Da Telecom ad Adrialogica passando per Unicredit, Bolloré colpisce ancora – L’ennesima lezione di “guerra economica”

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Cari lettori, con il presente post è nostra intenzione tentare di formalizzare e rendere esplicite le modalità e le ragioni in base alle quali da anni e anni ci battiamo affinché il settore delle imprese sia pienamente riconosciuto come un tema della sicurezza nazionale, sembra banale dirlo, e come tale debba essere aiutato a crescere e protetto da ingerenze esterne, non tanto dal semplice e banale spionaggio industriale di antica memoria, quanto da strategie di conquista assai complesse e articolate. Tale compito spetta innanzitutto alle istituzioni e, secondo modalità sussidiarie ad aziende private.

Con l’occasione, portiamo alla vostra attenzione un testo tratto dal saggio (“Guerra economica e intelligence”, Fuoco Edizioni) di Giuseppe Gagliano, studioso di intelligence e in particolare della scuola francese che a partire dagli anni Novanta ha elaborato un concetto di “intelligence economica” e di “guerra economica” che troviamo sufficiente, in questo ambito, come introduzione al problema.

Alla fine della lunga citazione, riportiamo una notizia del 12 agosto 2018, esempio e sintesi da manuale di come Vincent Bolloré [Telecom, Mediobanca, Shalabayeva / Ablyazov e Mediaset] applichi gli insegnamenti francesi in materia per conquistare il mercato italiano, viceversa, di come le istituzioni italiane sembrino del tutto assenti.

Non sarà difficile trovare nell’articolo parole e approcci che avete appena letto in merito alle modalità con le quali si aggredisce e si annienta un avversario economico. Aggiungo un dettaglio del passato riguardante la vicenda Telecom / Tiger Team; all’epoca dei fatti, 2006, al fianco di Giuliano Tavaroli, operava un agente del DGSE in servizio, Fulvio Guatteri. Oggi Telecom parla francese (così come Unicredit) con l’accento bretone di Vincent Bolloré.

Chi, quando, come, dove e perché abbia lasciato che infrastrutture strategiche e gruppi finanziari finissero in mani straniere (o di avidi magliari) e palesemente ostili alle nostre imprese grandi medie o piccole che siano sarà compito delle donne e degli uomini “nuovi” che animano il Parlamento contrastare con leggi apposite; noi piccoli studiosi della materia continueremo a fare quanto ci compete.

Alberto Massari

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“… la fine della Guerra Fredda ha avuto l’immediata conseguenza di rafforzare il ruolo dell’economia e della finanza, principale ambito di confronto fra le grandi potenze. In questo contesto agitato, gli Stati e le imprese si muovono, in tutti i settori d’attività, in una vera e propria guerra economica per l’accesso alle risorse naturali mondiali, ai mercati e alle tecnologie, ben oltre i limiti e i principi della guerra tradizionale. Molti Paesi sviluppati hanno riorientato una buona parte dell’attività dei loro servizi di intelligence verso il sostegno operativo dei loro attori economici. Di conseguenza, le pratiche commerciali delle imprese esportatrici sono regolarmente precedute da operazioni di intelligence offensiva d’ogni genere e da campagne di influenza e di destabilizzazione tramite l’informazione, ricalcando al tempo stesso i metodi d’azione sulle classiche tecniche di ingerenza e intelligence di Stato. Anche se ciò ha l’immediata conseguenza di falsare il dogma, stabilito dagli economisti, del “libero gioco della concorrenza e degli scambi”, nell’Europa continentale manca una lettura dei rapporti di forza internazionali e delle dinamiche di potenza in atto. […]

Lo scenario economico mondiale è preda di movimenti di proporzione globale, per cui gli ambiti della piccola e media impresa saranno il fulcro delle prossime battaglie della globalizzazione, che sono ampiamente uscite dal terreno dello scontro tradizionale. Una decisione strategica si basa fondamentalmente sulla perfetta conoscenza del mercato, dei movimenti dei concorrenti e della natura delle interazioni di ciascuno con il suo ambiente. Di conseguenza, per massimizzare le possibilità di riuscita occorre dotarsi dei mezzi per acquisire un’informazione qualificata determinante. Per un’impresa, è quindi fondamentale saper proteggere il proprio capitale informativo e umano. Lentamente, ma inesorabilmente, gli attacchi illeciti nei confronti della piccola e media impresa si moltiplicano di anno in anno.  […]

