Qualcosa/qualcuno spunta nella seconda puntata del Memoriale Mori

Seconda puntata degli scritti del Generale del Ros

La verità sul dossier mafia-appalti – Il memoriale di Mario Mori


27 Ottobre 2021
La verità sul dossier mafia-appalti – Il memoriale di Mario Mori
Molti mi imputano il fatto di non avere avvertito l’autorità giudiziaria competente del tentativo di convincere l’ex sindaco di Palermo alla collaborazione. Del tentativo ritenni di dovere rendere edotte alcune cariche istituzionali. La dott. Liliana Ferraro, stretta collaboratrice di Giovanni Falcone al ministero della Giustizia, ne fu informata nel corso del mese di giugno 1992, sino dai primi approcci tentati dal cap. De Donno col figlio del Ciancimino; il magistrato ne parlò a sua volta col ministro Claudio Martelli e con il dott. Borsellino. Nel luglio 1992 avvisai personalmente il segretario generale di palazzo Chigi, l’avv. Fernanda Contri, che comunicò la notizia al presidente del Consiglio dei Ministri, Giuliano Amato. Nell’ottobre successivo ne parlai ripetutamente all’on. Luciano Violante, nella sua qualità di presidente della Commissione Parlamentare Antimafia.
Tutti questi contatti hanno avuto conferme da parte degli interessati nei dibattimenti processuali che mi hanno riguardato. Le personalità qui citate rivestivano cariche istituzionali e avevano funzioni che mi consentivano di riferire loro notizie riservate sulle indagini che stavo svolgendo. Se qualcuno di costoro, peraltro, avesse ravvisato qualche comportamento illecito nel mio comportamento, avrebbe avuto l’autorità, anzi l’obbligo, di denunciarlo immediatamente ai miei superiori, ovvero alle autorità politiche da cui dipendeva la mia scala gerarchica, ma questo non avvenne. La mia scala gerarchica, per suo conto, sulle indagini svolte, così come previsto, eseguì successivamente un’indagine amministrativa che si concluse senza rilevare elementi censurabili nella mia condotta. Rimane però il fatto di non avere informato la Procura della Repubblica di Palermo per un tentativo certamente non di routine che prevedeva, per me e De Donno, e questo deve essere chiaro, anche significativi rischi personali, visto che ci eravamo presentati con i nostri nomi e le nostre funzioni ad una persona legata strettamente ai “corleonesi”, avendogli precisato, dopo i primi approcci, che il nostro intento finale era quello di ottenere la cattura dei latitanti mafiosi di spicco.
Sarò esplicito sul punto: decisi di non avvisare la Procura di Palermo, in attesa della sostituzione prevista di lì a qualche mese del suo responsabile, dott. Pietro Giammanco, perché non mi fidavo della sua linearità di comportamento e ne spiego qui di seguito i motivi. Quando fui nominato, nel settembre 1986, comandante del Gruppo CC. di Palermo, provenivo dall’esperienza della lotta al terrorismo condotta dal Nucleo Speciale di PG del gen. Dalla Chiesa, dove si era capito che nelle indagini contro le maggiori espressioni di criminalità – terrorismo ma anche delinquenza organizzata di tipo mafioso – si doveva agire considerando il fenomeno nel suo complesso e non per singoli aspetti. Mi resi conto che a Palermo le Forze di Polizia operavano di norma per eventi specifici – solo con Giovanni Falcone ed il pool antimafia si era cominciato ad affrontare analiticamente il fenomeno mafioso – ottenendo risultati complessivamente inadeguati. Mancava la cultura dell’indagine di lungo respiro, preferendo il più facile risultato immediato ma senza prospettive, a un’azione che, portata in profondità, consentisse alla fine di raggiungere risultati realmente consistenti.
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Questo concetto d’azione, cioè il differimento della perquisizione dell’abitazione, sarà alla base dell’indirizzo d’indagine prospettato ai magistrati subito dopo la cattura di Salvatore Riina. Per tornare al mio arrivo a Palermo, mi parve presto chiaro che “cosa nostra” non si preoccupava tanto della cattura di qualche suo elemento, perché sempre sostituibile, ma temeva gli attacchi alle sue attività in campo economico, quelle cioè che le consentivano di sostenersi ed ampliare il proprio potere. Individuai non nelle estorsioni, il così detto pizzo, ma nella gestione e nel condizionamento degli appalti pubblici, il canale di finanziamento più importante dell’organizzazione. Dalle prime indagini, da me assegnate al cap. Giuseppe De Donno, si evidenziò la figura di Angelo Siino quale uomo di “cosa nostra” incaricato di gestire i rapporti con gli altri protagonisti dell’affare appalti.
