta di senso della vita, non consumata come inerzia della sua sopravvivenza. La vecchiaia, se non è restituita alla dignità di una vita umanamente degna, è destinata a chiudersi in un avvilimento che toglie amore a tutti. Questa sfida di umanità e di civiltà richiede il nostro impegno e l’aiuto di Dio. Chiediamolo allo Spirito Santo. Con queste catechesi sulla vecchiaia, vorrei incoraggiare tutti a investire pensieri e affetti sui doni che essa porta con sé e alle altre età della vita. La vecchiaia è un dono per tutte le età della vita. È un dono di maturità, di saggezza.

La Parola di Dio ci aiuterà a discernere il senso e il valore della vecchiaia; lo Spirito Santo conceda anche a noi i sogni e le visioni di cui abbiamo bisogno. E vorrei sottolineare, come abbiamo ascoltato nella profezia di Gioele, all’inizio, che l’importante è non solo che l’anziano occupi il posto di saggezza che ha, di storia vissuta nella società, ma anche che ci sia un colloquio, che interloquisca con i giovani. I giovani devono interloquire con gli anziani, e gli anziani con i giovani. E questo ponte sarà la trasmissione della saggezza nell’umanità. Mi auguro che queste riflessioni siano di utilità per tutti noi, per portare avanti questa realtà che diceva il profeta Gioele, che nel dialogo fra giovani e anziani, gli anziani possano dare i sogni e i giovani possano riceverli e portarli avanti.

Non dimentichiamo che nella cultura sia famigliare sia sociale gli anziani sono come le radici dell’albero: hanno tutta la storia lì, e i giovani sono come i fiori e i frutti. Se non viene il succo, se non viene questa “flebo” – diciamo così – dalle radici, mai potranno fiorire. Non dimentichiamo quel poeta che ho detto tante volte: “Tutto quello che l’albero ha di fiorito viene da quello che ha di sotterrato (Francisco Luis Bernárdez). Tutto quello che è bello che ha una società è in rapporto con le radici degli anziani. Per questo, in queste catechesi, io vorrei che la figura dell’anziano venga posta in evidenza, che si capisca bene che l’anziano non è un materiale di scarto: è una benedizione per una società.

Fino a qui Papa Francesco. Da alcuni anni, quasi quaranta, provavo a darmi risposte su questi stessi temi dopo aver letto un articolo in materia del filosofo storico e saggista polacco di origini francesi Krzysztof Pomian (Varsavia25 gennaio 1934). Un novantenne quindi. Cinquantenne quando lo scoprii.

Dal ’52 al ’57 studiò filosofia all’Università di Varsavia, nella quale conseguì il dottorato nel ’65 e l’abilitazione all’insegnamento, tre anni più tardi.

Dopo essersi schierato contro le politiche del regime comunista, nel ’66 fu espulso dal Partito dei lavoratori unificato polacco, e, nel ’68, fu privato del suo posto di insegnante. Nel ’73 emigrò in Francia, dove trascorse l’intera carriera accademica presso il Centro nazionale per la ricerca scientifica (CNRS), mentre insegnava all’École des hautes études en sciences sociales (EHESS), all’École du Louvre, all’Università di Ginevra e in altre università straniere.

Divenuto direttore onorario del CNRS e professore emerito all’Università “Nicolas Copernicus” di Toruń, in Polonia, dal gennaio 2001 è direttore scientifico del Museo d’Europa a Bruxelles.

Consigliere del comitato editoriale della rivista parigina Le Débat, è anche membro dei comitati editoriali o scientifici del Journal of the History of Collections (Oxford), La Storiografia (Roma), Vingtième siècle : revue d’histoire (Parigi), Perspective (Parigi), Zeitschrift für Ideengeschichte (Marbach) e del Comitato di programmazione del Museo di storia della seconda guerra mondiale (di Danzica) e del Comitato scientifico del Museo della Corsica (Corte). Presiede anche la giuria del Premio scientifico Jerzy Giedroyca Lublino, in Polonia.
È membro straniero dell’Accademia polacca di arti e lettere di Cracovia, dell’Ateneo Veneto di Venezia e dell’Accademia Clementina di Bologna.

