Secondo Stefania Limiti (e non solo), in via Fani, durante il rapimento Moro, era parcheggiata un’autovettura (targa Rm T50354) in dotazione dei servizi segreti.

Fani 1

Giustamente, Stefania Limiti non molla e, forte del pensiero strategico che sostiene che “solo nella verità si può fare pace”, continua a fornire, a tutti noi, notizie e ragionamenti logici (li chiamerei. addirittura, “prove logiche”!) su come, anche in Via Fani, per rapire Aldo Moro, potrebbero aver agito le strutture di “doppio livello” dello Stato (tipo “Anello”) che altre volte, erano entrate in azione o, comunque, avevano “vigilato”, quasi supervisionato, perché tutto potesse andare come “doveva andare” durante stragi o esecuzioni di servitori dello Stato. Non sono nessuno se non uno che, ad esempio, c’era, in quegli anni e che, essendoci stato, ha conosciuto benissimo il questore Domenico (Mimmo) Spinella, in quelle ore di via Fani, Capo della Digos di Roma. Fin che vivrò, perciò, sosterrò la assoluta estraneità di un funzionario democratico quale era Spinella a qualunque “doppio livello” ci fosse dietro al rapimento Moro. Se c’è stato questo “lato oscuro”, non coinvolgeva certamente gli uomini impegnati, sul campo, quotidianamente e senza mezzi adeguati, nella caccia ai terroristi. Per il resto, vista la conoscenza (per motivi di giustizia pregressi al rapimento Moro) esistente tra Valerio Morucci e il colonnello dei CC (poi generale) Antonio Cornacchia Tessera P2 871; vista la personalità ambigua di Mario Moretti; visto tutto il mondo internazionale (prevalentemente “est/KGB/DDR/STASI” e non “ovest/CIA”, dottoressa Limiti!) che ruotava intorno ad Hyperion/Parigi, tutto è possibile. Comunque, in spirito di servizio e di simpatia nei confronti dell’attività civile e professionale di Stefania Limiti, voglio aggiungere, al macroscopico e variegato dibattito intorno a quei 55 giorni, alcune considerazioni.

Il furgone del fioraio Antonio Spiriticchio fu messo fuori uso, la sera precedente l’assalto, non tanto perché non parcheggiato nel solito luogo non interferisse, con il suo ingombro, con le eventuali traiettorie di fuoco ipotizzate dai brigatisti in fase di stesura del piano teorico, traiettorie pensate partenti da una sola “sorgente” (a sinistra) e angolazione, ma, perché, il fioraio stesso non potesse divenire un testimone attendibile delle dinamiche che avrebbero preceduto l’attacco, con riconoscimenti di volti e ruoli durante l’azione. La geometria esecutiva e l’addestramento militare dei brigatisti selezionati per l’attacco al cuore dello stato, a mio giudizio, non sono mai esistiti.

Personaggi anche di spicco del gruppo di fuoco (quale, ad esempio, era Valerio Morucci), mi risulta che avevano appreso quel poco che sapevano delle complessità implicite nella guerra rivoluzionaria a cui si erano votati senza, mi sembra di ricordare, aver fatto neanche il militare di leva. Comunque, certamente, anche dei non “militari” quali erano le donne e gli uomini delle BR, conoscevano, almeno teoricamente, il problema del fuoco amico.

E così deve essere stato quando fu preparato il piano sotto la regia del “maniacale” (badava ai dettagli) Mario Moretti. Durante l’esecuzione, i brigatisti/avieri, Morucci, Fiore, Gallinari, Bonisoli spararono con una percentuale di raggiungimento dei bersagli normale e non particolarmente elevata come si tese a dire (“Quel gruppo armato aveva compiuto una vera prodezza, un’azione militare perfetta, come non ne avevo mai viste prima” affermazione di Steve Pieczenik, americano, recente reo confesso, per le attività destabilizzanti messe in atto in quei giorni nel nostro Paese) disinformando l’opinione pubblica.

Tenenete conto, inoltre, che le armi automatiche, mal preparate e senza una vera e professionale manutenzione preventiva dai super esperti “militari” br, si incepparono quasi tutte.

