Il “caso Shalabayeva” si sta chiudendo a Perugia? Questo non credo

Era di questi giorni sette anni fa, il 2013, che “Shalabayeva Il caso non è chiuso” fu pubblicato in formato elettronico dalla casa editrice Adagio di proprietà della Casaleggio Associati.

Luca Eleuteri mi aveva inviato copia del contratto da lui firmato; noi tutti eravamo contenti e fiduciosi di avere trovato un alleato nella folle impresa di difendere la reputazione della Repubblica Italiana e delle sue mal messe istituzioni; l’illusione ha avuto breve durata.

La storia è arcinota: il kazako Ablyazov era scappato con una montagna di dollari dalle grinfie di Nazarbayev; gli inglesi prima l’avevano protetto poi scaricato passando la pratica ai francesi; come e perché fosse finito in Italia con passaporto autentico della Repubblica Centrafricana (Francia) non lo sappiamo; cinquanta poliziotti, imbeccati dagli israeliani, irrompono nella villa di Casalpalocco dove era rifugiato con la moglie Alma Shalabayeva e la figlia Alua; Ablyazov non c’era, i poliziotti rompono il naso al cognato e prelevano la madre (erronemente definita “puttana russa” in quanto né russa né puttana) e la figlia seienne le quali, con la complicità di una giudice, vengono espulse nel giro di pochi giorni e trasportate con un aereo privato, solitamente nelle disponibilità dell’ENI, ad Almaty, tra le braccia dell’uomo che con buone probabilità avrebbe fatto strangolare anche l’ex genero di lì a un paio d’anni, e che già un paio di volte aveva cercato di fare la pelle all’Ablyazov. Il ministro dell’Interno Alfano nulla sapeva mentre tutti al ministero vedevano andare e venire l’ambasciatore kazako Yelemessov; e pensare che oggi si occupa di sanità privata.

Meno nota è la vicenda che mi vede coinvolto e che diede il via a quella che il radiologo definì, esagerando con la lusinga, la più importante operazione cui avesse partecipato e che, è agli atti, fu da lui non involontariamente innescata.

Sette anni sono molto tempo, se trascorsi tra bar, cantine, coworking, alberghi, uffici mal frequentati, soprattutto tornando a casa e trovandola vuota. I traditori non li annovero tra le fatiche, poiché fanno parte del gioco, che tutto è tranne che un gioco, non avendo regole.

Nel corso degli anni mi sono reso conto che questo mestiere, poco riconosciuto e molto farinteso sia dentro sia fuori dal circolo degli addetti ai lavori, trova nella libertà di giudizio e di azione, che è il motore del fattore umano, il vero segreto, sicché ho appreso che l’avere a che fare con donne e uomini non liberi (trascuriamo la preparazione e l’esperienza) è il maggior pericolo.

Mi perdonerete queste banali divagazioni figlie di un decenio e più di esperienza sul campo, esperienza che con molto orgoglio ho potuto mettere al servizio dello Stato anche collaborando con alcuni rappresentanti eletti da tanti onesti cittadini.

Ora che il pubblico ministero a Perugia, foro competente per Roma, ha chiesto la condanna di alcuni servitori dello Stato torno a chiedere alla politica di rispondere nel merito: perché è accaduto tutto questo?

Perché qualcuno tifava per il Presidente Nazarbayev e non per la Repubblica italiana della quale è cittadino?

Perché Alessandro Di Battista o Manlio Di Stefano o Carlo Sibilia fanno finta di nulla mentre le reputazione di alcuni servitori dello Stato, quindi la reputazione della Repubblica, viene massacrata a Perugia?

A chi si dovesse chiedere il perché e a che titolo torni sull’argomento, la risposta sta nell’ultima domanda e soprattutto nel senso del dovere che da cittadino mi impone di agire in modo sussidiario alle istituzioni, si tratti di aiutare i testimoni di giustizia, di favorire il dialogo con altri paesi, di aiutare le imprese nazionali a crescere e via dicendo.

Oggi posso serenamente affermare di non avere mai derogato a tali propositi e se abbia agito con successo o meno, con perizia o ingenuità non sarò io a dirlo, a me è sufficiente poter passare a testa alta sotto la scritta “Nei secoli fedele” o “La legge è uguale per tutti” per dormire sereno, da libero cittadino. Non credo possano fare altrettanto i molti che si sono fatti sotto per difendere biechi interessi, incluso quel fenomeno che dichiarava pomposamente di avere Bolloré da anni nel mirino e che, dopo averlo portato a un passo dalla preda, sparì non prima di avere chiesto 200.000 dollari per favorire un icontro con un imprenditore italiano in Nigeria.