La sua attività di ricerca storico-filosofica si è focalizzata sulla filosofia della conoscenza, la storia della cultura europea, la storia della storiografia, delle collezioni e dei musei.
I suoi articoli e libri sono stati scritti per la maggior parte in lingua polacca, e, a partire dal 1973, anche in francese, con traduzioni in tedesco, inglese, bulgaro, spagnolo, italiano, giapponese, olandese, portoghese, ceco e ucraino.

Ho la possibilità di riprodurre in Leo Rugens – Sconfinamenti il testo che me lo fece scoprire. 

Vediamo che effetto fa a voi.

E buona domenica che – notoriamente – è sempre domenica.

Oreste Grani/Leo Rugens


IL PRESENTE FUTUROCENTRICO

Una parte non trascurabile del nostro tempo è dedicata a imbastire progetti. Appena finite le vacanze, ci mettiamo a pensare alle prossime. Prepariamo l’educazione dei figli fin dal giorno in cui nascono. Progettiamo la nо stra carriera, mettiamo da parte i soldi in vista della pensione, ci assicuriamo contro malattie e cataclismi, investiamo i nostri risparmi in modo che fruttino. Se non possediamo già una tomba di famiglia acquistiamo un lotto al cimitero.

Tutte queste attività individuali e familiari, che dipendono dalla capacità di prevedere il futuro, sono possibili perché quest’ultimo è presente nel cuore stesso della nostra civiltà sotto forma di istituzioni di insegnamento e ricerca, e del sistema di previdenza sociale. Ma sono possibili anche perché al futuro è subordinato l’intero funzionamento della nostra economia. Nell’industria, gli investimenti sono spesso scaglionati sull’arco di diversi anni o decenni, non soltanto per quanto riguarda la produzione di energia – soprattutto nucleare – nell’aeronautica e nell’industria spaziale, ma anche nella chimica e nell’elettronica.

Sempre sull’arco di anni o decenni si attuano, in tutti i settori, i piani per l’introduzione di nuove tecnologie o per il lancio di nuovi prodotti. La borsa specula sui profitti che si ritiene produrranno le imprese che vi sono quotate e sulla salute dell’economia nel suo complesso, mentre gli istituti di credito prestano i capitali accumulati nella speranza di vederseli restituire a scadenza accresciuti di sostanziosi interessi.

Di fatto, le migliaia di persone impegnate in queste varie professioni non fanno che gestire il futuro, adattarvisi, plasmarlo o fare affidamento su di esso. A queste si aggiungano gli autori degli oroscopi diffusi dai mass media, i guru consultati dagli agenti di borsa, gli ideologi e i visionari che spesso si spacciano per uomini di scienza, gli studiosi che, sotto l’egida di prestigiose organizzazioni internazionali, redigono previsioni in materia demografica e sanitaria, valutano le future conseguenze ecologiche delle attività umane, le risorse naturali e il consumo energetico.

Possiamo quindi concludere che in tutti i paesi sviluppati una frazione non trascurabile della parte più qualificata della popolazione attiva si guadagna da vivere grazie all’orientamento della nostra società verso il futuro.

Presenza del futuro, presenza del passato. Una targa affissa su un edificio informa che esso risale al XII secolo, sottintendendo che si tratta dell’era cristiana. L’etichetta che accompagna le selci scheggiate nella vetrina di un museo archeologico afferma che esse risalgono all’aurignaciano; nella stessa sala, una tavola illustra la successione delle industrie litiche e la distanza che le separa dal presente. Agli alunni delle scuole si fanno leggere – anche se sempre meno gli autori greci e latini e quelli che rappresentano la letteratura nazionale di ogni paese, dalle origini – nel Medioevo o nel Rinascimento – fino a ieri. Feste e commemorazioni ravvivano il ricordo degli eroi dell’umanità o della patria, delle guerre, delle rivoluzioni, delle lotte per l’indipendenza, delle grandi scoperte e invenzioni, della fondazione di istituzioni culturali, scientifiche, politiche. Il culto religioso è intessuto di riferimenti a vicende che si sono svolte secoli e millenni or sono.

