Su Cases e la posterità – Cesarismo Germanico Dario Borso*

Cesare Cases morì il 27 luglio 2005.
Il giorno dopo, lo commemora sul “Corriere della sera” il germanista Claudio Magris: “Cases è non solo un grande germanista, bensì anche un protagonista della cultura italiana dell’ultimo mezzo secolo, che – per ironia, intelligenza troppo acuta, randagia autosufficienza ebraica – ha scelto una posizione laterale, seppure ben profilata, nella parata permanente della società culturale. […] Naturalmente è più facile riconoscere tutto questo per chi è stato a suo tempo fraternamente accolto, magari giovanissimo, in quei mercoledì einaudiani in cui nascevano tante cose, che non per chi, magari ingiustamente, è stato bocciato agli esami d’ammissione”. Così successe a lui, cooptato da Cases a fine anni 60 (coincidenti spesso i loro giudizi di lettura, valga per tutti la stroncatura di Peter Handke). “Beffardo e caustico, talora oltre la giusta misura, non era esente, nel suo sarcasmo, da alcune cadute in una sgradevole volgarità intellettuale, ma si riscattava in un’ironia illuminista che celava una pudica intensità di affetti”.
L’italianista Pier Vincenzo Mengaldo, in rapida successione, pubblica su “L’ospite ingrato” di luglio-dicembre un saggio dove Cases è definito “grande saggista, il che è qualcosa di più e di diverso da, via via, grande critico o grande scrittore etico-politico o grande pensatore (citerò in particolare il pamphlet Marxismo e neopositivismo, in discussione con Giulio Preti)”, sul quale www.ilprimoamore.com/blog/spip.php?article2414. E passando ai saggi di Cases, ne motiva la grandezza dalla “tenuta stilistica di quelle pagine, le loro punte, la loro ricchezza di paradossi e di aforismi, infine la loro frequente curvatura satirica e polemica: Cesare amava agire molto spesso in contropiede, e nessuno avrebbe gradito di cadere sotto la sua sferza di polemista, sempre pungente ma del tutto privo di quelle ‘volgarità intellettuali’ che gli sono state incomprensibilmente rimproverate sul ‘Corriere della sera’ (semmai è stato lui ad essere bersaglio di attacchi volgari, dei vari Filippini o Fachinelli)”.
La risposta di Magris si fa attendere fino al 12 giugno 2007, quando all’Accademia delle Scienze di Torino rievoca “i saggi indimenticabili di Cases su Mann, Kraus, Brecht, Schiller, Wieland, Schmidt” (così indimenticabile questo su Arno Schmidt da essersene “dimenticato” l’autore stesso, che lo cassò dall’edizione tedesca 1969 dei Saggi e note di letteratura tedesca 1963 in cui era compreso). Ma presto la lingua va dove il dente duole, ossia al rilievo mosso a Cases nel suo coccodrillo “che ha comprensibilmente sconcertato qualcuno”, o meglio uno: l’innominato Mengaldo. Ebbene, aver rilevato qualche caduta nella volgarità intellettuale “obbedisce a quell’obbligo di sincerità e obbiettività da cui nemmeno […] un coinvolgimento emotivo ci esime, soprattutto nei confronti di chi, come Cases, era impersonale pure nei confronti di stesso. È lui che ci ha dato l’esempio di tale oggettività”: considerava infatti Ladislao Mittner il germanista “più grande che l’Italia abbia avuto”, ma esaltando “la sua straordinaria Storia della letteratura tedesca, dice pure che le esposizioni riassuntive delle singole opere sono quasi sempre inaffidabili. Ciò non diminuisce la sua considerazione generale di Mittner e allo stesso modo rilevare alcune lepidezze di Cases non diminuisce” ecc.
Da un’attenta scorsa dell’ultimo tomo della Storia, ho ricavato che: le esposizioni riassuntive occupano in media un quarto di pagina; le note, anch’esse occupanti un quarto di pagina, contengono regolarmente brevi esposizioni riassuntive di opere minori di grandi autori o di opere di autori minori; note ed esposizioni riassuntive sono in corpo minore rispetto all’altra metà del testo. E da qui deduco che dichiarare inaffidabile un terzo circa della Storia non è un gran complimento, soprattutto pensando al refrain che un luminare di altra stazza, Mario Dal Pra, salmodiava agli studenti: “Prima la topica, dopo la critica” – e se la topica di Mittner è inaffidabile, come potrà mai esserlo la sua critica?

