Cosa unisce Giampaolo Pansa a Grani? Nulla se non che entrambi non escludono una guerra civile in Italia
Da qualche tempo (in realtà ne ho ragionato altre volte in questi anni) uso l’espressione “guerra civile” sempre più spesso. Oggi, addirittura, riproduco per intero l’introduzione del libro di Giovanni Fasanella e Giovanni Pellegrino, uscito per la BUR Rizzoli nel 2005, intitolato, appunto, “Guerra civile”.
Lo faccio sotto la suggestione di quanto qualche giorno addietro Giampaolo Pansa, partecipando ad una puntata di una trasmissione di Lilli Gruber, con molta pacatezza e fermezza, ha dichiarato: si avvicina una guerra civile in Italia. Siamo in molti quindi (due, tre, forse quattro) che pensiamo che si scivoli verso il sangue.
L’introduzione del libro di Fasanella-Pellegrino è talmente ben scritta che non dico sia esaustiva dell’argomento a cui tengo (la gravissima situazione che si darà con l’eventuale ritorno di Berlusconi al governo del Paese) ma certamente mi aiuta a dire e a ricordare cose che vanno dette e ricordate ora che si prefigura la sconfitta (cercata solo autolesionisticamente?) del M5S, soggetto politico (ora che le cose si stanno consumando, la funzione si fa evidente) destinato, da Grillo e da altri, a svolgere funzione di contenimento delle spinte violente che serpeggiavano, da troppo tempo, nelle viscere del Paese.
FINITA LA FUNZIONE DI POMPIERAGGIO E DI CANALIZZAZIONE DELLA GIUSTA RABBIA ACCUMULATASI IN ANNI DI DITTATURA PARTITOCRATICA, DI CORRUZIONE, DI SVENDITA DI OGNI SOVRANITÀ NAZIONALE, ORA SI VORREBBE AVVIARE il M5S SU DI UN BINARIO MORTO, ASPETTANDO CHE, INSUCCESSO DOPO INSUCCESSO, EROSIONE PERCENTUALE DOPO EROSIONE PERCENTUALE, INFORTUNIO AMMINISTRATIVO DOPO INFORTUNIO AMMINISTRATIVO, IL SUO ESEMPIO NEGATIVO, FACCIA ABBANDONARE, PER SEMPRE, LA SPERANZA DI UNA DEMOCRAZIA COMPIUTA.
Oreste Grani/Leo Rugens
Leggete, amici, leggete.
Una storia non conoscibile
Giovanni Pellegrino non è uno storico. E nemmeno un politico di professione. È un avvocato. Un bravo avvocato di Lecce che il caso catapultò in Parlamento quando meno se l’aspettava. Nel 1987 era stato candidato al Senato come indipendente nella lista del Pci, ma senza alcuna speranza di ottenere il seggio. Arrivò a Palazzo Madama soltanto tre anni dopo. Per «successione ereditaria», come lui stesso ama dire con amara ironia: si era liberato un posto, dopo la prematura scomparsa di due senatori comunisti di Taranto. Diventò senatore il 12 dicembre 1990, anniversario di piazza Fontana. Se i numeri racchiudono dei significati, in quella data c’era il suo destino.
Tra i banchi del Senato, colpì subito per la sua tendenza, del tutto innaturale per un politico, a dar ragione all’avversario, quando riteneva che ne avesse da vendere, e ad ammettere i propri torti, quando era convinto di non essere nel giusto. Fu così, grazie alle sue doti di equilibrio, che nel 1992 si trovò alla presidenza della Giunta per le autorizzazioni a procedere, una sorta di tribunale del Senato che decideva se un magistrato poteva o meno inquisire un parlamentare. Furono soprattutto i democristiani a volerlo alla presidenza: intorno al Palazzo cominciava già a stringersi l’assedio di Mani pulite, e un uomo come lui dava garanzie di imparzialità.
La stessa ragione per la quale, due anni più tardi, subito dopo le elezioni politiche del 1994, gli fu affidata la guida della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi e sul terrorismo. Dopo il crollo del Muro, il Paese era ancora più diviso da due contrapposte letture delle vicende del passato.
Il bipolarismo abborracciato, che aveva sostituito il sistema proporzionale dopo quasi mezzo secolo di democrazia bloccata, non aveva certo aiutato a ricomporre le due Italie. Un esponente della sinistra stimato dalla destra, come Giovanni Pellegrino, avrebbe potuto aiutare a chiudere i conti aperti attraverso la costruzione di una memoria condivisa.