Vari passati diversi intervengono quindi nella nostra vita pubblica e sono numerose le professioni che si occupano di conservarne le vestigia, restaurarle, studiarle, renderle accessibili. Altrettanto dicasi per la vita privata: sono rare le famiglie che non posseggano carte, fotografie, oggetti ereditati dalle generazioni precedenti; più rare ancora quelle che non conservano immagini dei loro defunti e tracce delle tappe fondamentali della loro esistenza – matrimoni, nascite, lauree, servizio militare, promozioni – o del tran-tran della loro vita quotidiana, attestato da buste paga, ricevute dell’affitto di casa, documenti fiscali. Nel nostro paese quasi non esiste una casa che non abbia un proprio archivio.

L’avvenire, invisibile, si lascia prefigurare soltanto grazie a tecniche di previsione fondate su ragionamenti che partono dal presente e dal passato: in tal caso è rappresentato dall’andamento delle curve o dalle serie di cifre. Altrimenti resta soltanto l’immaginazione, che prendendo spunto da una credenza produce la visione di un avvenire che il suo autore crede possibile, auspicabile o necessario per il bene del suo popolo o dell’umanità, oppure, al contrario, pericoloso ma tale da poterne impedire la venuta, o ancora tristemente ineluttabile. Tali visioni, più o meno elaborate, sono costitutive di tutte le ideologie.

Invisibile come il futuro, il passato lo è però in modo diverso. Un futuro determinato, infatti, possiede una realtà solo virtuale: perché esso dívenga visibile occorre soddisfare un gran numero di condizioni. Quanto al passato, esso possiede una realtà effettiva: lascia vestigia che sono fra noi e quindi sono visibili o osservabili. Benché siano sempre frammentarie, lacunose e decontestualizzate, queste vestigia permettono di ricostruire il passato di cui sono originarie mediante l’applicazione di procedure che qualsiasi persona competente si suppone possa riprodurre. Ecco perché, contrariamente al futuro che tutt’al più può prestarsi a mere congetture con una forte componente di incertezza, il passato dà adito alla conoscenza, una conoscenza che passa per il tramite delle fonti: oggetti ciascuno dei quali è identificato in quanto traccia di un passato determinato.

Fra passato e futuro, il presente si estende come un intervallo di visibilità. Lo caratterizza il modo di vivere più diffuso e quello ritenuto superiore agli altri, che è appannaggio di una minoranza. È contraddistinto dallo stile proprio all’architettura, alle usanze relative al vestiario, alle manifestazioni visibili della vita politica e sociale. Inoltre, si riconosce dalla presenza di oggetti che garantiscono una certa unità al periodo in cui restano in circolazione, prima di diventare obsoleti. Ma il presente è caratterizzato ancora di più dagli avvenimenti che, vissuti da una stessa classe di età, le pongono i medesimi dilemmi e problemi, cosi da costituire una generazione i cui componenti compiono le loro scelte in un modo che li differenzia quando non li oppone addirittura – ma sempre entro un ambito comune.

Uno dei fattori determinanti del presente è il peso che, nel suo quadro, si attribuisce rispettivamente al passato e all’avvenire. Il nostro presente è futurocentrico. Sebbene non siano soggette a considerazioni elettorali, le nostre istituzioni tendono sempre più al lungo termine, e in molti settori vitali esse prendono decisioni che riguardano un futuro sempre più lontano. Dopotutto, anche quelle cui spetta il compito di mantenere i legami con il passato di fatto sono volte verso il futuro, come il museo, organizzato per assicurare la trasmissione alle generazioni future di opere venute dal passato o prodotte nel presente.