Lo spionaggio economico, pubblico o privato, ha registrato un formidabile sviluppo, parallelamente a quello delle tecnologie di sorveglianza per contrastarlo. Con la caduta del Muro di Berlino numerosi agenti d’intelligence nel mondo si sono ritrovati disoccupati da un giorno all’altro, ma non hanno tardato a riconvertirsi nel settore privato, fornendo i propri servizi al miglior offerente e portando con sé tutto il ventaglio di “pratiche nere” dello spionaggio classico. [Anche numerosi agenti in “pensione” si sono inseriti nel mercato. ndr]

… la responsabilità della proliferazione di società private incombe in parte sui dirigenti stessi, che le sollecitano in tal senso e segmentano di fatto due mercati di fornitori di servizi paralleli alquanto distinti: il mercato delle società che forniscono informazioni all’impresa ai limiti dell’illegalità; e il mercato delle fonti aperte non strutturate, ovvero dell’intelligence economica, che si esercita in un quadro perfettamente legale. “Fare intelligence” non significa infatti “fare spionaggio”, ma piuttosto “apportare un elemento di conoscenza o di comprensione a qualcuno”. Al contrario lo spionaggio è una pratica clandestina che punta all’accesso illecito a fonti chiuse, tra molti altri mezzi leciti (analisi delle fonti aperte non strutturate), per ottenere dati qualificati ad alto valore aggiunto, poiché tenuti segreti. […]

Con questo inquadramento, le pratiche di intelligence diventano legali, distinte e trasparenti e meritano di essere incoraggiate a beneficio del successo commerciale delle piccole e medie imprese, sia sul territorio nazionale sia all’estero. Mentre l’intelligence economica registra uno sviluppo formidabile in tutto il mondo, rimane aperta una serie di questioni legittime sulla serietà delle professioni dell’intelligence economica e sulle vere qualifiche di certi professionisti nonché sui confini delle missioni per cui sono autorizzati. […]

Il “nemico” di oggi … ha radicalmente cambiato stile, volto e natura. Nella società dell’informazione globalizzata, è tramite i diversi mezzi di comunicazione che si possono condizionare l’opinione pubblica, gli investitori e i clienti. I saperi, le innovazioni, i rischi, le minacce e la comunicazione sono determinanti per il successo e la competitività generale delle imprese. Ogni imprenditore deve continuare a essere audace e reattivo in tale contesto per conquistare nuovi spazi.

[…] Nel contesto odierno la difesa delle imprese nazionali costituisce un bene comune. Se l’individuazione del nemico pone un reale problema alla nostra etica collettiva, rifiutare di individuarlo in modo ragionato farebbe emergere una debolezza inaccettabile. Scoprire precocemente le nuove forme di ingerenza discreta dell’avversario è un imperativo che si impone e che costringe a ripensare la presenza e le intenzioni dell’avversario. […]

