Napoleone Buonaparte e Leo Rugens

Oggi, 5 maggio, non si può “saltare” il ricordo della morte, duecento anni addietro, di Napoleone Buonaparte

L’ode “Ei fu siccome immobile dato il mortal sospiro …” non ho avuto la genialità di scriverla io ma Alessandro Manzoni. Peccato. Più semplicemente, per celebrare il generale e la sua complessità, il 19 ottobre 2018, ho lasciato, in questo marginale e ininfluente luogo telematico, un post che ripubblico. 

Vedete un po’ se le cose che ho scritto vi convincono. 

Buona sera a tutti.

A proposito di celebrazioni, comunque, vediamo di non rimuovere, e lo ricordo Urbi et Orbi (sarebbe a Roma e al Mondo) che Leo, domani, 6 maggio, celebra il suo 74esimo compleanno ed è vivo e allegro (anche vaccinato 1° Pfizer) grazie alle amorevoli cure della paziente mugliera, bella e intelligente come poche. Alla faccia di quei cornutazzi che mi volevano morto. 

Oreste Grani/Leo Rugens


NAPOLEONE BUONAPARTE, LA MERITOCRAZIA E LE RAPPRESAGLIE ATTE A TERRORIZZARE

bonaparte

Ho affrontato più volte il tema della meritocrazia e spesso l’ho ricondotto al campo della sicurezza nazionale e ai criteri di reclutamento, selezione, formazione del personale da destinare alle agenzie d’Intelligence, AISI ed AISE.

Sul tema della meritocrazia oggi me ne vado indietro nel tempo con un riferimento storico, da storico che non sono, a qualcosa di cui si parla poco quando si ragiona, ad esempio, di Napoleone Bonaparte e di quello che viene ritenuto il suo genio militare.

Dell’Imperatore non si ricorda mai abbastanza che i suoi eserciti vengono forgiati da un nuovo modo di vedere politico-militare (realmente rivoluzionario per l’epoca) che consisteva (ma non parlo di tattiche e strategie) nel alimentare un diffuso sentimento di Patria tra i soldati reclutati anche nell’ambito della riforma del servizio militare obbligatorio e, vengo al punto, promozioni degli ufficiali in base al merito e non per estrazione sociale. Quella del merito è questione delicata che ancora oggi, dalle nostre parti, non vede i riscontri necessari. Addirittura, dalle nostre parti, si va avanti non solo per le nefande raccomandazioni politiche o lobbistiche, ma anche per appartenenza a date famiglie. La buona tradizione familiare è altra cosa e ha un suo aspetto positivo, ma non si può fare carriera perché si è figli di.

Napoleone lo aveva capito aggiungendo quella cosa della Fortuna che doveva accompagnare i suoi generali, ma prima veniva il merito.

I suoi soldati lo amavano e lo seguivano anche per questo.

il piccolo caporale

Per il resto (saccheggio alcune pagine introduttive del “Il piccolo caporale“) siamo di fronte ad un ragazzo (si direbbe oggi) che a soli 26 anni già si poteva dedicare a fare di se stesso un mito, ancora vivo oggi, duecento anni dopo. Perché, non lo dimenticate, è duecento anni addietro (poco più) che Bonaparte (e quindi la Francia che si avviava ad essere moderna), invadeva, per la prima volta, l’Italia. Da allora non credo che le classi dirigenti francesi abbiano mai smesso di provare (spesso riuscendoci) a depredarci. Nel caso di Napoleone, anche a massacrare le nostre popolazioni (se provavano a dissentire) utilizzando metodologie che, se raffrontare, non avevano nulla di meno abbietto di quelle naziste nei tempi successivi.

26 maggio 1796, Pavia.

Due giorni di ferro e fuoco. Ieri sulla strada per Pavia, Bonaparte ha voluto che il paese di Binasco fosse dato alle fiamme e raso al suolo, come rappresaglia all’uccisione di alcuni soldati francesi che da giorni razziavano e facevano altro per sopperire alle condizioni orribili in cui dovevano combattere. Molti senza scarpe. Nella notte il generale ha scritto un resoconto per Berthier:

A metà strada fra Milano e Pavia abbiamo incontrato un migliaio di contadini a Binasco e li abbiamo battuti. Dopo averne uccisi cento (oggi si chiamerebbe “decimazione”, 100 su 1000 ndr), abbiamo bruciato il villaggio, terribile esempio che sarà certamente efficace. Marceremo entro un’ora, verso Pavia, dove si dice che i nostri continuino a resistere“.

Prima di rimettersi in cammino, Bonaparte ha voluto dettare un proclama da diffondere in tutta la Lombardia:

Coloro che entro 24 ore non avranno deposto le armi saranno trattati da ribelli e i loro villaggi saranno bruciati. Che l’esempio terribile di Binasco faccia aprire loro gli occhi“.