I quattro fecero fuoco tutti da sinistra verso destra, spostandosi rapidamente e sostenuti psicologicamente, per poter contrastare la naturale “paura” durante l’assalto, da qualcosa che invece era presente in abbondanza in quel tipo di “militante politico” e cioè il convincimento e la “fede” che era loro “dovere” compiere gli atti che compivano. Questo sì, a mio parere, fu un elemento qualificante tutta l’azione di via Fani: l’effetto sorpresa e, soprattutto il gap motivazionale tra attaccanti e difensori. Così come fu (altro esempio di effetto sorpresa) a Piazza Nicosia, durante l’assalto sanguinoso al Comitato Romano della Democrazia Cristiana, nel 1979.

Fani

Tornando a via Fani, i quattro avieri/br, si spostarono di pochi metri (non più di quattro e in due/tre secondi) verso il centro della strada (che era di soli dieci metri) ritrovandosi a ridosso delle vetture dove erano presenti la scorta e Aldo Moro. Spararono da molto vicino non c’entra il super addestramento. Qui sento il dovere di suggerire un amaro elemento di riflessione: oltre a mille altre cose, come è legittimo fare e come fa benissimo Stefania Limiti a continuare a fare, è necessario non rimuovere (non certo per offendere la memoria dei militari caduti) le considerazioni sull’inesperienza sostanziale dimostrata dalla scorta che non solo non risultò pronta ad una prova difficile ma, come storicamente è dimostrato (dislocazione delle armi e assenza di giubbotti antiproiettile), non addestrata neanche teoricamente. Questo, mi fa dolore doverlo dire ancora oggi, vista l’assoluta assenza di reazione: nulla evidentemente di adeguato era stato fatto per addestrare gli uomini ad una emergenza purtroppo prevedibile. Inoltre, su ventotto auto blindate che in quel momento erano a disposizione di personaggi politici, obiettivi possibili del terrorismo, qualcuno decise che Aldo Moro e la sua scorta non dovevano essere protetti da una di quelle costosissime vetture.

Questa ratio suicida, gentile dottoressa Limiti, dobbiamo continuare a chiedere che ci venga spiegata. Anche se oggi fosse morto il funzionario, avremmo il diritto di sapere a “chi” ascrivere la formulazione dell’elenco dei privilegiati degni di auto blindata e, soprattutto, perché Moro non era tra questi.

Così come continuo a suggerire la domanda che, un giorno, de visu le ho suggerito di porsi: chi diede l’ordine di arrestare Luigi Rosati (marito separato di Adriana Faranda), poche settimane prima dell’esecuzione del rapimento del Capo del Governo e pochi giorni prima dell’inizio delle esercitazioni sul campo (sopralluoghi in via Fani, 22/23 febbraio 1978) dei BR ? Come ho scritto in altri post, Luigi Rosati e Giancarlo Davoli, erano le lepri predisposte, in coordinamento con il questore Domenico Spinella, Capo della DIGOS romana, per provare ad arrestare, al momento opportuno, Adriana Faranda, Valerio Morucci, Mario Moretti, Barbara Balzerani prima che “qualcosa di grosso potesse accadere”. Prima, o subito dopo il 16 marzo 1978, si sarebbe potuto “tirare la rete”. Altro che infiltrazioni d’acqua a via Gradoli.

Così come continuare a rimuovere (non glielo mai sentito/visto evidenziare) che, nelle settimane precedenti il rapimento, Lanfranco Pace, brigatista irregolare (oggi suo collega giornalista e, temo, pensionato CASAGIT), anello di congiunzione tra la coppia Morucci/Faranda latitanti e le istituzioni repubblicane di area socialista, giocasse a poker con il ministro Claudio Signorile, mi sembra una distrazione investigativa in cui non deve cadere una valente specialista della complessità quale lei continua a dimostrarsi essere. Anche perché se in pochi (forse lei sola) siete riusciti a individuare figure complesse e semi-sconosciute quali Salvatore Spinello, membro della Direzione nazionale PSI e massone affettivamente legato ad Anita Garibaldi, chiedersi, forse, con maggiore determinazione, chi sia stato in realtà e quali giuramenti (oltre a quelli ovvi alla Repubblica Italiana) abbia formulato nella sua vita, il pokerista Claudio Signorile, non sarebbe inutile.

i 4 del poker

Ritengo che il Prefetto a cui fa cenno nelle sue considerazioni sia Vittorio (non Angelo) Stelo.

