Più che di Paolo Mieli sarebbe interessante arrivare a ragionare di Renato, suo padre

renato mieli

Da anni e ciclicamente nel WEB  qualcuno chiede se Paolo Mieli sia o meno un massone. Se parliamo della stessa persona, non credo che risulti in nessun elenco comunicato alle Autorità della Repubblica a cui le Logge devono fornire gli elenchi (che non sono quindi segreti) di chi sia o meno affiliato alla massoneria. Paolo Mieli è ciò che è e come la pensi è facile farsene un’idea se lo si ascolta le mille e mille volte che si esprime in pubblico. Ho conosciuto Paolo Mieli, più di mezzo secolo addietro, in quanto non solo sposò un mia compagna di liceo (la bella, raffinata, colta Francesca Socrate) ma era anche compagno di studi classici (al Liceo Tasso) di quella che, a sua volta, divenne la mia prima moglie.  In questo post  lascio detto qualcosa del padre di Paolo Mieli così spero di attenuare un po’ le curiosità insistenti dei navigatori che vogliono sapere di massonerie e appartenenze varie del figlio. Nel WEB Paolo Mieli viene spesso attaccato perché appare, nella sua crociata contro il complottismo, super attivo. Su questo piano, non posso non essere d’accordo con chi lo critica. Direi – anzi – che per uno che ha tentato di divenire uno storico al seguito di Renzo De Felice l’eccessivo negazionismo a cui si dedica è veramente imbarazzante. Per lui ovviamente. I complotti, proprio come ho avuto modo di scrivere in un post a Mieli (figlio) dedicato, non solo sono sempre esistiti ma sembrano proprio, ad opera di ambienti massonici antidemocratici, ancora in pieno sviluppo. Torno a dire che non si può avere certezza se Mieli sia o meno un massone. Fatti suoi e di chi lo ha eventualmente affiliato. Certamente, e questa è storia, è figlio di un grande personaggio che ha saputo anticipare i criteri in base ai quali oggi, anche il sottoscritto nella sua semplicità e marginalità, ragiona di Intelligence Culturale. Il Capitano Meryll (ovvero Renato Mieli) è stato un precursore di come l’Intelligence oggi (ovviamente altre tecnologie a disposizione) tiene sotto stretta sorveglianza il settore della produzione di notizie, vere,false o autentiche che siano. Renato Mieli, nato ad Alessandria d’Egitto, poi emigrato con la sua famiglia a Roma, presa la laurea nella qualificata Padova nel 1935 e poi, alla ratifica delle leggi razziali del 1938, fuoriuscito a Parigi, è stato prima frequentatore di quegli inquinatissimi ambienti della resistenza italiana ricoverata in Francia e poi agente del “non esistente Secret Service inglese”. Tengo a precisare che Renato Mieli non nasce come letterato/giornalista ma come “fisico nucleare” (si laurea, come ho detto, nel ’35) e siamo negli anni determinanti per l’evoluzione di questa scienza e per l’esito della Seconda guerra mondiale.  Successivamente, conoscendo bene l’arabo, l’inglese, il francese oltre che, ovviamente, l’italiano e in più, essendo di famiglia ebrea in diaspora, fu arruolato presso i comandi angloamericani già quando si combatteva nel Nord Africa, in funzione dell’avvicinarsi dell’invasione della Sicilia dell’estate del 1943. Poi, sempre sotto la copertura di capitano Meryll, operò a Napoli dove svolse ulteriormente il suo compito riservato ma al tempo fondando, il 4 ottobre 1943, il quotidiano “Risorgimento“.

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Durante la guerra aveva dato vita, sempre in accordo con gli “alleati”, ad una iniziativa in campo editoriale nella Tripoli occupata dagli inglesi. Un vero giramondo operativo. Dopo Salerno e Napoli rimane in Italia al seguito dell’esercito inglese e risulta, da tutte le sue biografie e fonti aperte mai smentite,  essere stato nominato ufficiale dei servizi d’intelligence inglesi.  Lavora nel Psychological Warfare Branch, l’organismo che concede i permessi di pubblicazione delle notizie (la censura militare) ed assegna la carta per la stampa dei primi giornali. Nel 1945, grazie ai buoni uffici del comando alleato in Italia,  per meriti acquisiti e doti professionali , viene scelto come primo direttore dell’ANSA.