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La roccaforte di Cases era Torino.
L’allieva prediletta Anna Chiarloni, specialista di letteratura tedesco-orientale, il 4 ottobre 2005 nell’Aula Magna dell’Università ricordò il maestro, “un vero maître à penser dei nostri giorni”, sottolineandone “il registro ironico e sferzante, […] una scrittura che si serve della parola arcaica per spezzare le maglie convenzionali del linguaggio, per irridere l’omologazione dilagante indotta dall’industria culturale”. Sempre nell’Aula Magna, con altri organizzò poi per il 24 novembre 2008 una “Giornata di studio dedicata a Cesare Cases”.
Tra gli intervenuti, il direttore di “Quaderni Piacentini” Piergiorgio Bellocchio toccò un punto concreto che ha a che fare con Schmidt: “La Tesi di dottorato di Michele Sisto La letteratura tedesca nel campo letterario italiano coglie perfettamente nel segno, quando in un pezzo anonimo della rubrica ‘Il franco tiratore’, dedicato a scrittori tedeschi antologizzati nel n. 9 della rivista ‘Il Menabò’, diretta da Vittorini e Calvino, rintraccia la mano di Cases”. Eppure, nella bibliografia completa di Cases posta in calce agli atti pubblicati in Per Cesare Cases, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2010, il pezzo anonimo non c’è.
Autore della bibliografia è lo stesso Sisto, presente alla “Giornata” con una relazione che tematizza il rapporto di Cases con la DDR a partire dall’adesione entusiastica nel 1950 e dalla conseguente polemica con Franco Fortini il quale, di ritorno da lì, gli consigliava per vaccino “una visita in Ostzone”. Sisto commenta: “Consegnando assai precocemente (non importa qui se con ragione o no) l’esperimento della DDR agli archivi della storia, Fortini si preclude la possibilità di tornare a verificarne i progressi e i regressi nel tempo; mentre Cases, politicamente più isolato e meno informato sulle efferatezze del comunismo staliniano, continuerà per anni a concedere una relativamente ampia apertura di credito al ‘primo Stato socialista in terra tedesca’. Sarà lui, e non Fortini, a compiere la ‘visita in Ostzone’”. Insomma, fece bene Cases a digerire la repressione dei moti operai del 1953 a Berlino-Est più quelli del 1956 a Budapest e a rinnovare la tessera carrista del PCI fino alla primavera 1959: così infatti poté diventare lettore d’italiano in un’università della DDR.
Dopo quasi tre mesi di soggiorno a Lipsia, il 18 gennaio 1957 Cases scrisse a Delio Cantimori una lettera da me recuperata nell’archivio della Normale di Pisa, di cui Sisto (ringraziandomi in nota per avergliela passata) riporta solo un brano dove il mittente registra “la scomparsa pressoché totale della tracotanza” tedesca, sicché “diversamente da quanto mi accade nella Germania di Bonn, io praticamente non provo più quei risentimenti verso i tedeschi”.
Io però nel frattempo l’avevo pubblicata intera qui rebstein.wordpress.com/2009/02/10/il-pezzullo-di-db-viii-bionda-cervogia/. La frase subito precedente al brano citato da Sisto, sulla situazione economica della DDR, suona: “Sergio Segre ha scritto due buoni articoli sull’Unità dei primi di questo mese (abbastanza buoni anche per la politica)”. Segre era dal 1952 inviato speciale per la Germania del quotidiano comunista, ed esordì in prima pagina il 28 novembre commentando la “giusta” condanna a morte di 11 “agenti degli imperialisti in Cecoslovacchia”, tutti rei confessi a partire da Rudolf Slanskj, sulla cui moglie l’inviato si sofferma per elogiare la “nobile condotta della compagna Josefa che dice l’angosciata verità ai suoi figli e, attraverso la prova del dolore, vuole farne uomini onesti e combattenti per la grande causa tradita dal padre”. Quanto alla rivolta operaia dell’anno dopo: “Un comitato segreto di Berlino Ovest preparava da 14 mesi il giorno X”; una “vasta organizzazione armata di tipo nazista dietro i provocatori e gli incendiari di Berlino Est”, ma “spontanea reazione dei lavoratori contro i rigurgiti nazisti e le spie straniere” ecc. ecc.