Per la prima volta, con il sostegno convinto e fattivo di Giovanni Falcone, si sviluppò un’indagine specifica relativa alle turbative realizzate nelle gare degli appalti pubblici, partendo dagli interessi mafiosi. Emerse allora il fatto che dei tre protagonisti cointeressati (mafia, imprenditoria e politica) imprenditoria e politica, come sino ad allora ritenuto, non erano affatto vittime, ma partecipi dell’attività criminosa, concorrendo alla spartizione dei proventi illeciti.
Si arrivò così a risultati concreti addirittura prima, come sostenuto dallo stesso dott. Antonio di Pietro in dichiarazioni processuali, che l’inchiesta milanese “Mani pulite” prendesse corpo e producesse i suoi effetti pratici. Infatti, all’inizio di febbraio 1991, il dottor Falcone, nel lasciare il Tribunale di Palermo per il ministero della Giustizia, chiese di depositare l’informativa riassuntiva sull’indagine che era già stata preceduta da una serie di notazioni preliminari, redatte dal cap. De Donno su aspetti particolari dell’inchiesta, tra cui quelli relativi alle attività di politici apparsi nel corso degli accertamenti. Giovanni Falcone spiegò che la consegna formale fatta nelle sue mani ci avrebbe in parte protetti dalle polemiche che l’indagine avrebbe sicuramente creato. Appena ricevuta l’informativa, il dottor Falcone la portò al procuratore capo Pietro Giammanco.
Da quel 17 febbraio 1991, per mesi, malgrado le insistenze del cap. De Donno e mie, non si seppe più nulla dell’inchiesta, e questo anche se, il 15 marzo 1991, in un convegno tenutosi al castello Utveggio di Palermo, a proposito della nostra indagine, Giovanni Falcone avesse affermato: « … Si potrebbe dire che abbiamo fatto dei tipi di indagine a campione, da cui si può dedurre con attendibilità un certo tipo di condizionamento, ma l’indagine di cui mi sono occupato a Palermo, mi induce a ritenere che la situazione sia molto più grave di quello che appare all’esterno …»; e proseguendo: «Io credo che la materia dei pubblici appalti è la più importante perché è quella che consente di fare emergere come una vera e propria cartina di tornasole quel connubio, quell’ibrido intreccio tra mafia, imprenditoria e politica …». Il 2 luglio 1991, infine, furono emesse cinque ordinanze di custodia cautelare per quattro imprenditori siciliani più Angelo Siino.
Dopo pochi giorni tutti, a cominciare da “cosa nostra”, seppero i risultati raggiunti dall’inchiesta e soprattutto dove questa poteva portare, perché alla scontata richiesta degli avvocati difensori di conoscere gli elementi di accusa relativi ai propri patrocinati, invece di stralciare e consegnare esclusivamente gli aspetti documentali relativi ai singoli inquisiti, così come previsto dalla norma, venne consegnata l’intera informativa: 878 pagine più gli allegati.
Il procuratore Giammanco, addirittura, ritenne d’inviare l’informativa al ministro della Giustizia Claudio Martelli, iniziativa presa nell’agosto del 1991, provocando la reazione del ministro che, consigliato da Giovanni Falcone, la rispedì al mittente, rilevando e sottolineando l’irritualità della trasmissione di un atto di indagine che, in quanto tale, non poteva essere di competenza dell’autorità politica. Iniziò in quel periodo la crisi nei rapporti tra la Procura Palermo e il Ros. Nel marzo 1992 rientrò a Palermo, proveniente dalla Procura della Repubblica di Marsala, Paolo Borsellino, assumendo le funzioni di procuratore aggiunto.
Tra lo stupore generale, il procuratore Giammanco, non gli delegò la competenza delle indagini antimafia su Palermo e provincia. A riguardo appare oltremodo significativa l’affermazione, riportata nella recente sentenza della Corte di Assise di Appello di Caltanissetta (Borsellino quater), attribuita a Giuseppe “Pino” Lipari che, alla notizia del rientro del magistrato a Palermo, aveva sostenuto come il fatto avrebbe portato problemi a “quel santo cristiano di Giammanco ”. Il Lipari era un geometra palermitano che curava gli affari della “famiglia” corleonese. In quei primi mesi Paolo Borsellino divenne rapidamente il punto di riferimento di magistrati e investigatori impiegati nel contrasto alla mafia e continuò a mantenere costanti rapporti personali e professionali con Giovanni Falcone che il 23 maggio 1992, a Capaci, venne ucciso da una bomba che provocò anche la morte della moglie, il magistrato Francesca Morvillo, e di tre addetti alla sua scorta. Da quel momento l’attività di Paolo Borsellino assunse un ritmo quasi frenetico e continuò sino alla sua fine, avvenuta il successivo 19 luglio 1992.
(SECONDA PARTE – CONTINUA DOMANI)
Mario Mori

