La Juventus non poteva e non doveva uscire sconfitta dal campo!
Essere alleati, di fatto, delle ‘drine calabresi, evidentemente, incute, per effetto alone, un tale timore che l’arbitro di Juventus-Torino di ieri ha pensato, sua sponte, che gli conveniva dirigere almeno verso un pari il risultato del derby sotto la Mole. E così, alla fine, in dieci, il Toro è stato raggiunto e il business articolato che si muove ormai intorno al calcio, è stato ancora una volta servito/rispettato. Voi non saprete mai perché è finita così ma è finita così e non perché la palla sia tonda. Lo sport è cultura (così dovrebbe essere), si sente dire, sia in quanto manifestazione individuale o collettiva, sia nelle sue espressioni materiali (attrezzistica, impiantistica, etc.) o tecnico-scientifiche (immaginate solo dove sono arrivate le possibilità di assistenza medica).
La storia culturale dello sport, infatti, lungi dall’essere solo una storia degli eventi sportivi in bella grafia, a differenza della cronaca sportiva, altro non è che una storia della cultura attraverso lo sport, ovvero una storia del processo di civilizzazione attraverso la dimensione ludica.
Se si potesse dire (ma noi chi siamo per dirlo?), da un secolo, lo sport è lo specchio dei tempi e della cultura prevalente di quel tempo. Punto. Da questo punto di vista l’agonismo ha un senso anche come protagonista del processo democratico che il diffondersi delle pratiche sportive hanno vissuto, hanno testimoniato, hanno concorso a sviluppare. Non solo in senso democratico ma anche rispetto alla complessa valutazione del fenomeno della globalizzazione ancora drammaticamente in corso. Da questo punto di vista l’agonismo è un elemento di grande rilievo del processo democratico, come la stessa democrazia, ad alcune condizioni, dovrebbe/potrebbe ricavare linfa e coscienza dalle tensioni agonistiche.
Il 25 aprile 1945 (anniversario appena passato che ho preferito non utilizzare per questi discorsi, non volendo rischiare di ritrovarmi affollato dentro a questioni oscene su chi ricorda e chi dimentica il contributo della Brigata ebraica) ha riconsegnato, ad esempio, agli italiani, il calcio, che pure rimane presente nei campi di concentramento e, con il calcio, il campionato che inizierà, diviso nel girone sud e e nel girone nord, il 14 ottobre del 1945. Il giro ciclistico ripartirà solo l’anno dopo. Restituendo il calcio la Liberazione armata, restituisce anche un sistema sportivo appesantito, snaturato dall’uso ventennale fattone dal regime e una dimensione, quella agonistica appunto (con il tifo che liberamente si ri-scatena), snobbata fino al quel momento da gran parte dell’intellettualità che l’aveva definita un falso ideale.
Di qui la fortuna dello slogan antifascista “se lo sport è salute, viva la tubercolosi” che deve aver tanto influito sui padri costituenti (per cominciare a parlare di cose serie) se è vero che nella nostra Costituzione non c’è un solo accenno allo sport. Bisogna aspettare il “ciclista di Dio”, col berrettino tricolore, Gino Bartali, che vincendo il Tour del 1948, contribuì a non far precipitare la spaccatura politica conseguente all’attentato al leader comunista Palmiro Togliatti compiuto mercoledì 14 luglio (in Francia era festa nazionale) dal venticinquenne siciliano Antonio Pallante. Il giorno dopo l’attentato, il trentaquattrenne (un vecchio per i tempi anagrafici d’allora) staccò nettamente i belgi e i francesi sulla salita del Izoard e la gioia dei cittadini italiani (già in molti avevano preso le armi) aiutò a superare le divisioni politiche e la guerra civile possibile.
Gli italiani erano stati lasciati poveri di tutto dalla guerra e dalla dittatura. Un episodio come la vittoria di Bartali permise un’identificazione collettiva nazionale che altrimenti aveva avuto poche altre occasioni. Lo sport, il tifo era in quel momento cosa seria e non ciò che successivamente è diventato cioè terreno per le varie “cosa nostra” o altre forme di criminalità organizzata.
Oltre a Bartali, in quegli anni, ci si mise il fato a far scattare sentimenti unitari.
Il 4 maggio 1949, il disastro aereo di Superga in cui morirono non solo i calciatori del Torino ma molti nazionali, fu un altro episodio che contribuì a rendere più uniti gli italiani. Vi immaginate oggi cose del genere?