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Una parentesi significativa nella carriera di Mieli è la sua collocazione nel Partito Comunista Italiano, durata ben nove anni. Nel 1947 assume, su invito di Palmiro Togliatti, la direzione milanese de «l’Unità». E qui conosce Giangiacomo Feltrinelli, di cui diventa amico. A sua volta è utile ricordare che Feltrinelli, dopo essere stato un giovane entusiasta del fascismo, viene arruolato nella resistenza da Antonello Trombadori  e lo troviamo partigiano nel Gruppo di Combattimento Legnano, organico alla V Armata USA. Cosa voglia dire la frase (divennero amici con Mieli) che compare nelle biografie è la cosa su cui mi sono fermato a riflettere tenendo conto sia della vita di Feltrinelli che di quella di Mieli. Padre e figlio. Renato Mieli nel 1949 viene nominato responsabile del Pci per i rapporti con l’estero, un incarico che permette a Mieli di entrare in contatto con i leader dell’Est europeo. Abbandona il PCI, con altri intellettuali, dopo la rivolta ungherese del 1956.

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Uscito dal PCI, Mieli aderisce alle idee degli economisti liberisti Friedrich von Hayek e Ludwig von Mises, fortemente avversi a qualsiasi forma di socialismo. A Milano crea, con il finanziamento garantito dalla Confindustria, il «Centro ricerche economiche e sociologiche dei paesi dell’Est» (Ceses), organizzando seminari e convegni assieme ai sovietologi occidentali, e fonda la rivista «l’Est», dedicata al blocco sovietico. Il Ceses era la filiale italiana di Interdoc, un istituto con sede all’Aja creato nel 1963 dai servizi d’intelligence della NATO per coordinare l’offensiva anti-comunista in diversi campi (dalla propaganda alle operazioni coperte), attingendo da fonti esclusive e materiale inedito di ex quadri e dirigenti dei partiti comunisti europei. Renato Mieli non ha mai cessato di essere un “agente segreto” e continuo a scusarmi per l’uso semplicistico di questa espressione.

Come si vede, intendendo come giornalista, certamente Paolo è da considerare, in tutti i sensi, un figlio d’arte. Senza il padre che non si limitò come si è visto ad essere il direttore dell’ANSA, Paolo sarebbe rimasto uno dei tanti.

La verità storica (e questo è il primo paradosso nella vicenda di cui marginalmente ci interessiamo essendo Paolo formalmente uno storico) è che non solo Renato Mieli era da sempre un uomo di intelligence (culturale) ma fu in particolare un benemerito della lotta contro un mostro quale Giuseppe Stalin e tutte le diverse forme che il comunismo post bellico assunse. Negli anni, Mieli padre, in quanto esperto di doppi/tripli giochi e di “complotti” arrivò ad essere, contemporaneamente, di assoluta fiducia di Giangiacomo Feltrinelli (quello che di fatto sostenne, non solo economicamente, Potere Operaio dove negli anni avrebbe militato suo figlio Paolo che è quello che oggi nega l’esistenza dei doppi livelli e dei complotti !!!!!!!) e di ambienti che poi decisero, con un colpo di teatro, di invitarlo come relatore, al Convegno sulla Guerra rivoluzionaria, all’Hotel Parco dei Principi, dove Mieli padre (vediamo di non mischiare il sacro con il profano), il 4 maggio 1965, relazionò i presenti su  “L’insidia psicologica della guerra rivoluzionaria in Italia”.

Due giorni dopo avrei compiuto diciotto anni e mi ricordo bene, da giovanissimo (forse, azzardo, il più giovane in assoluto di quegli ambienti), l’emozione di quei momenti e dei ragionamenti che in sedi, anche istituzionali, girarono intorno a quel convegno/spartiacque. Tenete conto che si diventava maggiorenni a 21 anni. Come al solito tendo a scrivere solo cose che posso confermare con un “io c’ero”.  Ed io di quel convegno senti parlare, come si dice, “a caldo” da alcuni che avevano fatto i relatori in quella occasione o da altri che erano stati presenti tra il pubblico. In parole ancora più povere e trasparenti io, fatto anomalo ma vero, ho conosciuto Renato Mieli (e chi fosse in realtà) prima di conoscere suo figlio, mio coetaneo.