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Ma Cases, sarcasmo volgare o no?
Talora sì, sostiene Magris – anzi spesso, correggo io sulla base dell’indimenticabile saggio su Schmidt, che ne è da cima a fondo pervaso.
E attacco volgare o no, quello di un Elvio Fachinelli?
Mengaldo sostiene di sì – io invece di no. Nel 1976 la neonata casa editrice “L’erba voglio” aveva pubblicato Minima imMoralia, ossia gli aforismi che nell’edizione Einaudi 1954 dei Minima Moralia di Adorno erano stati tralasciati dal curatore Renato Solmi in quanto “di contenuto specificamente tedesco, ricchi di allusioni che sarebbero rimaste incomprensibili al lettore italiano”. Fachinelli, nel presentare i Minima imMoralia, ribatteva: “Che cosa è ‘specificamente tedesco’? Il sesso (le donne)? La politica? La riflessione incauta? Come i lettori possono agevolmente constatare, questi aforismi sono doppiamente interessanti: in sé stessi, nei loro nessi (recisi) col resto del grande libro di Adorno; e, soprattutto, come testi propriamente censurati, che nel loro emergere ora indicano con chiarezza ciò che ha prodotto la loro censura. Nel loro insieme, essi tracciano una mappa significativa di ciò che la cultura italiana di sinistra di quegli anni – ma solo di quegli anni? – ha temuto o addirittura non visto, e quindi escluso”.
Un anno dopo, dell’infuocato dibattito sui giornali tra accusatori e difensori dell’iniziativa fachinelliana, il primus dei primi Cases tentò un bilancio con La “mauvaise époque” e i suoi tagli, una dozzina di pagine taglienti su “Belfagor” il cui climax è nell’apostrofe a Fachinelli: cura te ipsum! E il dottore rispose, brevemente a ruota, con Micropsia:

L’altra notte ho visto un nano
con un cappotto di vigogna
(va pur detto, Cesare, che un altro inverno
già cade su Milano…).
Senza collo, tutto d’un pezzo
professorale o ministeriale
mi squadrava con asprezza.
Aveva il tuo testo in mano,
leggeva con aria di rampogna.
“Vergogna, vergogna”, ripeteva, e
“all’inferno”, o “alla gogna”, e
altre simili ferocità.
Oppresso, ansante,
giacevo e pur pensavo
nell’oscurità: è un nano
troppo singolare, è un sogno
troppo figurale,
anzi persino caricaturale,
domani me lo voglio interpretare.
Ma l’indomani, Cesare,
la neve scendeva su Milano,
dalla Ripa si alzavano i gabbiani,
leggevo versi di Marta Fabiani…
Ero felice? Non saprò mai
chi di noi due, Cesare, fosse quel nano.

Mentre sui versi incombe l’ombra invernale del padre Fortini, un amletico Elvio è preso dal dilemma dei due nani (h 1,65), così insolubile da volgere la doppia nanità in totale inanità della querelle, non fosse a placargli l’animo la poetessa-performer Ofelia col suo fresco di stampa Maratona… e tutto ciò chiamasi ironia, che per definizione volgare mai non è (cfr. S. Kierkegaard, Sul concetto di ironia, Rizzoli, Milano 19952).

* L’articolo conclude, forse, Colpo Basso _ Cesare Cases vs. Arno Schmidt