Lo sport, per come la vedo io, ha prodotto la progressiva costruzione di una casa comune, tra nord e sud soprattutto, fino a contribuire, con la voglia democratica del confronto agonistico, dello scambio culturale implicito negli avvenimenti sportivi di quegli anni, al superamento di fatto della tensione della guerra fredda che ci veniva imposta per esigenze geopolitiche, figlie, a loro volta, della grande divisione decisa ad Yalta. In quegli anni, il nostro (diciamolo!) sistema sportivo post-bellico ha veicolato, a livello internazionale, l’immagine di una nazione in fase di ricostruzione. Fu Coppi, campionissimo, a testimoniare tale immagine almeno fino al 2 gennaio del 1960 quando morì quarantenne, dopo essere stato abituato a stare “solo al comando” e, fin che visse, invincibile. Coppi che si affianca a Bartali, la Ferrari duellante con l’Alfa Romeo, la Vespa contrapposta alla Lambretta, Gina Lollobrigida rispetto Sophia Loren e, soprattutto, le squadre di calcio in sfida nel Campionato appaiono, ancora oggi, dualismi o semipacifici duelli dovuti oltre alle differenze culturali e alle lotte politiche, alla volontà repubblicana di parteggiare, di appassionarsi liberamente, di vivere e crescere nel pluralismo.
Nel primo ventennio della ricostruzione economica e del radicamento democratico (oggi sento tutta la mia età), delle migrazioni interne e del boom industriale (avvenuto anche grazie alle emigrazioni e alle rimesse dei nostri emigranti), lo sport contribuì alle nuove, necessarie, sacrosante dinamiche di nazionalizzazione attraverso la passione (non esclusa la passione per la schedina del Totocalcio e l’idea di diventare “onestamente” milionari) e il sentimento di appartenenza. Si poteva (ed era comprensibile se non quasi auspicabile), in un tale clima, diventare del Milan o della Juventus, pur essendo baresi o palermitani, costretti ad andare a buscare il pane, in fabbrica, a Torino o a Milano. Ma nell’era della globalizzazione sino-‘ndranghetista, mi dite di cosa possiamo ancora parlare e quali meccanismi di identificazione ci possiamo aspettare dallo sport e dal calcio in particolare?
Tra il tanto vituperato ’68 (un giorno ci torno su questi stereotipi e mi tolgo qualche macigno dalle scarpe) anno in cui l’Italia vince il titolo europeo e il 17 giugno del 1970 (semifinale messicana ai mondiali sempre di calcio), esplose una felicità di massa fatta anche di socialità patriottica (io ho il ricordo, nomi e cognomi, di ragazzi che avevano le lacrime agli occhi per l’Italia e che poi, poco dopo, lasciati da una classe politica di imbelli traditori nella confusione delle conseguenze della guerra fredda e di una guerra civile strisciante mai risolta, si sono messi a fare i terroristi, rossi e neri) che portò nelle piazze bandiere tricolori, inni e simboli dell’identità nazionale, da poco liberamente scelta che troverà il suo culmine nel titolo mondiale del luglio del 1982. Con Pertini presidente ma Aldo Moro già lasciato uccidere perché non potessimo mai più avere uno straccio di sovranità e quindi una bandiera da sventolare, se non per il calcio. E guardate se mi sbaglio.
Ora siamo ai “servizi” che devono infiltrare le tifoserie.
I responsabili sono tra gli altri dei politici malfattori che hanno abdicato al loro ruolo, consentendo che la calcistizzazione della politica assumesse carattere di sistematicità con la comparsa di “Forza Italia” (scelta veramente delinquenziale e corruttiva), movimento guidato da Silvio Berlusconi, non a caso “sceso in campo”. E se avete dei dubbi in materia cerco nel mio archivio e caccio le carte, sicuro di trovare un intervento in materia di tale Italo Cucci dedicato, nel marzo del 1994, al linguaggio della politica e all’uso delle metafore politiche: tutto già scritto!
Ed ora il Berlusca, da vecchio mascalzone, dopo avervi costretto a vivere secondo le regole del calcio spettacolo, la “compagnia di giro” se l’è venduta ai cinesi, esponenti del sistema di cui sopra. Lui, il suo Milan, ai cinesi e gli Agnelli, la loro Juventus, alla criminalità calabrese. Quello che dovevo dire, l’ho cominciato a scrivere.
Soprattutto perché non mi pare proprio che si possa sostenere che lo sport super globalizzato porti automaticamente alla fratellanza tra i popoli e al superamento del razzismo. Anzi. La società globalizzata non mostra alcun segnale di multiculturalità evoluta. Anzi. La globalizzazione non è la panacea di niente o la soluzione finale. Al massimo, è una metamorfosi rafforzativa del Male.
Oreste Grani/Leo Rugens, grato alla vita per le frequentazioni, a suo tempo fatte, di ambienti intellettualmente raffinati dediti alla critica e alla storia dello sport.