Una vita avventurosa, affascinante e rigorosa quella dell’agente Meryll/Mieli, quasi unica. Comunque poco ci manca. Viceversa, di un figlio che nega, in sostanza, negando i complotti, la vita stessa di suo padre, più che chiedersi se sia o meno un affiliato alla massoneria, ci si dovrebbe domandare che razza di persona è.

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Tornado a cose più serie, tenete d’occhio le date in un quadro sinottico ipotetico ma necessario a capire cosa siano i doppi giochi e le operazioni coperte o sotto falsa bandiera e, soprattutto, a chiedersi, più che se Paolo Mieli sia o meno un massone (ma chi se ne frega!!!), come si debba leggere il rapporto fiduciario strettissimo fra suo padre e Feltrinelli alla luce della militanza di “entrambi” (di Giangiacomo e di suo figlio Paolo) in Potere Operaio. Parlo di quella organizzazione eversiva che fu in realtà, tra l’altro, il vero crogiolo della Colonna Romana delle BR (quella di Faranda-Morucci-Pace “trio” proveniente da P.O. e da anni in stretti rapporti con Mieli figlio), banda armata che, una vota organizzatasi, rese possibile (al di là degli scazzi al suo interno o meno) il rapimento e la condanna a morte di Aldo Moro, tragedia politica le cui conseguenze,  ancora perdurano avendo provocato, da quel 16 marzo del 1978 in poi, l’assenza di una qualunque politica estera mediterranea da parte della nostra Italia in quella occasione rimasta orfana. Altro che Giovanni Fasanella inattendibile, caro Mieli: il “complotto inglese” è un’ipotesi plausibile e se fosse in vita tuo padre a lui, esperto di cose britanniche e “rivoluzionarie”, si sarebbero potute rivolgere le domande opportune.  Di queste complessità, irrisolte, vorremmo sentire parlare, con competenza e trasparenza, lo storico negazionista che appari essere. Intendendo, ovviamente, negazionista di complotti, di doppi livelli, di servizi segreti che interferiscono perché che sia avvenuto l’Olocausto spero tu non abbia dubbio alcuno avendo avuto, come famiglia Mieli, tanto per fare un esempio, alcuni fucilati alle Fosse Ardeatine. Altri Mieli deportati e mai tornati. Ad ascoltarti in tv, sembra, che per te i servizi segreti che  agiscono a sostengono di carriere, infiltrazioni, osmosi informative non esitano. O, comunque che non partecipino, con ruoli determinanti, ai complotti di cui sopra. La vita di tuo padre, a me che lo ricordo, sembra tutta una plateale smentita di questa tua posizione “candida”.

Oreste Grani/Leo Rugens

A seguire leggete un esempio di materiali prodotti da Renato Mieli per dare il suo contributo teorico alla Guerra Rivoluzionaria e tenete conto che questi ragionamenti venivano fatti poche stagioni prima dello scoppio del Maggio italiano e francese.

