Il giorno dopo il 70° anniversario della fine dell’Olocausto

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Ieri, 27 gennaio 2015, come immagino  abbiano fatto altre persone, ho ipotizzato di lasciare nel web pensieri  sufficienti a oscurare (ma non a rimuovere o far dimenticare) quanto il super negazionista (di fatto di questo si tratta) soprintendente ai beni architettonici del Piemonte, Luca Rinaldi, a Torino ha detto (e tentato di fare) a proposito di Primo Levi e del vagone ferroviario che è stato a suo tempo salvaguardato ed esposto proprio per ricordare ai torinesi (e non solo a loro) la “dimensione” e le “dinamiche” del fenomeno “Olocausto”.

Il super negazionista voleva far sgombrare il “veicolo” (definito da lui baraccone) e con esso ciò che significa.

Andiamo oltre ma non rimuoviamo il fatto che esistono personaggi di questo “calibro” pagati dallo Stato.

Ieri sono state utilizzate milioni di parole per provare a descrivere ciò che è accaduto 70 anni addietro.

Scelgo di postare il mio contributo – perché l’oblio sia sconfitto – il giorno dopo la ricorrenza per provare a non limitare a solo quella giornata al ricordo di quanto realmente  accaduto. Pubblico, oltre che un insieme di parole, anche alcune foto ritraenti Sam Pivnik e più avanti spiego il perché, sperando così di fare cosa utile alla Pace e al mai più ripetersi di quanto è stato possibile che accadesse. Le foto che ho scelto mi suggeriscono una riflessione sullo strettissimo rapporto esistente tra ciò che i tedeschi (e non solo loro) hanno fatto agli ebrei, agli omosessuali, ai massoni, ai rom, ai diversamente abili, a chiunque non la pensasse come loro culturalmente e politicamente e quanto, da quel momento in poi, è stato necessario che accadesse, con e dopo, la nascita di Israele.

Con questo non provo  a giustificare i troppi errori che oggi si commettono in Israele. Anzi. Ma, se non si trova una soluzione a questo groviglio di cause ed effetti, ogni giorno saremo nuovamente spettatori di aggressioni e odi senza fine. Parigi docet.

Tra le mille e mille storie eroiche e strazianti che segnano la memoria collettiva rispetto all’Olocausto, quest’anno voglio lasciare nel web l’indicazione di leggere (e così approfondire) la storia di un’uomo straordinario, per coraggio e capacità di agire che, in piena consapevolezza dei rischi che correva, si fece “passare per ebreo”. Non è la storia di milioni di ebrei catturati contro la loro volontà. È il racconto fedele di un segmento di vita (unica ed irripetibile) che vede Denis Avey, un “non ebreo“, farsi ebreo, per capire fino in fondo cosa stava succedendo ad Auschwitz dove si trovava anche lui prigioniero ma nella veste semplice (si fa per dire) di un soldato inglese prigioniero costretto a lavorare. Apparentemente, non in pericolo di vita. Lavorava di giorno, fianco a fianco con gli ebrei. Poi un giorno decide ed…entra ad Auschwitz, di sua volontà. È possibile immaginare che qualcuno si sia introdotto volontariamente ad Auschwitz? Eppure, nel 1944, un uomo è stato capace di farlo. Come vi ho anticipato, Denis Avey è un prigioniero di guerra inglese, che durante il giorno è costretto ai lavori forzati insieme ai detenuti ebrei. Gli basta poco per capire quale sia l’orrore che attende quegli uomini, consunti e stravolti, quando la sera fanno rientro al loro campo. Quello che intuisce è atroce, ma Denis sente di voler vedere con i propri occhi: in un gesto che pare folle, decide di scambiare la sua divisa da militare con gli stracci a righe di un ebreo di nome Hans, ed entrare nell’inferno di Auschwitz. Da quel momento ha inizio la sua lotta per salvare la propria vita e quella di tanti altri prigionieri ebrei. Una storia scioccante e commovente che, a più di sessant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale, Denis Avey ha finalmente trovato la forza di raccontare. Per testimoniare, ancora una volta, l’orrore dell’Olocausto.

Alla fine del post trovate alcune pagine iniziali del libro che, fuori ed oltre le luci accese della “Giornata della Memoria”, potete decidere di comprare e leggere.

Vi ricordo un’altro dei miei  protagonisti preferiti di quelle vicende tragiche: Sam Pivnik, di cui altre volte ho citato la drammatica storia. Oggi, il giorno dopo il giorno dedicato a non dimenticare l’Olocausto, lo voglio ricordare oltre che quale autore del libro “L’ultimo Sopravvissuto“, come soldato combattente durante la Guerra di Indipendenza del 1948 per la difesa del nascente Stato di Israele.

