Il cretino è sempre vicino

La Stampa di Torino del 13.3.83 riportava un magistrale articolo di Carlo Fruttero e Franco Lucentini, “Ladergate”, dedicato a un scandalo che coinvolgeva l’amministrazione comunale del capoluogo del Piemonte. Si dice che fosse la prova generale di Tangentopoli, un test per minare il PSI da parte del PCI.
L’informatissima coppia di scrittori e intellettuali, nel 1985, raccoglieva numerosi articoli pubblicati a partire dal 1972 in un volume intitolato “La prevalenza del cretino” che accoglie anche “Ladergate”. Alla fine della prefazione leggiamo: “il volume non segue un ordine cronologico ma tenta una classificazione per temi della vasta ma­teria: il cretino nella scuola, il cretino in viaggio e in vacanza, il cretino nella pubblica amministrazione, il cretino in politica, il cretino intellettuale, il cretino mass-medianico, il linguaggio del cretino, ecc. Un capitolo riservato alle donne ci ha portati alla curiosa scoperta semantica che dire: « è una cretina » non ha, misteriosamente, lo stesso significato sferico, irrevocabile, che di­re: « è un cretino ».
Infine, poiché prevalenza non significa (ancora) dominio asso­luto, l’ultima parte del libro raccoglie gli scritti da noi dedicati nel corso degli anni ad alcuni di quegli isolati che, in diversi tem­pi, modi, paesi, si sono battuti e si battono contro il comune ne­mico; ai tristi e lucidi capitani, agli sparsi e preziosi compagni di una resistenza che bisogna pur fare
“. “Cretino” o “stupido” o “imbecille” o “coglione” è colui/colei che nel muoversi, agitarsi, darsi da fare, parlare, giudicare, mostra una grave inadeguatezza ad agire in modo costruttivo nell’ambiente in cui vive o lavora. Per fare un esempio, il noto “Gelli”, il potentissimo Gelli, agli occhi dei due autori si identifica nelle sue svariate vesti a null’altro che ai personaggi di Sordi, sovente dei “poveri cretini”, tali da impedire allo spettatore di identificarvisi.
Per evitare di passare per cretino, vi lascio alla lettura del piccolo perfetto capolavoro.