Nel 2015 ebbi l’occasione di incontrare Ablyazov all’epoca detenuto in un carcere francese, vi rinunciammo per ragioni precise (non è una svista il passaggio dalla prima persona singolare alla prima plurale) dopodiché assistemmo senza riuscire a bloccarlo a quel processo degenerativo del Movimento del quale conosciamo origini e nomi, sapendo distinguere tra i cretini cretini, i cretini delinquenti e i cretini vigliacchi. Al morto non possiamo imputare più di tanto, salvo non avere mai voluto prendere seriamente in mano, penso mal consigliato, quel pugnale avvelenato che è il mio / nostro e-book: “Shalabayeva Il caso non è chiuso”.

Alberto Massari

P.S. Se un giorno mi dovesse capitare di incontrare Ablyazov, gli esprimerò qualche pensiero sull’avvocato Peter Sahlas e lo Studio Olivo cui si appoggiava.

Due anni e quattro mesi per l’allora capo della mobile di Roma Renato Cortese e due anni, due mesi e 15 giorni per l’ex responsabile dell’ufficio immigrazione della questura capitolina Maurizio Improta. Sono queste alcune delle richieste di condanna avanzate dal pm di Perugia Massimo Casucci nell’ambito del processo Shalabayeva. I due – che oggi ricoprono rispettivamente il ruolo di questore di Palermo e direttore della Polizia ferroviaria – sono accusati di aver preso parte all’espulsione dall’Italia di Alma e Aula Shalabayeva, moglie e figlia del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov, avvenuta nel 2013. Chieste le condanne anche per gli altri 5 funzionari di polizia al banco degli imputati.
Durante la sua requisitoria, iniziata stamattina al tribunale di Perugia, il pm ha ricostruito tutti i passaggi chiave della vicenda. A partire da quel 29 maggio 2013, quando le due cittadine kazake furono prelevate dalla polizia dopo un’irruzione nella loro abitazione di Casalpalocco. Le forze dell’ordine in realtà cercavano il marito, ma dopo un velocissimo iter giuridico-amministrativo la donna e la figlia furono caricate su un aereo privato messo a disposizione dalle stesse autorità di Astana con l’accusa di possesso di passaporto falso. A luglio 2013, in seguito alle polemiche per l’operazione, si dimise il capo di gabinetto del ministero dell’Interno Giuseppe Procaccini (“Per senso delle istituzioni”). Secondo le ricostruzioni, aveva infatti incontrato l’ambasciatore kazako Andrin Yelemessov per parlare dell’oppositore Ablyazov. L’allora capo del Viminale Angelino Alfano, invece, fu oggetto di una mozione di sfiducia, poi respinta dal Parlamento. Shalabayeva e la figlia lasciarono il Kazakistan il 24 dicembre dello stesso anno per fare ritorno in Italia.
Il rinvio a giudizio per i poliziotti coinvolti nella vicenda è stato deciso dal gup di Perugia solo due anni fa. Ai tre funzionari dell’ambasciata kazaka accusati del sequestro della donna, invece, è stata riconosciuta l’immunità diplomatica. L’ipotesi della procura è che, all’epoca, gli agenti della Mobile ingannarono sia alcuni colleghi dell’Ufficio immigrazione della Capitale, sia i magistrati che diedero il via libera all’espulsione. Non solo: ci sarebbe stata anche la falsificazione dei documenti per velocizzare la procedura: “Mi dissero che dovevo lasciare la bambina a un ucraino che lavorava per noi. Dissi che preferivo portare mia figlia con me. Ci fecero salire su un aereo – aveva raccontato Shalabayeva – senza documenti né passaporto. Era un aereo privato e molto lussuoso. Dopo sei ore di volo atterrammo ad Astana”.
Uno degli agenti coinvolti nel processo è quello di Cortese, prima ex capo della Mobile di Roma e ora questore di Palermo. Un nome legato da anni alla Sicilia: c’era lui a capo della sezione catturandi l’11 aprile 2006, quando fu catturato il superboss Bernando Provenzano. Con i suoi uomini, ha scovato anche ricercati del calibro di Gaspare Spatuzza, Enzo e Giovanni Brusca, Pietro Aglieri, Benedetto Spera e Salvatore Grigoli. Al termine di otto ore di requisitoria, il pm ha chiesto invece l’assoluzione dal reato principale di sequestro di persona del giudice di pace che si occupò del caso, Stefania Lavore, e del poliziotto Stefano Leoni che era in servizio all’Ufficio immigrazione. Per loro il magistrato ha sollecitato la condanna rispettivamente a un anno e 15 giorni e un anno di reclusione. Chiesti inoltre un anno, due mesi e 15 giorni per Luca Armeni e un anno, dieci mesi e 15 giorni per Francesco Stampacchia, entrambi funzionari della squadra mobile, e un anno e cinque mesi per Vincenzo Tramma, altro agente dell’ufficio immigrazione. Per tutti gli imputati il magistrato ha chiesto la concessione delle attenuanti generiche e l’assoluzione per alcuni dei capi d’imputazione contestati.
Fonte Il Fatto Quotidiano