La tripartizione passato/presente/futuro sta oggi alla base dei principali problemi con cui nelle nostre società si confrontano individui e gruppi. Essa è incorporata nei meccanismi che assicurano contemporaneamente la riproduzione e l’innovazione, che fanno sì che la tensione fra le due non dia luogo ad una frattura e che permettono in tal modo il funzionamento delle istituzioni. Ciascuno è obbligato a tenerne conto nei suoi comportamenti, cosa che in genere si fa in maniera spontanea, così come noi non riflettiamo, nella vita quotidiana, sull’orientamento d’insieme delle nostre attività verso il futuro. Interiorizzata nel corso della preparazione all’età adulta, questa tripartizione passa per evidenza incontestabile, come anche l’orientamento verso l’avvenire. Chi non li interiorizza è, nella nostra società, condannato alla sconfitta, e d’altro canto essi vengono assimilati tanto più profondamente quanto più ricco è l’ambiente in cui vivono gli individui, in particolare quello culturale e tecnico, e quanto più elevato è il loro livello d’istruzione. Ora, ciò indica che entrambi i dati da assimilare, pur avendo probabilmente un fondamento naturale, sono contrariamente alle apparenze acquisizioni di una storia di cui la maggioranza degli abitanti dei paesi sviluppati è ormai padrona; e tuttavia esse rimangono fuori dalla portata di una frazione considerevole della popolazione del pianeta.

In questa storia, l’ultima grande svolta è quella che a partire dalla fine del XVIII secolo, nell’Europa occidentale, ha visto il ribaltamento del tempo: dopo aver cessato di essere il ricettacolo di modelli e di norme per la tecnica civile e militare, per le lettere e le scienze come per l’economia, il passato cessa di esserlo in quest’epoca anche per la politica e le belle arti.

Non vi sono più modelli e norme da imitare, che si seguano automaticamente perché questo sembra andare da sé. Vi sono giuste esigenze o legittimi bisogni da soddisfare, vale a dire fini da raggiungere, programmi da realizzare. Anche coloro che preconizzano un ritorno al passato sono costretti a situarlo nel futuro che di quello – sperano i loro nemici – farà tabula rasa. Il passato perde dunque la sua preminenza, per tanto tempo rimasta indiscussa. Non santifica più tutto ciò che ne deriva; al contrario, esserne originario diventa una tara redibitoria. Oggi, è l’appartenenza all’avvenire a conferire un privilegio. Svanisce il mondo di sostanze create una volta per tutte; l’essere cede il posto ai valori. Il centro di gravità del tempo si sposta così dal passato verso il futuro. Da passatista che era, il tempo diventa futurocentrico. Questo va di pari passo con una dilatazione del tempo.

Il mondo, che secondo quanto si credeva all’inizio avrebbe dovuto durare in tutto soltanto seimila anni dal momento della sua creazione a quello della sua fine, vede allungarsi – a partire dal XVII secolo – la durata che gli si attribuisce. In principio si tratta di ovviare alle difficoltà incontrate dalla cronologia biblica quando si trova a confronto con gli annali dei Cinesi o con le narrazioni degli Egizi. Poi si tratta di inserire nel tempo il passato della Terra, riesumato dalla geologia, quello degli esseri viventi, portato alla luce dalla paleontologia, e quello dell’uomo, svelato dagli archeologi e dagli studiosi della preistoria. Infine, occorre tener conto delle scoperte della fisica dei corpi radioattivi. La durata attribuita al tempo passa così, nel giro di tre secoli, da seimila a qualche miliardo di anni. Ora, una simile dilatazione comporta uno sblocco del futuro, poiché essa rinvia sine die la fine del mondo.

Questo sblocco era già operato dall’identificazione del genere umano con un individuo dotato di esistenza infinita. Ma è solo grazie ai progressi delle scienze che questo postulato ha potuto ricevere un contenuto cronologico definito. Sullo sfondo di questi cambiamenti vi è una secolarizzazione del tempo. Il principale interrogativo posto in proposito riguardava, fin dall’inizio dell’era cristiana, i suoi rapporti con l’eternità: si trattava di un caso particolare del problema dei rapporti fra il creatore e la sua creazione. In questa prospettiva, la distinzione fra passato, presente e futuro terrestri era secondaria e insignificante, dal momento che la si paragona- va alla duplice cesura che separa, all’inizio e alla fine, ogni esistenza temporale da un’esistenza situata fuori del tempo, dal momento che si poneva la contrapposizione fra durevole e transitorio, stabilità e flusso, immutabilità e variazione. In questa prospettiva, il vero passato dell’anima era lo stato che precedeva il suo ingresso in un corpo, e il suo vero futuro era il suo passaggio nell’aldilà. Lo stesso valeva per l’umanità presa come un tutto unico e assimilata ad un individuo, mortale come tutti gli individui, e per l’universo creato nel suo insieme. La tripartizione del tempo era subordinata alla dicotomia che lo contrapponeva all’eternità.

