Preparare “l’azione dell’illegalità della legalità” contro il buon uso della carità

Nel 2022 ricorre il centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini (PPP), del cui omicidio nel 1975 ho un ricordo vivido per la ferocia della descrizione della sua morte da parte dei giornali, avevo dieci anni e ovviamente nessuna conoscenza della sua prosa, che affrontai in quarta ginnasio a un anno dalla morte di Aldo Moro e dall’appello coraggioso di Papa Paolo VI affinché ne fosse risparmiata la vita. Forse non c’è legame tra i due omicidi, salvo l’essere avvenuti in ambiente romano, certo è che entrambi appartengono a un clima che nel 1968 PPP presagisce, come leggerete nel testo che segue e di cui vi segnalo il passaggio: “Il commento che il giornale clerico-fascista ha fatto a proposito di tale affermazione [il riferimento è a una lettera di Paolo VI ndr], è infatti uno di quei commenti che preparano l’azione dell’illegalità della legalità: il ripristino violento dell’ordine”. Sbalorditivo? Non proprio, giacché PPP avrà modo di ripetersi in quanto a previsioni del futuro, dimostrando una capacità di analisi, forse di informazioni, straordinario, nota la sua affermazione in merito alla conoscenza che possiede di certe verità ma delle quali non vuole dire nulla. Del resto, che un intellettuale così complesso, persino il titolo da lui scelto per la rubrica sulla rivista “Tempo”: “Il Caos” era una anticipazione del fiorire di studi e di modelli fisico matematici sul tema che avverrà di lì a poco, scrivesse sul principale quotidiano nazionale, il “Corsera”, indicava un tentativo di offrire al Paese una prospettiva intellettuale modernissima e antica nel contempo, una apertura sul futuro attraverso un ripensamento delle proprie radici culturali cristiane e contadine, popolari e intellettuali alla luce dello stravolgimento del tessuto sociale ed economico che il mondo stava vivendo.
Dopo che assere distrutto fu il suo corpo da parte di un presunto marchettaro con amicizie nere, ci penseranno i neri della P2 a distruggere l’autorevolezza del quotidiano di via Solferino.
L’articolo che riporto verte intorno al concetto di “carità”, quella virtù teologale sulla quale tanto insiste Papa Francesco quando sostiene la necessità di accogliere l’Altro per salvarlo dagli stenti o dalla morte. Molteplici sono i suoi interventi sul tema, presente anche in una enciclica di Benedetto XVI che chiude il post. Straordinaria continuità quella che lega il ragionamento di Paolo VI, Benedetto XVI e Francesco intorno alla parola “carità”, giacché per tutti e tre si lega al tema della giustizia esercitata dallo Stato attraverso le proprie leggi e in particolare la Costituzione. Leggete e sbalordite.
Respingo immediatamente le obbiezioni di chi volesse ciarlare di ingerenza dalla Chiesa nella politica, ci mancherebbe altro che non lo facesse, tanto più alla luce della inadeguatezza sempre più manifesta dei suoi rappresentanti – il vuoto in politica si riempie inevitabi lmente.
Politici sono gli interventi dei tre papi – circa Giovanni Paolo II non so che pensare del suo rapporto con la carità, ma mi aiuteranno gli amici lettori cui chiedo soccorso – interventi di attualità scottante alla luce del deserto politico nazionale e internazionale. Emerge infatti che la carità sia ai loro occhi un elemento strategico per il futuro dell’umanità, al pari dell’acqua o del pane e del riso, perché è l’amore che essa manifesta a esserlo.
Sorridi pure, caro lettore, ma dammi una ragione perché la ragione sia capace di costruire armi di ogni genere e non una pace duratura: “meglio cento giorni di trattative che un’ora di guerra” sentenziò l’abile Gromyko, come dargli torto, eppure…
Basta così, vi ringrazio per la pazienza e vi lascio alla lettura dei due straordinari e startegici documenti.