Per il resto, e in particolare, quanto scrive (targhe e altro) sotto il titolo “L’auto dei servizi che ostacolò quella di Moro in via Fani”, è lecito ipotizzare tutto. Tanto è vero che  ri-bloggo integralmente i suo pezzo. Con stima e simpatia.

OresteGrani/Leo Rugens.

P.S. oltre alla Austin Morris RM T 50354, parcheggiata volutamente a destra (scendendo) perché, ipotizza Stefania Limiti – la dislocazione limitrofa allo stop (parcheggiata male – aggiungo io – senza apparente capacità di guida, a ben 80 cm. dal marciapiede), rendesse difficile l’eventuale manovra di svincolo della 130 di Moro, si può vedere, nella foto che pubblico, una “Mini Cooper” verde, con il tetto nero. Intorno a questa vettura si sono raccontate non poche cose nelle ore successive l’attacco: si era ipotizzato, ad esempio, che contenesse un ordigno devastante che, se fosse stato attivato con comando a distanza (questa sì una tecnica militare!), avrebbe fatto, visto l’affollamento di investigatori ed autorità, almeno “trecento morti”. Capisco lo sgomento, capisco l’impreparazione delle forze dell’ordine, capisco anche una stampa di dilettanti sempre pronti ad attaccare l’asino dove il padrone voleva ma, rimane difficile da credere che questa storia della bomba ad alto potenziale e radiocomandata (eravamo nel marzo del 1978!) fosse stata inventata di sana pianta da professionisti tipo Roberto Chiodi e Salvatore Giannella che ne scrissero sul settimanale L’Europeo n° 13 del 1978, sotto il titolo “16 marzo 1978: Via Fani”.

Le smentite d’epoca, le conosco tutte. Sono interessato, viceversa, a sapere se ci sia anche solo un “respiro” intorno a quella Mini Cooper verde con tettuccio nero. Questo blog è interessato ad avere il ben che minimo indizio su quella “Mini” e sulle storie che circolarono all’ora. Se trovassimo un riscontro attendibile, allora sì che la brava e determinata Stefania Limiti avrebbe fatto centro, rivelando quale fosse la reale geometria terroristica devastante dell’episodio “doppio”. Trappola ipotizzata per un vero “uno/due”, tale da mettere KO la democrazia già fragile, in quei frangenti geopolitici. “Doppio livello” quindi, pronto, se gli scalzacani raccogliticci (comunque reclutati e ben orchestrati, per la bisogna, dal compagno Mario Moretti) avessero mancato l’obiettivo. Vista la straordinaria e fortunata esecuzione del piano previsto nel primo livello (rapimento Moro e annientamento crudele della scorta), chi di dovere, forse, decise di non attuare la strage preparata a copertura del secondo livello. Questo sì nella logica del circuito di sicurezza (preparare “criminali politici” a tutti gli effetti capaci di perpetuare un grave episodio ma raggiungere il vero obiettivo con un “doppio livello”) ogni volta attuato (da Piazza Fontana fino a Falcone) perché la “paura” fosse determinante per indirizzare le scelte politiche del Paese rendendolo, così, sempre meno sovrano e protagonista di una propria autonoma politica estera. Oppure, questa storia della “mini cooper con il tettuccio nero” e dell’ordigno disinnescato (ricordo le smentite del tempo ma non a quelle sono interessato) fu, da subito, una grandissima bufala e allora lasciamo perdere. Viceversa, potremmo scoprire chi fosse l’autore della “disinformatio” e della pericolosa “misura attiva” costruita intorno a quella “mini”. Comunque la giriamo, questa storia del rapimento e della esecuzione di Aldo Moro, rimane una pagina oscura del nostro convivere e della guerra civile italiana strisciante ancora non risolta. Altro che “The Iraq war ten years after”, esempio di documenti a cui è concesso di accedere, negli USA, dopo solo dieci anni dagli avvenimenti!

Come in tutto il resto, anche in questo, Matteo Renzi sembra fare solo chiacchiere e secchiate d’acqua.