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«Ero piuttosto riluttante a prendere la parola, dopo avere ascoltato interventi per me particolarmente dotti ed avrei voluto astenermi; tuttavia dopo aver inteso la relazione di XXXXXXX, mi sono convinto che anche un mio contributo poteva essere utile in questa sede, benché, ripeto, io mi senta impreparato sia su questo specifico tema, sia sugli aspetti tipicamente militari di esso. La mia attività è di studio, ma non su questi argomenti.
Tuttavia dirò che vi è un assunto sul quale concordo, ossia sulla esistenza nel mondo moderno di un tentativo permanente di sopraffazione, contro il quale non si trova sempre un’adeguata risposta. Ciò malgrado ho qualche dubbio sulla bontà della definizione di «guerra rivoluzionaria» e sull’effetto che tale definizione può produrre in molte persone. Ma, come dicevo, resto fermo nel riconoscere che esiste una unità nell’aggressione (sarebbe, a mio modesto avviso, come dire che esisteva un piano/un complotto ndr O.G.) dalla quale ci sentiamo colpiti. Ed a questo proposito voglio riferire un episodio, non noto, ma reale.
Nella primavera del 1949 il P.C.I. (Renato Mieli era il vero responsabile della politica estera del partito essendo, al tempo, un agente angloamericano) ndr O.G.) inviò un suo rappresentante per prendere contatto con la Repubblica Popolare Cinese, allora non ancora costituita, ma che stava ultimando le operazioni militari. Il rappresentante del P.C.I., incontratosi con Mao-Tze-Tung e felicitandosi con lui delle sue vittorie, gli disse anche che i comunisti italiani riconoscevano che il loro contributo all’espansione del comunismo mondiale era veramente esiguo paragonato a quello cinese. Mao-Tze-Tung rispose: no, noi cinesi e voi italiani ci troviamo di fronte alla stessa tigre e la dobbiamo affrontare insieme; noi l’aggrediamo di petto cercando di spezzarle i denti e voi comunisti italiani intanto le pestate la coda. I dirigenti del P.C.I., quando il loro delegato tornò in Italia, riconobbero la validità del giudizio di Mao-Tze-tung, perché la tigre poteva comunque venire distratta, da un piccolo fastidio e consentire così a chi le voleva spezzare i denti di operare con maggiore facilità.
Ciò significa che in realtà la guerra rivoluzionaria non deve essere necessariamente condotta ovunque nello stesso modo e che perciò ai comunisti italiani tocca un compito diverso da quello dei cinesi. Il comunismo nella sua manifestazione cinese si presenta come un comunismo impegnato in una azione militare, ma ciò non vuol dire che il comunismo in tutto il mondo debba svolgere una azione analoga. La ripartizione dei compiti non è basata sul fatto che prima o poi tutti dovranno passare dalla fase della propaganda e dell’infiltrazione all’azione militare; le fasi sono regolate dalle condizioni delle possibilità esistenti nelle varie zone del mondo e dalla possibilità di operare in una specie di armonia concertata, per cui ad ognuno tocca un mondo specifico. In occidente la guerra guerreggiata, la guerra che qui si è voluto chiamare rivoluzionaria, si presenta sotto forme completamente diverse, particolarmente in Italia. Sicché la teoria di Mao-Tze-tung, certamente molto interessante, non soltanto non è nota alla maggior parte dei comunisti italiani, ma non ha una grande importanza agli effetti delle azioni che si svolgono in Italia. Perciò mi trovo d’accordo con il relatore che mi ha preceduto circa gli elementi fondamentali con i quali il comunismo conduce la sua azione in Italia. Si tratta di una guerra prevalentemente psicologica, il cui obbiettivo non è quello di occupare il territorio o di distruggere un esercito, ma è la conquista di un avversario, ossia la conquista dell’uomo.
Evidentemente parlare di guerra rivoluzionaria, quando la si concepisce in termini di conquista di uomini, può sembrare un eccesso di linguaggio, perché in realtà non è che un’azione politica. La politica ha sempre tentato di conquistare adepti, simpatizzanti e di convertire gli uomini ad una determinata causa e ad una determinata idea. Però vi è un elemento fondamentale che la politica comunista è coordinata in modo organico, anche se non del tutto chiaro, anche se non privo di contrasti sul piano mondiale. Ossia l’azione politica non va intesa nel senso tradizionale perché si svolge sul piano di una conquista legata ad un coordinamento mondiale con la finalità di privare noi tutti di vivere come liberi cittadini. Esiste dunque un legame invisibile per cui la conquista di un voto in più in Italia o la conquista di un’adesione a determinate manifestazioni si collegano con la guerriglia nel Vietnam.
Venendo al problema italiano, è giusto quanto diceva l’oratore che mi ha preceduto che la principale arma dei comunisti è quella d’individuare le contraddizioni o addirittura di farle nascere e poi di sfruttarle in modo da provocare un fatto disgregatore nella società che il comunismo vuole conquistare. L’esempio italiano in materia è di una tale ricchezza che non finiremo mai di parlarne se volessimo portarla come prova per dimostrare questo assunto.