Alberto Massari
Le critiche del Papa
In un giornale di Roma, che oggi è espressione del cattolicesimo pre-giovanneo (per usare un eufemismo) è apparso un misterioso articolo (il 15 settembre), che nessun altro giornale, che io sappia, almeno fino al momento in cui scrivo, ha più ripreso. Il titolo di questo articolo, su tre colonne, in prima pagina, era: “Critiche di Paolo VI allo Stato e ai partiti”, il sottotitolo: “Il Papa scrive: la Costituzione può e deve essere riformata”. L’articolo era accompagnato da un commento: “Stato estraneo”.
Di cosa si tratta? Di una lettera di Paolo VI al Cardinale Giuseppe Siri, a proposito della 39a Settimana sociale dei cattolici, che si terrà in questi giorni a Catania. Il giornale romano precisa però: “Il documento reca la firma del Cardinal Segretario di Stato Amleto Giovanni Cicognani, ma i principî, le indicazioni e gli orientamenti che vi sono delineati rispecchiano fedelmente i più recenti sviluppi del pensiero politico sociale di Paolo VI”.
Tale precisazione è dunque contemporaneamente un’illazione. Volgarità questa, che non dipende dal fatto che l’articolista ha mancato di rispetto al Papa (per me, laico, il Papa non è una “Santità”, ma un uomo) ma perché, appunto, ha mancato di rispetto a un uomo: col disprezzo terroristico verso di lui, che hanno i servi del potere quando vien dato loro l’ordine di attaccare.
Sentitene un brano: “Il Papa prevede e giustifica addirittura che possa essere modificato l’ordinamento costituzionale del nostro Paese per seguire il ritmo della società in profonda e accelerata trasformazione. Questo principio fu già enunciato a Bogotà e si credeva che il Papa intendesse riferirsi esclusivamente all’arretrata e depressa condizione delle moltitudini dell’America Centrale e Meridionale. Invece sembra che sia tirata in ballo anche l’Italia attuale. L’Italia in cui il sottoproletariato sta per sparire e il lavoro industriale riscatta dalla miseria intere classi di lavoratori. Solo i partiti estremisti adoperano nella loro polemica propagandistica motivi che contrastano in modo evidente con l’attuale realtà italiana; ma, che si sappia, neppure da quella parte era stata finora formulata la richiesta di una immediata riforma costituzionale per sovvertire legalmente l’ordine della democrazia, formale o sostanziale che esso sia. Poiché il Papa ha detto anche questo: che in Italia la democrazia è solo formale”.
Questa straordinaria affermazione, “in Italia la democrazia è solo formale”, presupposto, come dice l’elegante articolista del giornale romano, di un sovvertimento legale dell’ordine della democrazia, è la proposizione-chiave dell’intera Lettera, stesa dal cardinal Cicognani e ispirata da Paolo VI (almeno quale appare dai brani anticipati dal giornale romano).
Non capisco come questa straordinaria affermazione abbia avuto, almeno finora, così scarsa eco nella stampa e nell’opinione pubblica: essa infatti non importa solo alla storia della Chiesa, ma alla storia dell’Italia e, direi, del mondo.
Il “sovvertimento legale” al posto della rivoluzione è, per esempio, l’idea-guida – ridotta alla massima semplificazione – della Nuova Sinistra americana: che ha portato l’America alle soglie e in un’atmosfera di guerra civile. Forse attraverso la mediazione del modello americano, anche parte del Movimento Studentesco parla di un “sovvertimento legale” piuttosto che di una rivoluzione: anche se tale “sovvertimento legale” richiede azioni illegali e, praticamente, rivoluzionarie (occupazioni, proteste, lotte di ogni tipo). Gli americani parlano di “anticorpi” di democrazia reale da far nascere nel tessuto della democrazia formale; in Italia (cfr. in “Quaderni Piacentini”, n. 35: “La politica ridefinita” di C. Donolo) si parla di società che si modifica e si sostituisce dentro se stessa, rivoluzionandosi al di fuori degli schemi (dunque non più fatali) della rivoluzione tecnologica e neocapitalistica.