Quest’approccio più offensivo implica l’individuazione dell’avversario come criterio fondamentale di una politica di sicurezza e di prevenzione. Nella misura in cui il nostro ambiente umano globale tende ad accrescere sempre più il suo potenziale conflittuale, diventa fondamentale anticipare le intenzioni e le capacità dei nostri avversari. La minaccia è intima, invisibile, proteiforme e mutevole e non può essere sottovalutata; essa si cela dietro le azioni di guerriglia sistemica, d’attacco informativo e d’ingerenza selvaggia condotta da certi gruppi di pressione offensivi o manipolati. Oggi più che mai l’informazione qualificata è vitale per le imprese. Per massimizzare le possibilità di successo le imprese devono, infatti, dotarsi dei mezzi per neutralizzare l’avversità e acquisire un’informazione strategica determinante per avere la meglio. Gli obiettivi perseguiti sono quelli perfettamente noti della ricerca della crescita del valore e del profitto, tramite le intercettazioni di informazioni strategiche qualificate alla fonte. Alcune informazioni tratte da fonti aperte sono accessibili a tutti, attraverso l’interrogazione di database specializzati, mezzi di comunicazione o reti. Si tratta della cosiddetta informazione “bianca” che si ottiene facilmente su Internet, nelle documentazioni, nelle fiere, negli articoli di giornale, in piena legalità. Il 70% dell’informazione disponibile oggi è “bianca”. Altri tipi di dati dall’alto valore aggiunto sono invece di più difficile accesso. Si tratta di informazioni “grigie”, perché sono sottoposte a restrizioni d’accesso. Il 25% dell’informazione che circola è grigio e si acquisisce fondamentalmente mediante veglia tecnologica, azioni di intelligence economica, studio comparativo (benchmarking) o sotto falsa identità. Il restante 5% dell’informazione è “nero”: si ottiene in modo spesso illegale tramite il pedinamento, l’intercettazione telefonica, l’intrusione illecita nei computer e nei locali, la manipolazione delle persone, la corruzione eccetera. La tentazione di acquisire queste due ultime categorie di informazioni ad alto valore aggiunto conduce talvolta alcuni attori economici a ricorrere a pratiche d’ingerenza illecite, spesso vicine a tecniche di spionaggio o ad azioni offensive militari sotto copertura. È dunque fondamentale per un’impresa proteggere il proprio capitale informativo e il proprio sapere, tanto più che su un mercato concorrenziale mondiale le norme di comportamento e le buone pratiche cambiano da un Paese all’altro. Pertanto, questa protezione dev’essere effettuata a tutti i livelli. Ma per proteggersi efficacemente dalle ingerenze sleali occorre anche conoscere le nuove risposte contro le operazioni indirette di destabilizzazione. Svolgendosi fuori dai campi dell’azione imprenditoriale classica, queste tattiche sottili si trovano spesso fuori dalla portata delle protezioni giuridiche convenzionali. […] non si cerca di uccidere l’avversario ma di farlo ritirare e rinunciare, in analogia, nel registro militare, con le pratiche di “guerra indiretta” e con le azioni di logoramento “insurrezionale”. Guerra psicologica, disinformazione, ricatto, propaganda, ingerenza, destabilizzazione, attacco alla reputazione, infiltrazione tramite le tecnologie della conoscenza fanno ormai parte dell’arsenale dei belligeranti, per conquistare o sedurre le popolazioni di collaboratori, nel bel mezzo delle quali si svolgono i nuovi combattimenti economici. Il campo di battaglia non ha più limiti convenzionali. Il furto di informazioni strategiche non riguarda soltanto i grandi gruppi industriali e le imprese legate a settori strategici: tutte le imprese possono essere il bersaglio potenziale di pratiche offensive. L’avversario imboscato può essere esterno o nascondersi persino all’interno dell’organizzazione e compiere azioni dai costi irrisori rispetto agli effetti attesi. Mentre i grandi attori economici francesi quotati in borsa e le imprese con più di 500 persone sono ormai preparati all’intelligence economica [Potremmo dire lo stesso delle aziende italiane? ndr.], il problema resta per l’universo delle piccole e medie imprese, che si rivelano le più penalizzate. Le PMI non hanno infatti la capacità logistica, finanziaria e umana per battersi e difendersi da sole, non potendo sostenere i costi di azioni di protezione e di risposte specifiche. Di conseguenza, molte di queste imprese vengono saccheggiate per mancanza di accesso all’azione concertata, all’appoggio operativo e ai sostegni trasversali. Sebbene in Francia l’appoggio operativo alle imprese di piccole dimensioni per condurre delle azioni difensive e offensive sia stato per troppo tempo trascurato dagli attori socioeconomici e dai servizi dello Stato, la situazione è destinata a evolvere rapidamente, perché si tratta di un mercato potenziale enorme per gli operatori del settore dell’intelligence economica e di una posta in gioco strategica per la Francia [Idem per l’Italia. ndr.]. […] In particolare, saranno sorvegliate le imprese di punta sul piano tecnologico o nei settori dell’armamento, dell’energia, della finanza, dell’industria, dell’informatica, della farmaceutica, delle telecomunicazioni, della moda o dell’industria del lusso. Dopotutto, la scelta politica, strategica, di proteggere le imprese nazionali e dar loro i mezzi per difendersi e svilupparsi significa riconoscere che gli Stati sovrani moderni hanno bisogno di una strategia globale di sicurezza nazionale. […]