P.P.S. Riporto l’intervento integrale di Stefania Limiti che mi ha dato occasione per scrivere il post:

L’AUTO DEI SERVIZI CHE OSTACOLO’ QUELLA DI MORO IN VIA FANI

Stefania Limiti, da poco in libreria col suo ultimo libro “Doppio Livello – Come si organizza la destabilizzazione in Italia” (ed. Chiarelettere), ci racconta un particolare esclusivo sul rapimento di Aldo Moro a 35 anni dalla scomparsa dell’ex presidente della DC.

Torniamo a via Mario Fani dove il 16 marzo del 1978 fu rapito Aldo Moro e assassinati gli uomini della sua scorta.
Si è sempre detto che quella mattina c’era un sacco di gente in quella via, malavitosi (Giustino De Vuomo?) e gente di apparato (di sicuro c’era Camillo Guglielmi, addestratore del gladiatore Ravasio), e poi non si sa ancora chi. L’ex generale del Sismi Ambrogio Viviani, raccontando la pratica del controspionaggio di sorvegliare le personalità politiche, si disse convinto che Moro fosse sorvegliato “anche nel momento in cui rapito, il che spiegherebbe la presenza, secondo alcuni testimoni, di persone estranee in via Fani: Moro era sorvegliato da agenti dei servizi segreti, una sorta di protezione occulta da parte di uno o due agenti in borghese, che non si fanno vedere”. (L’Indipendente, 30 novembre 1999).
fotoalto.jpg Quella mattina la Fiat 130 su cui viaggiava Moro e l’Alfetta della sua scorta imboccarono la parte alta di via Fani, lasciando via Trionfale. Giunsero poi all’altezza dell’incrocio di via Stresa e lì si trovarono di fronte una Fiat 128 targata corpo diplomatico: si è sempre detto che quest’auto fu tamponata dall’autista di Moro, in realtà non vi fu alcun tamponamento intenzionale che avrebbe potuto alterare la dinamica dell’azione, dando tempo agli uomini della scorta di reagire (come spiega anche Mario Moretti nel suo libro intervista). La 128 si fermò regolarmente allo stop e contemporaneamente i brigatisti, appostati dietri le siepi del bar Olivetti, aprirono il fuoco.