In tutto il mondo (si veda il recente caso della Cecoslovacchia) sta presentandosi come primaria e urgente alle coscienze la necessità di una lotta per la “democrazia reale”. L”ordine della democrazia”, come dice il corsivista clerico-fascista del giornale romano, è una contraddizione in termini; è un eufemismo per “potere”.
Tutte le altre frasi, citate dalla lettera di Cicognani e Paolo VI, ruotano intorno a questa presa di posizione contro il “potere”. È vero, quelle frasi citate, per essere giudicate obiettivamente, devono essere lette nel contesto: ciò mi trattiene dal manifestare con parole più esplicite il mio entusiasmo (e anzi, non voglio escludere che il mio possa essere un abbaglio). Spero di leggere da qualche altra parte quella Lettera per intero. Perché, se il contesto completo di quella Lettera confermasse lo spirito delle frasi riportate, allora si tratterebbe di una Lettera capace di portare la Chiesa alle soglie e nell’atmosfera di uno scisma.
È forse per questo che, per qualche tacito accordo, la stampa ha ignorato (almeno finora: e credo che in seguito se non lo ignorerà certo lo minimizzerà) un documento così incredibile.
Parlo di “scisma” così come due o tre anni fa, quando nessuno usava ancora questa espressione, ho parlato di effettivo stato di “guerra civile” negli Stati Uniti. Purtroppo, e per fortuna, i fatti poi hanno confermato quella mia impressione: lo stato di guerra civile in America è sempre più incombente e sempre più chiaro alle coscienze, in America e nel mondo.
Io credo che dovremo prepararci, nel prossimo futuro, a pensare anche a un possibile stato di scisma per la Chiesa Cattolica, e averlo presente nella nostra coscienza.
Un Papa non può, senza conseguenze, affermare che una democrazia come quella italiana è “formale” e che bisogna lottare, sia pure legalmente (ma lo è possibile, sempre?), perché si trasformi in una democrazia reale. Di fronte ad affermazioni del genere si muovono i carri armati. Il commento che il giornale clerico-fascista ha fatto a proposito di tale affermazione, è infatti uno di quei commenti che preparano l’azione dell’illegalità della legalità: il ripristino violento dell’ordine. [Testo evidenziato da noi]
Non posso, mancando di capacità e di documenti, andare molto avanti con questo discorso, sul piano del commento politico. Sono perciò costretto a cambiare registro.
Che formulazione, non strettamente politica o teologica, dare dunque allo scisma, come guerra civile nella Chiesa?
Ricorrerò a San Paolo. Nella Prima Lettera ai Corinti, si legge questa stupenda frase (non tutto in Paolo è stupendo, spesso parla in lui il prete, il fariseo): “Restano fede, speranza e carità, queste tre cose: di tutte la migliore è la carità”.
La carità – questa “cosa” misteriosa e trascurata – al contrario della fede e della speranza, tanto chiare e d’uso tanto comune, è indispensabile alla fede e alla speranza stesse. Infatti la carità è pensabile anche di per sé: la fede e la speranza sono impensabili senza la carità: e non solo impensabili, ma mostruose. Quelle del Nazismo (e quindi di un intero popolo) erano fede e speranza senza carità. Lo stesso si dica per la Chiesa clericale.
Insomma il potere – qualunque potere – ha bisogno dell’alibi della fede e della speranza. Non ha affatto bisogno dell’alibi della carità. L’abitudine alla fede e alla speranza senza carità è un’abitudine difficile da perdere. Quanti cattolici, diventando comunisti, portano con sé la fede e la speranza, e trascurano senza neanche porsene il problema, la carità. È così che nasce il fascismo di sinistra.