L’intelligence economica è anzitutto un atteggiamento che ogni dirigente d’azienda dovrebbe poter mobilitare, formalizzare e adottare nel quadro di una politica aziendale chiara e trasparente. La vera sfida oggi consiste nel suddividere a scacchiere il terreno, lavorando sulla prossimità in modo pragmatico. Il responsabile aziendale non ha molto tempo a sua disposizione: deve poter comprare intelligence a un costo di mercato – e non a quello delle sole sovvenzioni pubbliche – avendo la possibilità di remunerare il risultato con una partecipazione agli utili in caso di riuscita. È così che funzionano i Paesi vicini alla Francia (Svezia, Canada, Finlandia). Il vero lavoro di intelligence è quello fatto dalle squadre di supporto su temi strategici dove si giocano le battaglie tattiche e operative. […]

L’identificazione e lo sfruttamento delle vulnerabilità di un’organizzazione da parte di aggressori esterni è un rischio molto sottovalutato dai dirigenti delle PMI, tanto più in un contesto di crisi mondiale, in cui non si può contare sulla lealtà e l’impegno del personale nei confronti del datore di lavoro. Sono poche le azioni concrete sviluppate in rapporto alle “falle umane”, anche se esistono numerosi casi che dimostrano la fragilità del “fattore umano”, capace di arrecare perdite considerevoli per le imprese. I punti di miglioramento operativo in merito devono tener conto del possibile sfruttamento di “falle umane” da parte di un “predatore”, in funzione dei suoi bisogni contingenti. La nozione di “predatore di informazioni” comprende l’insieme di individui che hanno lo scopo di acquisire, utilizzare e sfruttare in modo fraudolento elementi determinanti provenienti da fonti umane, grazie a un accesso privilegiato alle informazioni sensibili dell’impresa avversaria. Attualmente le grandi imprese francesi hanno sviluppato la propria cellula di intelligence economica, creando dei servizi di veglia, raccolta, analisi e trattamento dell’informazione internamente o in outsourcing. Operando nei campi sensibili dell’high-tech, della difesa o dell’aereonautica, esse hanno da tempo integrato il principio della veglia per la sicurezza attiva e della condivisione dell’informazione e sono state le prime ad adattarsi alle evoluzioni economiche legate alla globalizzazione degli scambi, ma anche alle lotte fratricide sul mercato mondiale. [Potremmo dire che avviene lo stesso in Italia? ndr.]

Le PMI, invece, non hanno tutte considerato quest’approccio come una metodologia d’azione concreta per proteggersi e vincere… considerando soprattutto che con la globalizzazione gli attori dell’intelligence economica si sono moltiplicati e che spesso i mandanti non sono enti privati, ma gli Stati stessi. Di fatto, il settore economico sta per diventare il grosso dell’attività dei servizi di intelligence statali. Oggigiorno, più del 40% dell’attività dei servizi di intelligence delle grandi potenze (Inghilterra, Giappone, Russia ecc.) è dedicato alle attività di intelligence economica. Tuttavia, non tutte le pratiche di intelligence economica sono legali. Alcune somigliano allo spionaggio puro e semplice. Spetta all’impresa che rischia di esserne un bersaglio restare vigile di fronte a queste minacce non convenzionali. Peraltro, queste pratiche di ingerenza non sono automaticamente legate a captazioni ottenute con tecniche particolarmente sofisticate. Trattandosi di pratiche illegali, il linguaggio corrente utilizza sia il termine di “spionaggio industriale” sia quello di “spionaggio economico”, in ragione della vecchia ripartizione degli attivi delle imprese. Ma mentre vent’anni fa l’ 80% degli attivi di un’impresa erano materiali e il 20% immateriali, oggi queste proporzioni si sono capovolte. Lo spionaggio è dunque divenuto al tempo stesso industriale (furto di segreti di fabbricazione) ed economico (furto di informazioni strategiche, piani commerciali, schedari dei clienti ecc.). È quindi vitale per le PMI conoscere meglio le tecniche di ingerenza intrusiva utilizzate da potenziali aggressori per determinare le protezioni adeguate e limitare in questo modo i nuovi rischi con il minor costo. Dal punto di vista dei costi dell’intelligence economica per le PMI, è difficile stimare la spesa per prestazioni in quest’ambito in base alla dimensione dell’impresa e al suo settore d’attività. Quest’investimento può essere considerato come un’assicurazione contratta per coprire un rischio nominale specifico. Le prestazioni esterne si valutano a forfait o con un  “abbonamento” calcolato sul risultato. […] Se il costo dell’intelligence economica varia in funzione delle specificità dell’impresa, anche il ritorno sugli investimenti è difficilmente apprezzabile. Paradossalmente l’informazione altamente qualificata riveste un valore infinito, anche se il suo prezzo di mercato d’acquisizione può essere nullo. Dunque è necessario adattarsi e strutturare delle prestazioni economicamente variabili. Si tratterà di essere proattivi per penetrare nuovi mercati e mostrarsi audaci sul campo delle PMI, ma è anche fondamentale non abbassare mai la guardia di fronte a una concorrenza sempre più spietata.”