Il racconto del “carabiniere” Mario Mori va avanti. La puntata comparsa ieri mi sembra fortemente centrata sulla figura del magistrato Pietro Giammanco. 

Di questo personaggio Mori aveva una pessima opinione, tanto che arriva a dire oggi: “… in realtà avvisai tutti tranne Giammanco perché non mi fidavo di lui…”

Il carabiniere Mori, e questa è la prima vera notizia (comunque si sapeva già), non si fidava del vertice della magistratura a Palermo! Che Paese. 

E chi sano di mente non sarebbe stato almeno diffidente, sapendo che il magistrato era, come fosse stato un Vitalone in quelle terre, un “andreottiano di ferro” tramite lo stretto rapporto che, sin dagli anni Ottanta, il Giammanco intratteneva con Mario D’Acquisto, numero due della corrente andreottiana in Sicilia. 

In realtà Mario D’Acquisto (oggi è un brillante novantenne), quando diviene amico di Pietro Giammanco era un politico democristiano ma, se ben ricordo, della corrente fanfaniana. Come Salvo Lima (ammazzato il 12 marzo 1992), Giovanni Gioia e Vito Ciancimino. Poi passati a Giulio Andreotti.

Mario D’Acquisto è ancora vivo e delle cose di cui sente il dovere di ragionare Mori dovrebbe ricordare quasi tutto. D’Acquisto è stato un esponente democristiano coevo degli avvenimenti cui fa cenno il generale. Ma chi oggi ha voglia di andare a riesumare il cadavere della DC per capire quale nesso esistesse tra il pensiero di Giovanni Gioia che come si disse allora non batté ciglio e proseguì imperterrito nell’opera di assorbimento delle cosche mafiose nella DC sostenendo che il partito aveva bisogno di gente con cui coalizzarsi, di uomini nuovi perché “non si possono ostacolare certi tentativi di compromesso” e i gravi avvenimenti finanziari internazionali che interessarono la lira? Tanto per fare un riferimento alla complessità della fase di cui si scrive. E questo Gioia era il punto di riferimento e guida politico-spirituale di Lima, Ciancimino, D’Acquisto. Grovigli bituminosi, caro Mori, di cui è difficile interessi a qualcuno qualcosa nell’ora tragica della scelta del futuro presidente della Repubblica.

Parlo di oggi per i prossimi 100 giorni. 

Oreste Grani/Leo Rugens che scese a Palermo la prima volta nel 1966 e che ci tornò, decine di volte, nel periodo “qualificante” 1973 – 1976. Per dire che non scrivo di cose completamente estranee al vissuto.