A partire dal XVIII secolo questa dicotomia perde la sua funzione di cornice al cui interno si vive e si pensa il tempo, e la perde a beneficio della tripartizione passato/presente/futuro. Ma la sua importanza comincia a sfumare ben prima. Fino al XII secolo abbiamo da una parte l’immutabilità della Chiesa riflesso dell’eternità divina e dall’altra, nella sfera profana, i cicli ripetitivi delle opere e dei giorni, e le variazioni caotiche dei poteri che nascono per scomparire senza lasciar traccia. L’ordine e il senso, la sfera profana li riceve dalla Chiesa: l’anno e la giornata sono strutturati dalla liturgia, la vita dell’individuo è compresa fra il battesimo e l’estrema unzione, la storia è scandita dai miracoli. L’avvenire profano non possiede alcun carattere proprio: non farà che ripetere il presente o imitare il passato senza riuscirvi. Questo perché, in un mondo che approssimandosi alla fine invecchia e si esaurisce, il passato è superiore al presente. Le categorie dell’eternità e del tempo, nell’accezione dell’epoca, traducono, accentuandolo, il contrasto tra la sfera sacra e la sfera profana e giustificano la superiorità della prima sulla seconda.

Ma a partire dal XII secolo fra il tempo e l’eternità si inserisce un terzo campo che, pur senza essere soggetto ai cicli o alle variazioni caotiche, non partecipa dell’immutabilità. È il campo della scrittura, in cui le opere durano e si aggiungono le une alle altre, e in cui di conseguenza si produce una crescita del sapere: anche i discendenti possono vedere di più e meglio dei loro predecessori, anche se, a confronto di quei giganti, sono dei nani. È il campo dello Stato che rivendica per sé la durata e i cui servitori sono obbligati a pensare a lungo termine, per esempio per quanto riguarda i rifornimenti di legno, materia di prima necessità. E, in seguito, è il campo delle innovazioni che, come la bussola, la polvere da sparo, la stampa, la scoperta del Nuovo Mondo, il telescopio, il microscopio, non soltanto attestano la superiorità dei Moderni sugli Antichi e mostrano che il mondo non si esaurisce affatto, ma introducono anche dei cambiamenti irreversibili e fondano la convinzione che ormai i progressi della conoscenza e dell’inventiva non si fermeranno più.

È il campo della moneta, del credito e delle banche, che si allarga e conferisce all’avvenire un peso crescente, così come lo sviluppo del commercio, in primo luogo del grande commercio marittimo. Parallelamente, la diffusione dell’orologio dissocia l’organizzazione della giornata dalla liturgia e la suddivide in ore di uguale durata. Dal canto loro, la Riforma e, successivamente nei paesi cattolici gli Stati, dissociano dalla liturgia anche l’anno, riducendo il numero delle feste religiose. Così compare, si afferma ed estende la propria influenza un tempo che differisce radicalmente dalle ripetizioni cicliche e dalle variazioni disorientate.

Nelle lettere e nelle arti, ma anche nella tecnica, nelle scienze e nella politica, esso permette alle opere umane di durare. È lineare. È irreversibile. È misurabile. Ha un verso, definito dalla crescita del sapere, della ricchezza, della potenza e forse persino della virtù del genere umano.

Tutto induce a ritenere che questo tempo progressivo sia aperto indefinitamente sul futuro. Perché il mondo non invecchia; la natura resta sempre identica a se stessa. Dunque gli uomini possono non soltanto imparare da quanti li hanno preceduti, ma anche dare, generazione dopo generazione, un contributo all’opera comune e in tal modo farla crescere; gli ultimi arrivati cominciano quindi da dove hanno finito i loro predecessori e di conseguenza si trovano nei loro confronti in una posizione di superiorità. Non si vede alcun motivo per cui tutto questo dovrebbe fermarsi. Tutto si svolge quindi come se le generazioni che si sono succedute e continueranno a succedersi formassero, prese assieme, un solo individuo immortale e dotato di un’infinita capacità di perfezionamento.