Lo scisma verrebbe dunque a dividere la Chiesa Cattolica in due tronconi: nel primo resterebbero solo la fede e la speranza, cioè le due informi e cieche forze del potere; nel secondo resterebbero la fede e la speranza con la carità. (Unico modo per accorgersi, per tornare al nostro caso, se una democrazia è formale o reale). Paolo VI è il Papa di questo scisma potenziale e rinviato: che rende fatalmente, chi lo vive, ambiguo.
Paolo VI ha creduto, finora, di combattere questa ambiguità con lo strumento stesso dell’ambiguità, cioè la diplomazia. Ma la diplomazia è un modo “formale”, non “reale” di conciliare i contrari. E Paolo VI se n’è accorto. Privo dell’unica arma che egli avesse in mano, data la sua psicologia e la sua formazione, si trova ora letteralmente disarmato. Se mai, nel mondo moderno, si dovesse cercare un’immagine non retorica e convenzionale di un crocefisso, questa immagine potrebbe essere data da Paolo VI: non che egli assomigli a Cristo, neanche per idea. Tuttavia proprio perché il suo volto contraddice a quello di Cristo, egli è nel mondo moderno l’unica immagine metaforica possibile della crocefissione.
Finora Paolo VI è stato dunque vittima di una crisi della Chiesa che, con maggior violenza e rapidità, non poteva esplodere: vittima, ripeto, in quanto diviso in due, lacerato da uno scisma vissuto nella propria persona. Con quest’ultimo suo documento (che segue l’atto più infelice ed egli lo sapeva del suo Pontificato, ossia “Humanae vitae”) egli sembra decidersi a non essere più vittima passiva proprio perché fiduciosa in una mediazione diplomatica che si è invece rivelata impossibile e insostenibile. E sembra aver capito di avere davanti a sé soltanto due scelte reali, capaci di risolvere una volta per sempre la sua angosciosa impotenza: cioè o compiere il gran rifiuto, e lasciare il Papato, come Celestino V che è stato forse il più grande dei Papi (ma certamente il più santo); oppure scatenare lo scisma, distinguendo, con sé, dal clerico-fascismo la Chiesa Cattolica: ripristinando cioè, secondo l’insegnamento dell’apostolo di cui ha scelto il nome, la funzione primaria della carità.
Pier Paolo Pasolini
Articolo apparso nella rubrica “Il Caos” tenuta da PPP nella rivista “Tempo” n. 40, a. XXX, 28 settembre 1968
Giustizia e carità
26. Fin dall’Ottocento contro l’attività caritativa della Chiesa è stata sollevata un’obiezione, sviluppata poi con insistenza soprattutto dal pensiero marxista. I poveri, si dice, non avrebbero bisogno di opere di carità, bensì di giustizia. Le opere di carità — le elemosine — in realtà sarebbero, per i ricchi, un modo di sottrarsi all’instaurazione della giustizia e di acquietare la coscienza, conservando le proprie posizioni e frodando i poveri nei loro diritti. Invece di contribuire attraverso singole opere di carità al mantenimento delle condizioni esistenti, occorrerebbe creare un giusto ordine, nel quale tutti ricevano la loro parte dei beni del mondo e quindi non abbiano più bisogno delle opere di carità. In questa argomentazione, bisogna riconoscerlo, c’è del vero, ma anche non poco di errato. È vero che norma fondamentale dello Stato deve essere il perseguimento della giustizia e che lo scopo di un giusto ordine sociale è di garantire a ciascuno, nel rispetto del principio di sussidiarietà, la sua parte dei beni comuni. È quanto la dottrina cristiana sullo Stato e la dottrina sociale della Chiesa hanno sempre sottolineato. La questione del giusto ordine della collettività, da un punto di vista storico, è entrata in una nuova situazione con la formazione della società industriale nell’Ottocento. Il sorgere dell’industria moderna ha dissolto le vecchie strutture sociali e con la massa dei salariati ha provocato un cambiamento radicale nella composizione della società, all’interno della quale il rapporto tra capitale e lavoro è diventato la questione decisiva — una questione che sotto tale forma era prima sconosciuta. Le strutture di produzione e il capitale erano ormai il nuovo potere che, posto nelle mani di pochi, comportava per le masse lavoratrici una privazione di diritti contro la quale bisognava ribellarsi.