Degli undici anni vissuti in Senato (nel 2001 non volle più ricandidarsi), ne ha trascorsi nove a indagare sulle vicende più oscure della storia italiana. Prima, ha avuto fra le mani molti dei processi di “tangentopoli” e per fatti di mafia, a cominciare da quello a Giulio Andreotti. Poi, ha studiato migliaia e migliaia di pagine (atti giudiziari e documenti d’archivio) sulle trame che hanno insanguinato il Paese nel decennio terribile aperto con la strage di piazza Fontana (1969) chiuso con l’assassinio di Aldo Moro (1978), ha ascoltato imputati e testimoni, ha raccolto le confidenze di politici, magistrati, militari, uomini dei servizi segreti.
Presiedendo la Giunta, ha assistito al crollo della prima Repubblica e ha visto nascere l’era di Silvio Berlusconi. Guidando la Commissione stragi, ha capito perché era successo. C’era un filo rosso che percorreva l’intera vicenda italiana del dopoguerra. E Pellegrino, godendo di un punto di vista del tutto privilegiato, ha potuto rintracciarlo prima di qualsiasi storico e con maggiore libertà di qualsiasi politico di professione.
È il filo di uno scontro che parte già dalla Resistenza, e che divide non solo i fascisti dagli antifascisti, ma anche, nel fronte partigiano, i comunisti dagli anticomunisti. Quel filo si dipana poi lungo gli anni della guerra fredda, creando all’interno dei due opposti schieramenti zone di ottuso estremismo, il terreno di coltura delle velleità golpiste da un lato, e rivoluzionarie dall’altro, delle stragi “nere” e del terrorismo “rosso”. Sono due estremismi speculari e opposti, che si combattono senza esclusione di colpi, ma che spesso convergono tatticamente in nome di un obiettivo comune: impedire qualsiasi forma di dialogo fra i due schieramenti. Il punto più alto dello scontro si tocca proprio nel decennio 1969-78, quando nasce, matura e si conclude drammaticamente la stagione del compromesso storico tra Dc e Pci, ispirata da Aldo Moro ed Enrico Berlinguer per adeguare l’equilibrio del sistema alle spinte provenienti dalla società.
L’interruzione traumatica di quella fase, in seguito all’assassinio di Moro, apre la strada a una crisi non solo dei rapporti fra i partiti, ma delle stesse regole costituzionali. Va in frantumi il patto democratico su cui si era fondata la prima Repubblica dopo il 25 aprile 1945 e che aveva consentito al sistema di sopravvivere durante la guerra fredda.
Dopo il crollo del Muro, lo scontro fra le due Italie si riaccende, con fiammate inimmaginabili fino a quel momento. Dagli armadi della prima Repubblica affiorano improvvisamente gli scheletri di un passato rimosso per quasi mezzo secolo, i miasmi di una storia sempre occultata perché non conoscibile per l’opinione pubblica. Il conflitto si trasforma in un feroce regolamento di conti. La sinistra postcomunista cavalca con spregiudicatezza le inchieste della magistratura che azzerano l’intero ceto politico di governo. Per il fronte anticomunista è un golpe. E per riequilibrare il potere giudiziario della sinistra, nasce quello mediatico della destra: Silvio Berlusconi.
Ecco, il filo rimosso di una storia malata. Pellegrino lo ha rintracciato e ricostruito mettendo insieme i tanti pezzi scoperti durante il suo viaggio a ritroso nelle vicende di mezzo secolo. Ma come sempre accade agli uomini del dialogo in un contesto di odio (qualunque ne sia l’origine, politico-ideologica, etnica o religiosa) o agli investigatori in un contesto di omertà, anche lui non ha avuto vita facile.
Ogni volta che toccava qualche tasto che non andava toccato, finiva sotto il fuoco o degli avversari o degli amici, a volte sotto il tiro incrociato di entrambi. È accaduto spesso durante i suoi nove anni di indagini. Si è ripetuto quando ha provato a raccontare la sua esperienza alla guida della Commissione stragi in un libro-intervista (Segreto di Stato), pubblicato da Einaudi nel 2000. E con ogni probabilità, accadrà anche questa volta, dopo l’uscita della Guerra civile.
La storia che racconta Pellegrino, per molti aspetti, è ancora oggi non conoscibile. E soprattutto, è una storia ancora in corso. Quella di una transizione infinita che impedisce al sistema della guerra fredda di trasformarsi finalmente in una democrazia dell’alternanza e alle due ItaIie di diventare una nazione.
Giovanni Fasanella