Napoleone arriva veloce a Pavia e intima la resa ai ribelli (e mi scuso per la semplificazione). Al rifiuto, usa l’artiglieria per sfondare porte e portoni. Entrato, da disposizione di bruciare tutta Pavia dopo averla depredata delle opere d’arte. A quel punto una delegazione di preti e di maggiorenti della città chiede perdono.

Il futuro imperatore accondiscende ma alle seguenti condizioni: fucilazione immediata di tutti i capi riconosciuti della rivolta; deportazione in Francia di 200 personalità quali ostaggi per l’avvenire; libero saccheggio per 24 ore per i suoi soldati vittoriosi.

Ovviamente fu accettata la proposta “equa”. A sera, dopo le fucilazioni, Napoleone scrive a Parigi che a Pavia è tutto tranquillo.

Capisco che i racconti possono fuorviare ma questo gli ex-fratelli (oggi cugini) si sono abituati a fare e questo, metaforicamente, potrebbero volere oggi fare. Dove, infatti, possono depredarci, ancora lo fanno. E molti, da questa parte delle Alpi, preferiscono arrendersi e consegnare ricchezze e ostaggi.

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Alcuni decenni dopo Napoleone, a farci soffrire dalle parti di Pavia, ci hanno pensato i tedeschi nazisti e i loro alleati fascisti. Per i tedeschi si trattò di quelli che venivano chiamati “mongoli” come a seguire capirete se non lo sapete già.

La grande offensiva di tedeschi e fascisti, l’ultimo disperato tentativo di raddrizzare il corso degli eventi che decisamente volgeva per loro al peggio, venne fatto nell’inverno fra il 1944-45. Il rastrellamento per cercare di regolare i conti con la Resistenza (come del resto in tutto il Nord Italia dopo lo stop sulla linea Gotica) segnò il periodo più duro e cupo per tutta la provincia di Pavia. Nazisti e repubblichini misero in campo circa 15 mila uomini con un reparto corazzato e battaglioni equipaggiati anche con armi pesanti, fra cui cannoni e autoblindo. Dall’altra parte, invece, circa tremila partigiani dotati di soli mitra o poco più. Una disparità di forze e mezzi, una battaglia sanguinosa a più riprese che duro circa 3 mesi. È l’inverno in cui gli uomini della Resistenza arrivarono ad un passo dall’annientamento a fronte di un nemico più numeroso ed equipaggiato. La pausa nelle operazioni belliche al fronte consente alla Wehrmacht di schierare contro i «ribelli» la 162ª divisione Turkestan, formata da quelli che nell’immaginario popolare diventeranno i «mongoli» per la forma allungata degli occhi tipicamente orientale. Si tratta in realtà di ex soldati sovietici di stirpe calmucca, turkmeni e azerbaigiani, fatti prigionieri a decine di migliaia e passati con il nemico, chi per odio effettivo contro il regime staliniano, mai tenero con le minoranze etniche, chi per disperazione e per fame. Li comanda Ralph von Heygendorff, un ufficiale sassone nato a Dresda nel 1897, chiamato a ritemprare l’unità duramente provata dagli scontri con gli angloamericani. I «mongoli» dimostreranno di che pasta sono fatti, purtroppo non solo per l’efficacia militare: in particolare la popolazione civile dell’alto Oltrepo pagherà uno scotto terribile, tra le violenze sulle donne, i saccheggi, gli incendi di cascinali, i gratuiti massacri. L’operazione Heygendorrf, dal nome del comandante del principale reparto impiegato, scatta il 23 novembre in valle Staffora. Pian piano, i nazi fascisti estendono rastrellamenti e guerriglia su tutto il territorio. Spesso furono i parroci a tentare di frapporsi tra i civili inermi e la soldataglia arruolata dai nazisti, a rischio della vita. Come a Belgioioso. È il primo di novembre del 1944 quando la ferocia, in questo caso di militari fascisti, irrompe nella chiesa parrocchiale. Molti giovani renitenti alla leva, infatti, si trovano in chiesa per ascoltare la messa di commemorazione dei Defunti. «All’improvviso si apre la porta centrale – scrive Gianni Beccali nel suo libro sulla Resistenza, rarissimo gioiello storico in cui vengono ricordati numerosi episodi delle violenze perpetrate dai nazi-fascisti soprattutto nella Bassa – e compaiono decine di uomini in divisa e con i mitra spianati. Entrano in chiesa. Sono fascisti. I giovani, in modo particolare, fuggono verso l’altare per raggiungere una via d’uscita secondaria. Il prevosto, don Giuseppe Brusoni, coraggiosamente va incontro ai fascisti cercando di fermarli e rimproverandoli per il sacrilegio che stavano consumando nella Casa di Dio. Viene travolto a forza e minacciato. Molti riescono a fuggire, ma alcuni vengono presi e caricati su camion. Fra questi, Annibale Gaudenzi, che in seguito verrà fucilato a Chiavari. Era fratello di latte di Bruno Ferrari, fascista e organizzatore dell’azione a cui partecipa di persona. I due erano amici per la pelle, abitavano dalla nascita a Cascina Casottina insieme a Giorgio Guasconi, anche lui catturato nella medesima circostanza. Entrambi avevano fatto parte della divisione Monte Rosa e insieme avevano partecipato ad un periodo di addestramento in Germania. Appena rientrati in Italia, Gaudenzi e Guasconi avevano disertato ed erano rientrati nelle loro case. Rino Sgorbati, un altro giovane catturato in quell’occasione, viene affidato alla Gnr di Villanterio da dove in seguito riesce a fuggire. Tiziano Pizzoni, invece, approfittando di un attimo di confusione, fugge verso l’asilo infantile riuscendo ad entrare dalla parte della roggia. I fascisti sparano raffiche di mitra che fortunatamente non lo colpiscono perchè Roberto Gianzini coraggiosamente devia la prima raffica spingendo verso l’alto l’arma di Ferrari». Ma la formazione più feroce – come scrive Giulio Guderzo nella sua opera omnia su questo periodo “L’altra guerra. Neofascisti, tedeschi, partigiani, popolo in una provincia padana”– fu la Sichereits, la milizia paramilitare agli ordini diretti dei tedeschi, «impegnata a sfruttare il successo ottenuto dal grande rastrellamento contro le formazioni partigiane – scrive Guderzo – eliminandone fisicamente quadri e gregari: cercati uno per uno, paese per paese, casa per casa; avvalendosi sia di delazioni (in loco), sia di informatori professionali infiltrati nel territorio occupato». L’unità, inquadrata come “Secondo Battaglione Italiano di Polizia”, fu formata verso la fine del 1943 dal colonnello dell’aviazione Guido Alberto Alfieri a Casteggio per poi spostare la sede a Voghera nel maggio del 1944, prima presso il comando tedesco, poi nella Casa del fascio di via Ricotti e poi in via Scarabelli. Nel giugno 1944 si stabilì a Varzi, nell’area di maggiore attività partigiana. Vennero aperte sedi anche a Broni nel settembre 1944 (ex albergo Savoia) e nel novembre dello stesso anno nel castello di Cigognola.