Ladergate a Torino

Una certa confusione regna nelle nostre teste circa il « terziario avanzato », definizione che da un po’ di tempo rimbalza secca­ mente sui più aggiornati pavimenti italici, come una pallina da ping-pong sfuggita ai giocatori. A volte crediamo che faccia parte del gergo sportivo, come « terzino di spinta » o « ala tornante »; a volte ci sembra appartenere alla terminologia sindacale (mi­gliaia di terziari che avanzano in corteo, bandiere al vento…), o al lessico aziendal-burocratico (il dott. De Luigi, che ha nal­ mente ottenuto l’avanzamento al terziario…), o a quello degli Or­dini religiosi (un terziario francescano, avanzato più degli liri nell’ascesi…); quando non si mescoli addirittura alle nostre remi­ niscenze classiche (« Fabio Massimo, avendo fatto avanzare i ter­ziari contro la cavalleria punica… »).
Ma, dopo lo scandalo delle tangenti nell’amministrazione tori­nese, siamo quasi sicuri di aver capito. Le cose stanno probabil­mente così: da una parte, c’è un Comune o una Regione che vuole comprare qualcosa, ora cerotti ora semafori, quando spilli quando computers; e dall’altra, ci sono le società che vogliono vendere tali manufatti. Fra i due c’è il terziario, che avanza in questa semplice transazione (o che è d’avanzo?), la complica, la intorbida, la stravolge, e ne esce con un fascio di milioni in pugno. Salvo quanto accerterà la magistratura, dev’essere proprio lui, Adriano Zampini, il terziario avanzato di cui tanto sen­tivamo parlare in giro.
Fatalità di un nome! L’Aretino, Ben Johnson, lo stesso Shake­speare, l’hanno forse preso un istante in considerazione per qual­ che personaggio losco e marginale delle loro commedie (Una strada di Torino. Entra il vicesindaco seguito da Zampini, ter­ziario veronese al suo servizio) . Ma anche in Topolino non avrebbe sfigurato, come cugino di Gambadilegno, basista della Banda Bassotti.
Quel plurale è peraltro allarmante. Il cittadino si guarda in­ torno e si chiede: e questi lampioni? questi orologi pubblici? que­sti asfalti e bitumi, queste grondaie, queste tegole, queste panchi­ne? Non ci saranno zampini anche lì sotto?
La sua prima reazione è di angoscia contabile. Lui, che fa abi­tualmente 500 metri in più per pagare i carcio 200 lire in meno, è anzitutto turbato dall’idea di vivere in una città, dove ogni cosa ha forse una sua folle cresta. Ogni margherita dei giardinetti è forse stata pagata quanto un’orchidea? Ogni cestello delle im­mondizie quanto un vaso di Murano? Un lusso sfrenato, un fa­sto babilonese, Io circonda (forse) a sua insaputa. L’autobus è uno yacht travestito, il pietrisco dei viali è impastato di pepite d’oro, le uniformi delle vigilesse valgono come una collezione di Saint-Laurent. Ma dove vivo?, si domanda, smarrito non me­no di Alice nel paese delle meraviglie.
Infatti, dove vivi?, gli fanno eco i suoi cinici amici. Queste cose sono sempre successe, le faceva anche Fabio Massimo. Ven­ti a me, quaranta al partito, quaranta alla corrente. La politica è una cosa sporca, ecc.
Ma lui non si consola, non si rassegna. È duro raffigurarsi le belle mazzette di soldi che le tasse gli hanno portato via, e pen­sare che sono poi materialmente finite nelle tasche dei giubboni della giunta. Se io riesco – ragiona – a stare attento alle mie mi­nime spese, possibile che non ci riesca un Comune, con tutti i controllori che ha?
Ma se gli stessi controllori, ecc.
Soddisfa comunque in questa vicenda il biblico contrappasso: chi di elettronica ferisce… Lo Zampini e i suoi complici comunali e regionali, che volevano truffare sull’installazione di una banca­ dati, hanno invece finito per installare di tasca (bocca) propria un imponente dossier di chiacchiere compromettenti: sessanta ore di registrazioni mediante cimici, microspie, aggeggini dissimulati nelle pepiere, e altri sofisticati prodotti del ramo. Già i giornali la chiamano la Watergate torinese, anche se a noi suona più con­cisa e più appropriata la dizione dialettale Ladergate.
Magistratura, polizia e finanza non potevano fare di più, ce ne rendiamo conto. Ma il rimpianto di non avere le registrazioni an­che di quei viaggi-studio in Usa! Di non poter ascoltare dal vivo le curiosità, i gridolini, i commenti, le discussioni dei « delegati » torinesi, invitati colà a visitare gl’impianti con le loro madamin assessoriali! (« Oh, guarda queste lucine colorate! Wonderful Wonderful! Chiedigli tu a cosa servono, io non mi oso! ») Tesori perduti per sempre.
Dalle amare considerazioni della gente, a Torino e altrove, si capisce quanto persistano sotterraneamente certi miti, o pregiu­dizi. Ma come, anche qui? Nonostante le voci che circolavano da tempo, e sebbene le agenzie turistiche più quali cate non garan­
tissero niente, si pensava di mangiare pesce ancora fresco, e non surgelato, di fare il bagno in acque ancora limpide, e non inqui­nate. Quei torinesi saranno musoni e senza fantasia; ma almeno… Invece sono, in più, ladri come gli altri.
Il turista tira una croce su Torino e in la la marcia indietro, a malincuore. Che il resto d’Italia sia più o meno nelle stesse con­ dizioni non gli reca nessun conforto: il suo ingenuo, inconscio razzismo, gli fa apparire l’incruenta corruzione subalpina ben più grave degli appalti al tritolo del Sud, che ora s’accorge di aver sempre dato per scontati, normali, inevitabili. E lo ferisce che il faccendiere di questa giunta fosse un ex ufficiale degli alpini, un corpo di leggendaria sobrietà, solidità. Ah, quella sacra penna nera per rmare quegli empi assegni! Non c’è più religione, non c’è più onestà!
Ma l’appello all’onestà annoia, i richiami a Giolitti che si por­tava l’aria da Cuneo per non consumare quella del ministero, a Turati che camminava su un piede solo per non logorare il suolo pubblico, sono, come tutte le retoriche, sfasati e controprodu­ centi. Subito, il pensiero corre ai due estremi emblematici: il vir­tuoso, incorruttibile Robespierre, e il principe di Talleyrand, sfa ciato tangentista, scialacquatore impunito, che teneva al suo ser­ vizio il miglior cuoco d’Europa. Nessuno può esitare nella scelta.
Converrebbe forse alla questione di esser posta in termini m no moralistici, meno inappetibili. In un gruppo di amici, una sera di tanti anni fa, si dibatteva la puerile ipotesi: che cosa fa­ resti se trovassi diciamo venti miliardi « puliti », del cui smarri­ mento il proprietario (diciamo Gulbenkian, la Chase Manhattan, l’lri) non s’è neppure accorto? Chi diceva un veliero per navi­ gare negli arcipelaghi di Conrad, chi diceva ville venete, donne, cavalli, chi diceva un’isola greca, chi diceva (il sant’uomo) una casa editrice tutta sua. Uno, che non era un inglese, disse: io li restituirei, mi sembrerebbe di aver vinto con le carte truccate, non mi divertirei più, non sarebbe più il mio gioco.
L’onestà, dunque, come senso e gusto del fair-play. Il pubbli­ co funzionario che respinge la bustarella senza cipiglio e sussie­ go, ma col sorriso del giocatore autentico: no, grazie, sarebbe troppo facile. Il rispetto delle regole sentito non come ingrato do­ vere ma come piacere superiore, un’abilità da slalomista, un im­ pegno da recordman, cui un regalo di mezzo secondo guasterebbe la festa. Non è forse sull’onestà, che bisogna battere, ma sull’or­goglio.