Se questa è l’effettiva linea condotta dal P.C.I., noi dovremmo adottare due contromisure: la prima è quella di preoccuparci di individuare per prime le nostre contraddizioni e di tentare di risolverle, perché questa è l’essenza della democrazia. Ma nel tempo stesso dobbiamo tentare di individuare le contraddizioni dell’avversario per denunciarle a lui stesso, il quale non le conosce o non vorrebbe conoscerle. Non mancano gli elementi per mettere i comunisti di fronte alla constatazione delle loro contraddizioni sul piano internazionale, sul piano interno e, direi, perfino sul piano individuale. lo credo che non dobbiamo sottovalutare l’importanza del contrasto che oggi divide l’Unione Sovietica dalla Cina; esso non può costituire un motivo automatico di controllo del mondo comunista, anzi il comunismo potrebbe trarne vantaggio, perché la presenza di un bicentrismo nel mondo comunista è suscettibile di attirare maggiori consensi al comunismo stesso. Ma questa contraddizione diventa invece un motivo di debolezza se si è capaci di denunciarla e di strumentalizzarla. l fatti, di per sé, non sono mai né positivi né negativi: il comunismo non è invincibile, il comunismo non è così perfetto come si vuoI descrivere. Imperfetta è la risposta. La debolezza delle nostre posizioni, delle nostre repliche, delle nostre iniziative fa sì che questa divisione tra Mosca e Pechino risulti, a conti fatti, più vantaggiosa che svantaggiosa per i comunisti, almeno in Italia.
La seconda contraddizione è quella che riguarda il comunismo italiano all’interno. Quando si manifesta un dissenso nelle file del P.C.I., la voce dissenziente viene soffocata e sommersa dalla forza dell’apparato comunista, perché noi non la raccogliamo. Mentre, qualora vi siano segni anche minimi di dissenso in seno ai comunisti, in seno ai loro alleati o, in seno ai loro ausiliari, noi dobbiamo agire con la stessa prontezza, intelligenza, sensibilità ed efficacia con cui agiscono i comunisti. Siamo estremamente severi anche con coloro che creano gravi difficoltà al movimento comunista soltanto perché costoro dichiarano di essere comunisti o socialisti. Dobbiamo andare più a fondo delle cose. Non è sufficiente fermarsi alla superficie e considerare in blocco chiunque si dichiari di sinistra come una persona ormai perduta e, viceversa, accettare senza nessuna verifica chi dichiara di essere anti-comunista. Se taluni dicono di essere anti-comunisti e giovano ai comunisti noi dobbiamo ugualmente combatterli, indipendentemente da quanto essi affermano.
Vi è infine la questione delle contraddizioni nei singoli individui. Direi che è una questione psicologica. Badate che il comunista riesce a pensare contemporaneamente due cose contraddittorie con la massima tranquillità. E voi non lo troverete mai in imbarazzo, perché, in fondo, la coerenza non è una regola: siamo noi od alcuni austeri e severi intellettuali che pretendono che la coerenza sia un patrimonio di tutti. In generale non è così. Noi dobbiamo dimostrare a queste persone che la loro incoerenza è una manifestazione di contraddizione ed è distruttiva; che essi non hanno nulla da insegnare perché là dove esercitano il potere questa incoerenza si traduce in risultati disastrosi. 
Infine vorrei dire che noi dovremmo adoperarci perché i comunisti conoscano sé stessi. L’esperienza del comunismo porterà il comunismo al suo dissolvimento e possiamo trovare il punto debole del comunismo proprio all’interno del comunismo stesso.
Dobbiamo contrapporre una nostra strategia più efficace alla strategia comunista se vogliamo dissolvere il mondo comunista che si presenta compatto e minaccioso, ma che in verità non è così compatto come si crede, anche se è molto minaccioso.
Noi conosciamo poco il mondo comunista e ci comportiamo come se quel mondo dovesse essere respinto in blocco, eppure la debolezza di quel mondo sta in se stesso. I comunisti sono deboli per quello che dentro essi stessi hanno e se la nostra azione non ci sembra dare risultati cospicui in breve termine, col tempo lo sforzo di persuasione finisce d’indebolire la fibra di quei comunisti che oggi sembrano temibili, impenetrabili a qualsiasi critica ed a qualsiasi processo di revisione.
Il comunismo e la sua guerra non sono tutti di tipo cinese, e per quel che ci riguarda, l’aggressione comunista è molto più sottile articolata e differenziata. Noi qui ci troviamo di fronte alla forma più insidiosa che si manifesta in occidente di questa articolazione, di fronte alla forma più acuta, la quale ha una fisionomia quasi inafferrabile. Dobbiamo essere altrettanto ferrati, altrettanto abili ed altrettanto impegnati, se vogliamo combattere i comunisti con efficacia.»