27. È doveroso ammettere che i rappresentanti della Chiesa hanno percepito solo lentamente che il problema della giusta struttura della società si poneva in modo nuovo. Non mancarono pionieri: uno di questi fu, ad esempio, il Vescovo Ketteler di Magonza († 1877). Come risposta alle necessità concrete sorsero pure circoli, associazioni, unioni, federazioni e soprattutto nuove Congregazioni religiose, che nell’Ottocento scesero in campo contro la povertà, le malattie e le situazioni di carenza nel settore educativo. Nel 1891, entrò in scena il magistero pontificio con l’Enciclica Rerum novarum di Leone XIII. Vi fece seguito, nel 1931, l’Enciclica di Pio XI Quadragesimo anno. Il beato Papa Giovanni XXIII pubblicò, nel 1961, l’Enciclica Mater et Magistra, mentre Paolo VI nell’Enciclica Populorum progressio (1967) e nella Lettera apostolica Octogesima adveniens (1971) affrontò con insistenza la problematica sociale, che nel frattempo si era acutizzata soprattutto in America Latina. Il mio grande Predecessore Giovanni Paolo II ci ha lasciato una trilogia di Encicliche sociali: Laborem exercens (1981), Sollicitudo rei socialis (1987) e infine Centesimus annus (1991). Così nel confronto con situazioni e problemi sempre nuovi è venuta sviluppandosi una dottrina sociale cattolica, che nel 2004 è stata presentata in modo organico nel Compendio della dottrina sociale della Chiesa, redatto dal Pontificio Consiglio Iustitia et Pax. Il marxismo aveva indicato nella rivoluzione mondiale e nella sua preparazione la panacea per la problematica sociale: attraverso la rivoluzione e la conseguente collettivizzazione dei mezzi di produzione — si asseriva in tale dottrina — doveva improvvisamente andare tutto in modo diverso e migliore. Questo sogno è svanito. Nella situazione difficile nella quale oggi ci troviamo anche a causa della globalizzazione dell’economia, la dottrina sociale della Chiesa è diventata un’indicazione fondamentale, che propone orientamenti validi ben al di là dei confini di essa: questi orientamenti — di fronte al progredire dello sviluppo — devono essere affrontati nel dialogo con tutti coloro che si preoccupano seriamente dell’uomo e del suo mondo.
28. Per definire più accuratamente la relazione tra il necessario impegno per la giustizia e il servizio della carità, occorre prendere nota di due fondamentali situazioni di fatto:
a) Il giusto ordine della società e dello Stato è compito centrale della politica. Uno Stato che non fosse retto secondo giustizia si ridurrebbe ad una grande banda di ladri, come disse una volta Agostino: « Remota itaque iustitia quid sunt regna nisi magna latrocinia? » [18]. Alla struttura fondamentale del cristianesimo appartiene la distinzione tra ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio (cfr Mt 22, 21), cioè la distinzione tra Stato e Chiesa o, come dice il Concilio Vaticano II, l’autonomia delle realtà temporali [19]. Lo Stato non può imporre la religione, ma deve garantire la sua libertà e la pace tra gli aderenti alle diverse religioni; la Chiesa come espressione sociale della fede cristiana, da parte sua, ha la sua indipendenza e vive sulla base della fede la sua forma comunitaria, che lo Stato deve rispettare. Le due sfere sono distinte, ma sempre in relazione reciproca.