L'ultimo sopravvissuto - Una storia vera. La testimonianza del bambino che da solo sfuggì agli orrori dell'Olocausto

Chi era scampato alla ferocia tedesca che altro avrebbe dovuto fare se non armarsi e combattere perché mai più altri ebrei si potessero trovare esposti alla crudeltà di altri eventuali nuovi persecutori? Per questo, tra l’altro, esiste Israele. Oggi il senso di questo atto fondante va ricordato ma, al tempo stesso, va deciso che, se si è stati ferocemente perseguitati e “massacrati”, questo trattamento mai più nessun essere pensante lo dovrà riservare ad un altro essere vivente.

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Nessuno tocchi Israele e Israele decida di rispettare il Popolo Palestinese. Se è vero che c’è un tempo per ogni cosa, è arrivato il tempo della Pace.

Che questo 70° anniversario dell’Olocausto sia, oltre a ciò che è e che deve continuare ad essere, l’inizio di un vero e duraturo percorso di Pace tra israeliani e palestinesi. Le notizie odierne dalle frontiere israeliane vanno in tutt’altra direzione. Eppure guai a rinunciare alla speranza.

Oreste Grani


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Prefazione

Questo è un libro di capitale importanza, perché ci riporta subito alla mente i pericoli che incombono sulla società quando intolleranza e razzismo riescono a mettere radici. Denis Avey, oggi novantatreenne, ci avverte che fascismo e genocidio non sono scomparsi; anzi, come ha precisato, «potrebbero verificarsi anche qui». E ciò potrebbe davvero succedere ovunque, e ogni volta che permettiamo alla civiltà di corrompersi, o di farsi rovinare dalla malvagità e dal desiderio di distruzione. È un bene che Denis Avey possa finalmente raccontare la sua storia. Come lui, molti di quelli che vissero il trauma della guerra, compresi gli ebrei sopravvissuti all’Olocausto, scoprirono nel 1945 che «nessuno li voleva stare a sentire». Sessantacinque anni dopo, il primo ministro inglese Gordon Brown ha invitato Denis Avey al numero 10 di Downing Street per ascoltare la sua storia, lodare il suo coraggio, e insignirlo di una medaglia per i “servigi resi all’umanità”. Ci vuole fegato per portare una simile testimonianza. A tutt’oggi, Denis Avey si ricorda con orrore, tra le molte altre atrocità, di un ragazzino ebreo «sull’attenti, grondante di sangue, che veniva bastonato sulla testa». Consiglio questo libro a tutti coloro che vogliano ascoltare il racconto in prima persona dell’incubo che fu Buna-Monowitz, il campo di lavoro confinante con Auschwitz dove i prigionieri di religione ebraica furono brutalmente schiavizzati, e uccisi non appena mancavano loro le forze per faticare per i loro carnefici delle SS. Il resoconto di Denis Avey sui maltrattamenti subiti dagli ebrei per mano nazista è sconvolgente, come è giusto che sia, perché la mente arretra di fronte a un mondo dominato dalla crudeltà, dove un gesto di umanità, come quello compiuto dall’autore verso un ebreo olandese, rappresenta un raro spiraglio di luce e di pietà. Avey ci racconta anche la sua vita da soldato prima della prigionia, quando combatté nel Deserto Occidentale. Pure in questo caso riporta le sue impressionanti storie di guerra senza mai distogliere lo sguardo dagli orrori, compresa la morte di un amico «saltato in aria» proprio accanto a lui: «Les aveva gli occhi che gli brillavano. Eravamo partiti insieme da Liverpoool, e io avevo ballato con sua sorella Marjorie, mi ero seduto a tavola con i suoi genitori, avevo riso alle loro battute e diviso con loro il cibo». La prima reazione di Avey, quando si ritrovò «addosso mezzo corpo del povero vecchio Les», fu di pensare: “Grazie a Dio, non è capitato a me”. Ma il senso di colpa per quella reazione istintiva lo tormenta ancora oggi. L’onestà di questo libro rende ancora più forte il suo effetto. La descrizione di Buna-Monowitz è brutale e autentica. Scambiando la sua uniforme da soldato inglese con gli stracci a righe di un prigioniero ebreo ed entrando nella sezione riservata a essi in quell’enorme campo di sterminio, Denis Avey è diventato un testimone. «Dovevo vedere con i miei occhi ciò che stava accadendo», scrive. Il suo gesto ci permette di gettare una luce inedita su uno degli angoli più oscuri del regno delle SS. Questo libro è un tributo a Denis Avey e a quelli le cui storie egli ha voluto a ogni costo raccontare, a rischio della propria vita.