pavia liberazione

Fu una delle più famigerate “bande di repressione” della Repubblica di Salò e fu in seguito tristemente nota con la definizione generica di “Banda Fiorentini”, dal nome di Felice Fiorentini che divenne successivamente capo riconosciuto. Nei suoi ranghi militarono numerosi fascisti toscani, sbandati dopo l’armistizio. I suoi membri indossavano divise eterogenee, circolavano in borghese o con uniformi nere, ma portando al braccio sinistro una fascia gialla contrassegnata dalla scritta Sichereits o talvolta una svastica. In un primo tempo svolse essenzialmente attività di polizia, poi si dedicò al contrasto dei partigiani, definiti “ribelli” o “banditi”. A gennaio entrò in scena anche la brigata nera pavese agli ordini del capo di stato maggiore, il tenente colonnello Arturo Bianchi, squadrista della prima ora. Sono loro a portare a segno i colpi più duri, soprattutto in Oltrepo, contro i partigiani. Tante, tantissime le azioni sanguinose di cui i nazi-fascisti si macchiano in questi mesi. Fra le più cruente il rastrellamento nella notte tra il 30 e il 31, quando i reparti di Sichereits e Gnr accerchiano Pozzol Groppo e sorprendono nel sonno, alle scuole, il comandante della Cornaggia, Alberto Ermes Piumati, il commissario Carlo Covini, il vice Lucio Martinelli, la fidanzata di Piumata, Anna Mascherini e i partigiani Fulvio Sala e Giovanni Torlasco. Per loro non ci sarà pietà. Ma neppure per Fiorentini. Catturato dai partigiani qualche giorno dopo la Liberazione, il famigerato e crudele capo della Sichereit venne imprigionato in una gabbia di legno ed esposto al pubblico ludibrio dal 28 aprile 1945 fino alla sua fucilazione, avvenuta per mano di un plotone partigiano della Brigata “Capettini”, il 3 maggio a Piane di Pietragavina (Varzi). Proprio dove, nel luglio 1944 aveva a sua volta fatto fucilare tre partigiani. (g.s.)

Corsi e ricorsi.

misogallo

Oreste Grani/Leo Rugens che nella vita ha anche avuto una “copia originale” (d’epoca e stampata a Londra) del Misogallo di Vittorio Alfieri. Che ovviamente, un giorno, mi sono dovuto vendere.