Traducendo le nuove coordinate che si instaurano via via che si istituzionalizzano le nuove pratiche culturali, politiche, cognitive o economiche, la nozione di tempo si vede investita di un nuovo contenuto di cui fanno parte, segnatamente, alcuni attributi precedentemente riservati all’eternità: linearità, irreversibilità, infinità.

Fra il tempo e l’eternità, la frontiera sfuma, ma senza scomparire del tutto. Resta il fatto che immortale in un mondo che non avrà mai fine – l’umanità non ha da pensare ad un passaggio all’aldilà, anche se una tale prospettiva rimane valida per gli individui. Il problema dell’umanità, delle nazioni o di altri gruppi che la compongono è il passaggio al futuro, che diventa così il centro di gravità del tempo. Ecco che non si tratta più di speculare sui rapporti fra il tempo e l’eternità.

Gli interrogativi che ormai si pongono a proposito del tempo investono in mo- do centrale le differenze tra futuro e presente, così come – e le due cose sono legate fra loro – il modo in cui il primo emergerà dal secondo; in particolare la reversibilità di questa emergenza e il suo carattere continuo, o al contrario catastrofico.

Questi interrogativi travagliano la politica e l’ideologia; le risposte che vi si danno separano i rivoluzionari e i reazionari dai riformisti e dai conservatori. Parimenti, essi percorrono le arti e le lettere, e qui le risposte separano i partigiani delle avanguardie dai continuatori della tradizione. E tutte queste controversie riconoscono un grande significato alle domande concernenti le differenze fra passato e presente e il modo catastrofico o continuo in cui il secondo è emerso dal primo.

Il secolo XIX è anche il secolo della storia, e questo perché è rivolto verso l’avvenire. Emersi dalla secolarizzazione, dalla dilatazione e dal ribaltamento del tempo, la nostra organizzazione sociale e il nostro pensiero restano fondamentalmente futurocentrici. Ma abbiamo appena vissuto una crisi dell’avvenire, e il nostro atteggiamento collettivo riguardo a quest’ultimo ne è emerso profondamente modificato. I movimenti rivoluzionari, da tempo in crisi per mancanza d’ispirazione, sono falliti in tutti i paesi sviluppati, dove ormai l’idea di una rottura tra futuro e presente entusiasma soltanto i gruppuscoli. Ciò che interessa alla maggioranza, al contrario, è il mantenimento – fra futuro, presente e passato di una continuità indebolita da decenni di una modernizzazione il cui ritmo e la cui profondità sono stati tali da produrre effetti davvero rivoluzionari proprio là dove il potere è rimasto in mano ai riformatori e ai conservatori. Basti ricordare la drastica riduzione del numero degli addetti all’agricoltura e all’industria pesante, l’espansione del terziario, l’innalzamento del tenore di vita, l’ingresso della televisione nella quasi totalità delle case, lo sconvolgimento del modello della famiglia e dei comportamenti sessuali. Oggi, dopo questi anni febbrili, ci si volge piuttosto verso il passato. Ciò si esprime nella voga dei musei e dei monumenti storici che non hanno mai avuto tanti visitatori così come in un certo revival della religione. E anche in un’attenuazione, probabilmente temporanea, dei conflitti politici, ideologici e sociali prima che questi trovino le forme adatte alla nuova situazione ea nuove aspettative. Ma tutto questo vale soltanto per i paesi sviluppati con regimi democratici. Nell’Europa centrale e orientale si assiste ai tentativi di ripristinare i legami istituzionali con il passato, recisi dal lungo periodo di dominazione comunista. E sono numerosi i paesi dell’Asia, dell’Africa, dell’America Latina in cui la visione di un futuro in rottura rivoluzionaria col presente conserva un forte potere di mobilitazione. La fine della storia non è per domani.

KRZYSZTOF POMIAN

Storico e filosofo. Directeur de Recherche al Centre National de la Recherche Scientifique di Parigi

TRADUZIONE DI MARINA ASTROLOGO

Immagini di Jean-Marc Coté cartoline illustrate 1899