Sir Martin Gilbert, 8 febbraio 2011

Prologo

22 gennaio 2010

Scendendo dal taxi davanti al cancello sorvegliato di Downing Street, mi ritrovai con un microfono sotto il naso. Cosa potevo dire? ero stato convocato per una cosa che avevo fatto durante la guerra, non durante il combattimento nel Deserto Occidentale, né quando fui fatto prigioniero, ma per ciò che era successo ad Auschwitz. Nel 1945 nessuno aveva voluto ascoltarmi, così non ne avevo parlato per quasi sessant’anni. Toccò alla mia prima moglie sopportare gli effetti collaterali di quella situazione. Mi svegliavo madido di sudore, con le lenzuola zuppe, tormentato sempre dallo stesso incubo. Lo rivedo ancora adesso, quel povero ragazzino sull’attenti, grondante di sangue, mentre viene bastonato sulla testa. Rivivo quell’esperienza ogni giorno, pure oggi, a quasi settant’anni di distanza. Quando incontrai Audrey, la mia seconda moglie, lei si rese subito conto che qualcosa in me non andava, e intuì che ciò avesse a che fare con Auschwitz, ma dovettero passare decenni prima che fossi in grado di parlarne. Adesso non riesco più a smettere, lei teme che sia rimasto prigioniero del passato e pensa che dovrei lasciarmi tutto alle spalle, per guardare avanti. Ma alla mia età, non è facile. Mi si aprì davanti la porta lucida al numero 10 di Downing che avevo visto tante volte al telegiornale incorniciare i capi di stato mondiali, e io entrai. In anticamera mi presero il cappotto e mi accompagnarono sulle scale, dove superai i ritratti incorniciati dei precedenti primi ministri. A un certo punto mi ritrovai davanti alla foto di Churchill, e pensai tra me e me che era un ritratto davvero piccolo per un leader così grande. Mi fermai a riprendere fiato, appoggiandomi al mio bastone di metallo, prima di superare i premier del dopoguerra, fino alla Thatcher, a Major e Blair in fondo alla scalinata. Mi lasciai cadere su una poltrona: avevo novantun anni, mi serviva un momento per riprendermi dalla salita. Mi guardai intorno, intimidito dalla magnificenza della Sala della terracotta, con il suo soffitto altissimo e i suoi candelieri. Quella mattina il primo ministro Gordon Brown doveva presentarsi davanti alla commissione di inchiesta Chilcot per rispondere della guerra in Iraq, e temevo che non avesse tempo per ricevermi nell’imminenza delle elezioni. Di colpo l’atmosfera cambiò. Il premier entrò nella stanza, mi raggiunse e mi strinse la mano. Parlava con una voce molto pacata, quasi un sussurro. La sala si era riempita di gente, e tuttavia il nostro colloquio sembrava privato. «Siamo davvero orgogliosi di lei. Averla qui è un onore per tutti noi», mi disse. Ne fui commosso. Sua moglie Sarah venne a presentarsi. Non sapevo come comportarmi, così le feci il baciamano, e le confidai che di persona appariva più bella che in televisione. Era vero, ma non avrei dovuto dirlo. Per fortuna sono gaffe che a un novantenne si perdonano. Cercai subito di recuperare, aggiungendo: «Mi è molto piaciuto il suo discorso dell’altro giorno». Lei sorrise, e mi ringraziò.

I fotografi della stampa e le troupe televisive volevano ritrarci insieme. Rammentai che il primo ministro stava attraversando un periodo difficile dal punto di vista politico, e gli dissi che non mi piaceva il modo in cui i suoi colleghi lo stavano pugnalando alle spalle e che, se mai avesse avuto bisogno di un difensore, io ero pronto. Lui sorrise, e rispose che lo avrebbe tenuto presente. «Non farei il suo mestiere nemmeno per un orologio d’oro», dissi. Non avevo votato per lui, ma lo consideravo comunque una brava persona, e la sua sincerità mi colpì molto. Gordon Brown mi prestava tutta la sua attenzione, con una tale concentrazione da farmi sentire come se fossimo rimasti da soli nella stanza. Io ho un occhio di vetro – un’altra eredità di Auschwitz – e faticavo a mettere a fuoco con quello buono. Anche il premier Brown ha problemi di vista, così per parlare ci sedemmo molto vicini, fino a sfiorarci quasi con la fronte. Lui parlò di «coraggio» e di «valore», e io cominciai a raccontargli di Auschwitz, della IG Farben, delle SS, di tutto quanto: i dettagli si affastellavano senza un ordine particolare. A un certo punto, mi mancò una parola, e quella che pronunciai fu “Häftling”, il termine che usavano i tedeschi per indicare i prigionieri. «Succede anche a me quando ricordo quei tempi», disse un altro superstite dei campi presente in sala. Poco dopo ebbi l’onore di venire incluso tra i ventisette inglesi “eroi dell’Olocausto”, un’esperienza che mi diede da pensare: nella maggior parte dei casi si trattava di un riconoscimento postumo. Siamo rimasti in vita solo in due, io e Sir Nicholas Winton, che salvò più di seicento bambini dalla Cecoslovacchia. Mi appuntarono una medaglia d’argento con su scritto: “Per i servigi resi all’umanità”. Mentre uscivo, dichiarai a un giornalista che adesso potevo morire felice. Mi ci sono voluti quasi settant’anni per riuscire a dirlo. Ora che posso parlare di quei tempi terribili, mi sembra di liberarmi lentamente di un peso enorme. Riesco a ricordare con chiarezza l’evento centrale: il momento dello scambio.

ero il numero...