Forse non tutti ricordano che quella mattina, proprio in quel fatale angolo di via Stresa, era parcheggiata un’auto che impedì all’autista della 130 su cui viaggiava il presidente della Dc di tentare una più agile manovra per eludere la Fiat 128 che gli si era posta di fronte (quella guidata dal commando della Br). Racconta Valerio Morucci: “la presenza casuale [il corsivo è nostro] di una Mini [in effetti una Austin morris] all’angolo di via Fani con via Stresa fu fatale per Aldo Moro” (Ansa, 11 dicembre 1984). Quando l’autista del presidente Dc si rese conto di trovarsi al centro di un agguato, tentò istintivamente di spingere l’acceleratore e trovare una via di fuga ma la manovra gli fu impossibile. L’Aston morris gli sbarrò la strada. La trappola era scattata: i mitra dei brigatisti già avevano cominciato a sparare, i cinque uomini della scorta vennero annientati e Moro finì nelle mani del commando.
fotoalto2.jpg Proprio nel posto in cui casualmente era parcheggiata quell’auto, ogni giorno, sin dalle primissime ore del mattino, sostava il furgone del fioraio Antonio Spiriticchio. Pur di toglierlo di torno, la sera prima dell’agguato gli astuti brigatisti avevano provveduto a bucare le quattro ruote del mezzo: la mattina successiva il venditore di fiori, intento a riparare il danno, non potè svolgere i suoi soliti commerci e non occupò l’abituale angolo di strada. Ciò detto, il posto da lui involontariamente lasciato libero non fu protetto dagli organizzatori dell’agguato, tanto che non era affatto vuoto ma occupato da quell’auto a cui fa riferimento anche Morucci e che è ben visibile dalle prime foto ufficiali (invio foto per link). Se è comprensibile il motivo per cui le Br non volevano trovarsi in mezzo il malcapitato fioraio e il suo furgone, tuttavia è del tutto logico pensare che quel posto fu “protetto”: cosa poteva capitare se fosse stato occupato da un mezzo più alto di quello del fioraio, da cui sarebbe stato più difficile se non impossibile sparare. E come sarebbe andata se un’altra auto si fosse fermata, magari con persone a bordo? Sarebbe andato tutto a monte: per questo è assolutamente certo che l’Austin morris è lì perché così era stato previsto, cioè che essa è stata parte dell’operazione. Ma non basta.
La novità, ricostruita grazie al prezioso contributo di un ricercatore di Bologna, è che l’auto, la cui targa è ben visibile (RomaT50354) era stata acquistata un mese prima dell’operazione Moro da una società immobiliare di nome Poggio delle Rose che aveva sede nella capitale, sapete dove? In Piazza della Libertà 10, esattamente nello stabile nel quale si trovava l’Immobiliare Gradoli di cui ci raccontarono uno scoop del giornalista del mensile Area Gianni Pellizzaro e il fondamentale libro di Sergio Flamigni Il covo di Stato (Kaos, 1999).
In breve: fu provato che quell’edificio veniva usato per le sedi coperte dei servizi segreti. L’immobiliare Gradoli spa, proprietaria di alcuni appartamenti del civico 96 nell’omonima strada romana dove è stato ritrovato durante i 55 giorni il covo-prigione delle Br, era gestita da fiduciari del Servizio civile. Nel ’79 l’allora funzionario del Viminale Vincenzo Parisi – poi capo del Servizio (’87) e capo della Polizia (’87) – divenne intestatario di un box nello stesso garage al n. 75 di via Gradoli dove Mario Moretti fino ad un anno prima aveva parcheggiato i mezzi delle Br. (Flamigni, pag. 147) La società Fidrev, azionista di maggioranza dell’immobiliare Gradoli, svolgeva assistenza tecnico-amministrativa per il Servizio civile attraverso la Gus e la Gattel, società di copertura del Sisde. Come spiegò il prefetto Angelo Stelo durante una audizione in Commissione Stragi: “Le uniche società di copertura che il SISDe può legittimamente affermare di aver avuto sono la GUS e la GATTEL, debitamente autorizzate dai Ministri dell’epoca ed effettivamente società di copertura”. (25 novembre 1998).
fotoalto3.jpg Scopo sociale dell’immobiliare Gradoli era “l’acquisto, la vendita e la permuta di fabbricati e beni immobili in genere, la costruzione in economia e con appalto di edifici civili e industriali, gestione e conduzione degli immobili”, quello della società Poggio delle Rose era molto legato al settore del turismo: “costruzione, compera, vendita, prendere e dare in gestione alberghi e villaggi turistici [il corsivo è il nostro], locali pubblici, quali ristoranti, bar, night, negozi di qualsiasi genere, stazioni di servizio, stabilimenti balneari e qualsiasi altra attività che abbia anche una minima attinenza con il turismo”. Le attività furono infatti poi spostate verso l’area delle Marche e la società fu liquidata a Porto Recanati, località in provincia di Macerata, da un signore che oggi, interpellato su Poggio delle Rose, dice bruscamente che è passato troppo tempo e di non volerne sapere niente.
Nel linguaggio di Morucci non sappiamo cosa significhi casualità. Infatti, come è stato accertato dalle perizie (processo Moro quater), da dietro l’Austin morris partirono almeno due raffiche molto lunghe di colpi di mitra dirette contro l’Alfetta, l’auto della scorta di Moro. La presenza di quell’auto, affidata da Morucci al caso, non può essere stata un accidente, visto che servì ad impedire la manovra forse decisiva della 130 di Moro e a coprire la presenza di tiratori che spararono da sinistra agli agenti che lo accompagnavano: impossibile che si appostarono per caso dietro l’auto, impensabile che la via di fuga fu bloccata grazie ad una fortunata fatalità – a meno che la geometrica potenza dell’operazione Moro non fu niente altro che il frutto di perfette ma inattese coincidenze.

Pur non occultata – c’erano le foto – occorre a questo punto notare che la presenza dell’Austin non ha mai assunto nessuna rilevanza nelle ricostruzioni successive: come se fosse stata opportunamente sfilata dalla scena del crimine, sottratta alla ricostruzione ufficiale del caso, sbianchettata dal quadro. Se ricomponiamo l’immagine, troviamo un’altra conferma del doppio livello dell’operazione di Via Fani, pianificata da menti diverse, ciascuna portatrice di un suo interesse, tutte convergenti nell’obiettivo di far sparire Aldo Moro dalla scena italiana.

9 maggio 2013 da cadoinpiedi.it