La giustizia è lo scopo e quindi anche la misura intrinseca di ogni politica. La politica è più che una semplice tecnica per la definizione dei pubblici ordinamenti: la sua origine e il suo scopo si trovano appunto nella giustizia, e questa è di natura etica. Così lo Stato si trova di fatto inevitabilmente di fronte all’interrogativo: come realizzare la giustizia qui ed ora? Ma questa domanda presuppone l’altra più radicale: che cosa è la giustizia? Questo è un problema che riguarda la ragione pratica; ma per poter operare rettamente, la ragione deve sempre di nuovo essere purificata, perché il suo accecamento etico, derivante dal prevalere dell’interesse e del potere che l’abbagliano, è un pericolo mai totalmente eliminabile.
In questo punto politica e fede si toccano. Senz’altro, la fede ha la sua specifica natura di incontro con il Dio vivente — un incontro che ci apre nuovi orizzonti molto al di là dell’ambito proprio della ragione. Ma al contempo essa è una forza purificatrice per la ragione stessa. Partendo dalla prospettiva di Dio, la libera dai suoi accecamenti e perciò l’aiuta ad essere meglio se stessa. La fede permette alla ragione di svolgere in modo migliore il suo compito e di vedere meglio ciò che le è proprio. È qui che si colloca la dottrina sociale cattolica: essa non vuole conferire alla Chiesa un potere sullo Stato. Neppure vuole imporre a coloro che non condividono la fede prospettive e modi di comportamento che appartengono a questa. Vuole semplicemente contribuire alla purificazione della ragione e recare il proprio aiuto per far sì che ciò che è giusto possa, qui ed ora, essere riconosciuto e poi anche realizzato.
La dottrina sociale della Chiesa argomenta a partire dalla ragione e dal diritto naturale, cioè a partire da ciò che è conforme alla natura di ogni essere umano. E sa che non è compito della Chiesa far essa stessa valere politicamente questa dottrina: essa vuole servire la formazione della coscienza nella politica e contribuire affinché cresca la percezione delle vere esigenze della giustizia e, insieme, la disponibilità ad agire in base ad esse, anche quando ciò contrastasse con situazioni di interesse personale. Questo significa che la costruzione di un giusto ordinamento sociale e statale, mediante il quale a ciascuno venga dato ciò che gli spetta, è un compito fondamentale che ogni generazione deve nuovamente affrontare. Trattandosi di un compito politico, questo non può essere incarico immediato della Chiesa. Ma siccome è allo stesso tempo un compito umano primario, la Chiesa ha il dovere di offrire attraverso la purificazione della ragione e attraverso la formazione etica il suo contributo specifico, affinché le esigenze della giustizia diventino comprensibili e politicamente realizzabili.
La Chiesa non può e non deve prendere nelle sue mani la battaglia politica per realizzare la società più giusta possibile. Non può e non deve mettersi al posto dello Stato. Ma non può e non deve neanche restare ai margini nella lotta per la giustizia. Deve inserirsi in essa per la via dell’argomentazione razionale e deve risvegliare le forze spirituali, senza le quali la giustizia, che sempre richiede anche rinunce, non può affermarsi e prosperare. La società giusta non può essere opera della Chiesa, ma deve essere realizzata dalla politica. Tuttavia l’adoperarsi per la giustizia lavorando per l’apertura dell’intelligenza e della volontà alle esigenze del bene la interessa profondamente.