Gagliano, Giuseppe. Guerra economica e intelligence, Fuoco Edizioni. Edizione del Kindle.

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Vincent Bolloré, così il gruppo del finanziere bretone ha messo in ginocchio la ravennate Adrialogica

Tra Bolloré Africa Logistics e l’azienda italiana c’è stata una lunga trattativa mai sfociata nell’acquisto. L’azienda di Ravenna ha fornito documenti riservati, i transalpini hanno via via ritoccato al ribasso la proposta iniziale senza mai presentare un’offerta vincolante e nel frattempo hanno ridotto le commesse. Risultato: la fondatrice ha dovuto vendere la casa di famiglia per pagare i debiti e la società è sull’orlo del fallimento
di Fiorina Capozzi | 13 agosto 2018

Non solo Telecom, Mediobanca e Mediaset. Negli interessi dell‘impero costruito in Italia da Vincent Bolloré c’è spazio anche per la logistica da e per l’Africa. Con i metodi duri, sia pur leciti, che mettono in ginocchio una piccola azienda di Ravenna, Adrialogica, ormai sull’orlo del fallimento. Che cosa è accaduto esattamente? Secondo il gruppo Bolloré, interpellato dalfattoquotidiano.it, assolutamente nulla dal momento che “non abbiamo mai avuto delle negoziazioni” con Adrialogica. Ma, secondo i documenti di cui siamo in possesso, c’è stata invece una lunga trattativa fra i francesi e l’azienda di Ravenna. Tutto perfettamente regolare, ma la procedura lunghissima ha finito per sfiancare la piccola azienda italiana. Innanzitutto fra le due imprese c’è stato un accordo per lo scambio di informazioni riservatecui è seguito poi un documento ufficiale francese di offerta non vincolante. E poi una serie di mail che hanno ritoccato al ribasso la proposta iniziale senza mai sfociare in un’intesa definitivamente vincolante per il gruppo Bolloré. Nel mezzo il calo delle commesse da parte del gruppo Bolloré ad Adrialogica che ha così visto svanire uno dei suo migliori clienti e l’ultima chance di rilancio.

Ma che cosa è successo esattamente? La storia risale a circa tre anni fa. Adrialogica è un’impresa con circa 3 milioni di fatturato operativa nel settore delle spedizioni in Costa d’Avorio, Camerun e Ghana, Paesi in cui è presente anche il gruppo francese con la divisione Bolloré Africa Logistics. Nata nel 2006, la società creata da Cristina Arlango è una piccola realtà rispetto al gigante francese. In compenso, nel nostro Paese, è al terzo posto dopo l’italiana Setoa e il gruppo franco-libanese Centrimex. Proprio per questo forse Adrialogica diventa un target per il gruppo francese che è fra le prime dieci realtà al mondo nella logistica da e per l’Africa, ma che in Italia stenta a decollare. Così, ad ottobre 2015, i vertici di Adrialogica vengono contattati dalla SDV LI (gruppo Bolloré) che si affida proprio all’impresa italiana per gestire i trasporti terrestri delle merci dai luoghi d’origine ai porti d’imbarco, oltre ad espletare le formalità doganali nella Penisola. Per Adrialogica, SDV LI, che poi si fonderà con Saga france per diventare Bolloré Logistics, é infatti uno dei clienti più importanti capace di generare un margine operativo lordo da circa 70mila euro annui.