Per ricordare o comprendere cosa accadde ai piedi della Mole in quel lontanissimo ma così vicino, culturalmente parlando, 1983, lo sintetizza Marco Gregoretti del giugno 2014:

[…]
Due marzo 1983, Torino viene sconquassata dal primo grande scandalo mediatico delle tangenti (c’erano già stati Savona e Parma, altre due tangenti-story di sinistra). Adriano Zampini, faccendiere con due chilometri di pelo sullo stomaco, ex alpino, veneto, probabilmente legato ad apparati dell’intelligence italiana, si mise d’accordo con Diego Novelli e raccontò ai magistrati di un giro di tangenti pagate al Pci, al Psi e alla Dc, anche dalla Fiat. Andarono in prigione Giancarlo Quagliotti, capogruppo del Pci in comune, Franco Revelli, capogruppo del Pci in Regione, Enzo Biffi Gentili, vicesindaco socialista di Torino, suo fratello Nanni, il consigliere comunale dello stesso partito Libertino Scicolone, il capogruppo Dc Giuseppe Gatti e il segretario del suo partito, Claudio Artusi (quest’ultimo lo ritroveremo tanti anni dopo ai vertici della Fiera di Milano). Finirono agli arresti alcuni funzionari e due assessori regionali socialisti, Claudio Simonelli e Gianluigi Testa. Ma ce ne fu anche per i vertici della Fiat: a processo andò Umberto Pecchini, importante manager dell’azienda torinese. Zampini tirò esplicitamente in ballo (lo fece rilasciandomi un’intervista per l’emittente privata, del Pci, di cui ero il caporedattore), l’ad di Fiat Cesare Romiti, salvato da Pecchini che si immolò perché il suo capo non fosse coinvolto. Un terremoto che molti osservatori esattamente 10 anni dopo, all’esplodere di Mani Pulite, definiranno come “le prove generali delle inchieste di Antonio Di Pietro”. Fu anche la prima volta che si parlò di uso politico della magistratura: quell’inchiesta, infatti, di cui si aveva sentore da un paio di mesi, tolse di mezzo il più accreditato candidato, dopo le dimissioni di Renzo Gianotti, alla guida provinciale del Pci, Giancarlo Quagliotti. E aprì la strada a Piero Fassino che fu incoronato segretario al congresso torinese concluso, con un lungo intervento sulla questione morale, da Enrico Berlinguer. Fu nella primavera di quell’anno, 1983, che iniziò l’indissolubile e strategico patto di ferro tra Piero Fassino e Primo Greganti, amministratore della Federazione del partito comunista torinese, la mitica “Federasciun” di via Chiesa della Salute. A Greganti il compito di trovare i soldi per pagare i funzionari del partito, i giornalisti dell’Unità, di Nuova Società (la rivista di Diego Novelli, di Saverio Vertone e di Giuliano Ferrara), di Radio Flash, di Videouno, della società di raccolta pubblicitaria Eipu, della Gep (Gruppo editoriale Piemonte). Dal compagno G dipendevano, con potere assoluto e massima autonomia, anche le iniziative “collaterali”, come le Feste dell’Unità. […]

Facendo un salto indietro nel tempo, era il 1988, leggiamo che il castello accusatorio, che pure si basava su una bella cantata dello Zampini, approdato in tribunale, crolla quasi del tutto; aggiungere un pensiero su come agisse la magistratura già allora è doveroso ma non assolutorio di nulla e di nessuno:

ECCO PERCHE’ SONO CROLLATE TUTTE LE ACCUSE DI ZAMPINI
TORINO
Lo scandalo delle tangenti di Torino, quello del faccendiere Adriano Zampini e di mezza classe politica locale, scoppiato nel marzo di cinque anni fa, non è mai esistito. E se c’ è stato qualcosa, i reati non erano di competenza del tribunale, ma della pretura perché gli imputati (in secondo grado le 18 condanne sono state ridotte a 7) sono stati riconosciuti colpevoli soltanto di corruzione impropria e non di corruzione propria. Le polemiche che avevano seguito la sentenza della Corte d’ appello, il 23 maggio scorso, hanno oggi una risposta con il deposito delle motivazioni dei giudici di secondo grado: 400 pagine che spiegano perché quel grande scandalo è diventato così piccolo. Quisquilie disse subito dopo la lettura della sentenza uno dei principali imputati, l’ ex sindaco socialista, Enzo Biffi-Gentili reati da pretura: 7 condanne non sono nulla. Nelle 400 pagine di motivazione la storia infinita di Adriano Zampini, l’ ex alpino diventato corruttore, aspirante miliardario e faccendiere di un certo peso, viene ridimensionata come già il procuratore generale Aldo Mitola aveva anticipato nella requisitoria davanti ai giudici dell’ appello. La maggior parte dei personaggi principali (un ex vicesindaco, consiglieri, assessori regionali e comunali, manager e grandi elettori di Dc, Psi e Pci) sono stati quasi tutti riabilitati. L’ ex assessore Libertino Scicolone, condannato in primo grado a tre anni e due mesi assolto poi per non aver commesso il fatto, ha già un suo posto nel partito. Anche per gli altri, per gli assolti, la gara politica probabilmente riprenderà e i ferri dei carabinieri stretti ai loro polsi in quelle fredde giornate di marzo di cinque anni fa, sono soltanto i ricordi di un incubo e di una giustizia ingiusta. Ma ecco che cosa è detto nella motivazione: La Corte non ha considerato il racconto di Zampini, ricco di apprezzamenti personali, la struttura portante di ogni articolazione dell’ accusa. Il faccendiere, per i giudici di primo grado, infatti, era un imputato attendibile, per quelli dell’ appello non del tutto veritiero. E il castello è crollato. Zampini aveva promesso clamorose rivelazioni da far tremare la città, ma queste verità non sono mai arrivate; anzi, l’ ex alpino avrebbe imbrogliato talmente le carte da tradirsi, da risultare un po’ troppo fantasioso. Ma qualcosa (anche se non molto) c’ è stato. Enzo Biffi-Gentili, per esempio, condannato ad un anno e mezzo di reclusione, invece di quattro, è stato punito per aver accettato la promessa di un’ utilità quale corrispettivo del suo comportamento conforme ai doveri d’ ufficio. Nel suo caso, infatti, non hanno riscontro molte affermazioni accusatorie del pentito Zampini. E’ comunque verosimile che egli abbia ostentato a Zampini stesso interesse e premure inesistenti. Con Enzo Biffi-Gentili sono stati condannati (ma con pene notevolmente ridimensionate) il fratello Giovanni, Claudio Artusi, ex segretario cittadino della Dc; Gianluigi Testa, ex assessore regionale del Psi, il suo collega Claudio Simonelli, Massimo Locci, segretario di quest’ ultimo e, ovviamente, il mancato regista di affari miliardari mai portati a termine, Zampini. Tuttavia il grande equivoco secondo i giudici c’ è stato per tanti altri come il democristiano Beppe Gatti (tre anni in primo grado) e assolto per non aver commesso il fatto. Nei suoi confronti manca del tutto la prova che egli abbia mercificato il proprio comportamento di pubblico amministratore. Si è soltanto comportato con formale gentilezza. Come l’ex capogruppo regionale del Pci, Giuseppe Quagliotti le cui chiamate di correità di Zampini sono risultate inconsistenti. E Diego Novelli, l’ex sindaco che fece scoppiare lo scandalo, pur sapendo che implicati erano personaggi del suo partito? Novelli è detto nella motivazione della sentenza era noto a tutti per il suo estremo rigore morale e per la sofferenza nell’ apprendere che anche gli uffici comunali non andavano esenti da corruzione.
di ROBERTO PATRUNO

Oggi come ieri, avvocati o “faccendieri” pullulano intorno alle amministrazioni comunali, regionali e statali (esistessero le provincie li trovereste anche lì) indefessi che in un attimo si trasformano in fessi o cretini, nel senso di poveri cristi o di imbecilli a seconda del vostro gusto, quando vengono arrestati e tradotti nelle patrie galere da valenti investigatori. Questo mi sento di ribadire da lettrice appassionata di Fruttero & Lucentini.

Dionisia

P.S. In certi momenti di fronte a taluni personaggi temo che il cretino non solo stia vincendo ma che abbia trionfato.