b) L’amore — caritas — sarà sempre necessario, anche nella società più giusta. Non c’è nessun ordinamento statale giusto che possa rendere superfluo il servizio dell’amore. Chi vuole sbarazzarsi dell’amore si dispone a sbarazzarsi dell’uomo in quanto uomo. Ci sarà sempre sofferenza che necessita di consolazione e di aiuto. Sempre ci sarà solitudine. Sempre ci saranno anche situazioni di necessità materiale nelle quali è indispensabile un aiuto nella linea di un concreto amore per il prossimo [20]. Lo Stato che vuole provvedere a tutto, che assorbe tutto in sé, diventa in definitiva un’istanza burocratica che non può assicurare l’essenziale di cui l’uomo sofferente — ogni uomo — ha bisogno: l’amorevole dedizione personale. Non uno Stato che regoli e domini tutto è ciò che ci occorre, ma invece uno Stato che generosamente riconosca e sostenga, nella linea del principio di sussidiarietà, le iniziative che sorgono dalle diverse forze sociali e uniscono spontaneità e vicinanza agli uomini bisognosi di aiuto. La Chiesa è una di queste forze vive: in essa pulsa la dinamica dell’amore suscitato dallo Spirito di Cristo. Questo amore non offre agli uomini solamente un aiuto materiale, ma anche ristoro e cura dell’anima, un aiuto spesso più necessario del sostegno materiale. L’affermazione secondo la quale le strutture giuste renderebbero superflue le opere di carità di fatto nasconde una concezione materialistica dell’uomo: il pregiudizio secondo cui l’uomo vivrebbe « di solo pane » (Mt 4, 4; cfr Dt 8, 3) — convinzione che umilia l’uomo e disconosce proprio ciò che è più specificamente umano.
Lettera ecnciclica, Deus Caritas Est, del Sommo Pontefice Benedetto XVI
PPP: il poetucolo della P al cubo
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«Pasolini è morto per il suo vizio […] posseduto dal suo vizio […] non era una cosa solo sessuale ma una cosa che impregnava e dominava la sua vita […] cercava di essere lapidato», Pietro Citati al minuto 18:44 di “Soul” Intervista a Pietro Citati Puntata del 3 gennaio 2015. Quindi anche l’insospettabile Citati concorda sostanzialmente con Zigania.
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Una miniera a cielo aperto non sa che l’Onnipotente elargisce I suoi diversi talenti agli uomini più diversi secondo imperscrutabili motivi? Non guarda se sono viziosi o asceti , etero, gay, lesbiche, bisessuali,onanisti, metrosexuals, asessuali, pansessuali (io personalmente oltre le belle donne ,cupidigia ,ahi me, pochissime volte soddisfatta, nutro anche una passione per la carbonara fatta con il guanciale di maiale e il pecorino romano) ;battute a parte ,Pasolini aveva una intelligenza visionaria e profetica ma aveva anche un vizio o debolezza :sarebbe potuto morire suicida per amore di una donna, come holderlin, o consunto dalla sifilide ( o l’aids) per un rapporto occasionale con una prostituta o un marchettaro ,accoltellato da un magnaccia per non aver pagato la somma patuita con la sua protetta ,ucciso per un debito non pagato in una bisca clandestina oppure come soldato di ventura in guerra ,alcolista o per overdose di stupefacenti ! Ci sono due tipi di commenti insopportabili :il primo di chi afferma che un “frocio ” ha fatto una naturale fine da “frocio ” ,come se fosse normale morire in quel modo, e IL secondo invece parla di omicidio politico depistato da movente passionale …per questi ultimi é difficile ammettere che l’intellettuale di sinistra ,elegante,pieno di soldi e con il macchinone, pretendeva un rapporto completo da un povero sub proletario che era stato abbordato tramite una spaghettata aglio, olio o peperoncino e magari condita da qualche ulteriore promessa per la quale non era ammesso nessun tipo di rifiuto! ; io ignoro come siano veramente andate le cose in quel idroscalo ma non mi sono mai piaciute le conclussioni preconfezionate per partito preso.
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Guardi che PIETRO CITATI – l’autore di quel commento sul poetucolo della P al cubo – è VIVO & VEGETO quindi mi attendo che Lei indirizzi la sua glossa a costui. Ovviamente non lo farà in quanto il CITATI fa parte della onusta cricca adelphiana INTOUCHABLE, INSCALFIBILE, in quanto celebrata da una congerie di cerebrolesi che punto hanno capito di cosa si tratta DAVVERO. Costoro si permettono di dire e scrivere così inaudibili. Distinti saluti e buona fortuna per la sua Critica al Citati.
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😊 (nemmeno a me) 😊
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