Pur essendo in lieve utile, Adrialogica ha delle difficoltà per alcuni crediti bloccati in Camerun dove però il gruppo Bolloré domina e non dovrebbe aver difficoltà a sbloccare la situazione. Così la Arlango decide di accettare le avances francesi. La questione viene anche discussa a Parigi dove l’azienda di Ravenna ribadisce l’esigenza di recuperare i crediti incagliati per far fronte alle pendenze con le banche e con i fornitori. Esaminata la documentazione, il gruppo francese si dice pronto ad andare avanti: l’azienda transalpina è del resto interessata a chiudere l’operazione per mettere mano al portafoglio clienti e assicurarsi il know how dell’impresa di Ravenna che fornisce tutti i documenti riservati richiesti dai francesi sulla base di un primo accordo di riservatezza.

A marzo 2016, Bolloré Logistics mette nero su bianco una prima lettera d’intenti non vincolante da 150mila euro, più il 30% del margine lordo dei primi cinque anni di attività. “Stante la marginalità 2016, l’offerta avrebbe portato nelle nostre casse circa 730mila euro, al netto del traffico svolto per il gruppo Bolloré (382mila euro). La proposta, che includeva lo sblocco dei creditiafricani incagliati, ci è sembrata interessante”, ammette la Arlango, che è decisa a dismettere l’azienda. Ma, ad un certo punto, qualcosa non va come dovrebbe. Secondo quanto riferisce la Arlango, l’azienda di Bolloré inizia inspiegabilmente a tagliare le commesse. Di conseguenza Adrialogica va in affanno. Così i francesi, cinque mesi dopo la prima proposta non vincolante, riducono drasticamente l’ipotesi di acquisto a 380mila euro. Il motivo? Adrialogica non è più quella di una volta. “Abbiamo contestato questa seconda offerta perché riteniamo che il gruppo Bolloré ci abbia tolto lavoro approfittando delle informazioni ricevute”, prosegue la Arlango che racconta come i francesi “non hanno mai recuperato un euro dei crediti incagliati, ma hanno progressivamente tagliato le commesse fino ad azzerarle nel maggio 2016”.

La situazione diventa giorno dopo giorno più pesante finchè, a dicembre 2016, non arriva da Parigi una terza ipotesi di lavoro ulteriormente peggiorativa: 160mila euro, il 78% in meno rispetto alla cifra offerta all’inizio della trattativa. “Nonostante l’offerta al ribasso il gruppo Bolloré si sarebbe occupato di sbloccare i nostri incassi in Africa – spiega Arlango – All’epoca erano 500mila euro, ora circa 300mila. Lo sblocco dei crediti avrebbe permesso ad Adrialogica di sistemare molti debiti bancari e di poter in effetti liquidare senza traumi, al limite con un piccolo mutuo personale nell’ordine di 200mila euro e dunque facilmente sostenibile con il mio stipendio”. Ma anche questa proposta francese evapora e, con il trascorrere del tempo, a Ravenna arriva un’ultima offerta informale: acquistare solo i crediti incagliati per circa 230mila euro e liquidare l’azienda italiana. Tuttavia la cifra non è sufficiente a pagare i debiti dell’impresa di Ravenna. Inoltre “i francesi mi hanno chiesto di firmare una carta privata in cui assicuro che Adrialogica non fallirà e di accettare la compensazione dei crediti fra la sua azienda e il gruppo Bolloré. Un accordo che, in caso di fallimento, implicherebbe una mia personale responsabilità per aver pagato un creditore prima degli altri”, conclude la Arlango che intanto ha venduto la casa di famiglia nell’intento di riuscire almeno a pagare i debiti legati a banche e personale. “Quello che abbiamo subito, ha tolto all’azienda ogni possibilità di potersi assestare, privandoci di tutti gli asset. Pertanto oggi, anche riprendendo da zero, sarebbe impossibile riuscire a ricostruire quello che era stato fatto negli undici anni di vita dell’impresa”, conclude amaramente.