Barack Obama apre le porte a 11 milioni di clandestini. L’America torna a crescere, altro che crisi e fobie

New York vista da Ellis Island

New York vista da Ellis Island

Era il 1° luglio 2010 e leggendo il titolo dell’articolo di Rampini (Le porte aperte degli USA 100 milioni di nuovi americani) ho pensato: ci siamo, gli USA tornano ad aprire le frontiere, vogliono tornare grandi.

Oggi, 30 gennaio 2013, leggo che 11 milioni di clandestini (esattamente l’11% del numero 100) diventeranno cittadini americani. Emozionante (Usa. Immigrazione: bozza d’intesa sanatoria 11 milioni clandestini), che altro aggiungere?

Sprecare parole con le miserie nostrane non vale la pena. Certo che di immigrazione o di nuova cittadinanza, in questa campagna elettorale, se ne sente parlare molto e con competenza, vero?

Dionisia

New York vista da Ellis Island

Immigranti a Ellis Island in attesa dell’imbarco per arrivare a Manhattan

 

Le porte aperte degli Usa 100 milioni di nuovi americani

Gli immigrati sono all’origine del boom demografico e creativo degli Stati Uniti. Ma per molti, specie nel Sud, sono ancora una “minaccia”. Finora Obama è stato a guardare. Ma oggi annuncia la svolta

dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI

NEW YORK – Nel preparare il discorso alla nazione che farà oggi, affrontando il tema esplosivo dell’immigrazione, Barack Obama si è studiato più volte queste cifre. Le proiezioni dello U. S. Census Bureau possono dare le vertigini. Secondo i demografi del censimento federale entro quarant’anni la popolazione degli Stati Uniti sarà aumentata fino a situarsi tra 422 e 458 milioni, dai 300 di oggi. Le stime più prudenti, dell’Onu, indicano 404 milioni nel 2050. Anche nell’ipotesi minima, cento milioni di persone in più. Un aumento di un terzo rispetto all’America di oggi.

(leggi l’articolo completo)

Dopo anni di confusione, la Libertà torna a illuminare gli Stati Uniti d'America

Dopo anni di confusione, la Libertà torna a illuminare gli Stati Uniti d’America

New York vista da Ellis Island

New York vista da Ellis Island

P.S. Il testo di Claudio Martelli che chiude il post, è tratto dall’inserto di ZOOM periodico di Siena dal titolo “Nuova Cittadinanza” pubblicato il 9 maggio 2011 in occasione della campagna elettorale per le elezioni comunali a Siena.

Liberi cittadini del mondo

Claudio Martelli

Sulla cittadinanza sono state scritte migliaia di pagine, molte meno sulla sudditanza. Eppure, la sudditanza allude a una condizione civile e politica non libera, non autodeterminata né autonoma.

Il contrario di suddito, originariamente, è sovrano, non cittadino, mentre il contrario di cittadino è straniero, non suddito.

Greci e romani erano cittadini che vivevano insieme agli schiavi, i quali, o perché soggiogati in guerra o perché comprati come merci, erano esclusi dalla cittadinanza, dalla partecipazione alla vita politica e da governo della cosa pubblica. Dunque, per il pensiero classico, della democrazia ateniese e della repubblica romana, la sudditanza riguarda gli schiavi o gli stranieri, figure che spesso, di fatto, si confondono, in quanto appartenenti a un mondo considerato “inferiore”.

L’eguaglianza di tutti gli uomini in quanto figli di un unico Dio, predicata dal Cristianesimo, impiegherà più di diciassette secoli prima di diventare, con l’Indipendenza americana e la Rivoluzione francese, anche eguaglianza davanti alla legge. Ci vorranno altri due secoli per giungere alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, per poi distinguere tra cittadinanza e nazionalità e, quindi, poter parlare di cittadini europei e, perfino, di cittadini del mondo.

All’idea occidentale di democrazia e di cittadinanza, Amartya Senn contrappone esempi di cittadinanza attiva nella storia cinese come nella civiltà indiana Mogul. Il premio Nobel per l’Economia non sottovaluta la portata storica della democrazia ateniese, ma invita a considerare che il voto in assemblea o nelle urne non è l’unica forma di democrazia. Anzi, di democrazia non è giusto parlare se non c’è, preliminarmente, uno spazio pubblico libero in cui si confrontano e si dibattono opinioni su un piano di parità.

In Occidente e in Italia non mancano poi agguerriti e sempre più numerosi maitres à penser, per i quali, dopo esserci evoluti dalla sudditanza alla cittadinanza, staremmo di nuovo regredendo dalla cittadinanza alla sudditanza.

Un esempio di questa chiave critica della contemporaneità si trova in Danilo Zolo [2007], Da cittadini a sudditi. Nelle democrazie occidentali, argomentano i critici, sarebbe in corso un processo di regressione politica. Ne sarebbe una prova come la qualifica di cittadino si opponga sempre più a quella di straniero, sempre meno a quella di suddito. La cittadinanza, allora, torna ad essere un dato formale, con una connessione sempre più incerta con i diritti dei cittadini, con la loro dignità ed autonomia, con il loro sentimento di appartenenza ad una comunità politica. La cittadinanza tende a diventare una pura iscrizione anagrafica che sopravvive come strumento di discriminazione dei non-cittadini. In Europa – in Italia – ha operato come una clausola che esclude i migranti “extracomunitari” dalla titolarità o dal godimento dei diritti fondamentali, riducendoli, specie se irregolari, ad una condizione di “non-persone”, di una umanità inferiore, da rifiutare, respingere o anche rinchiudere in carcere.

Insomma, la grande, nobile idea, riproposta da Thomas Marshall nella seconda metà del secolo scorso, della cittadinanza come luogo in cui si verificano le condizioni politiche, economiche e sociali della piena appartenenza di un individuo alla vita di una comunità, appare sempre più evanescente.

Nel frattempo, la democrazia parlamentare ha ceduto il passo alla “ideocrazia”e alla “sondocrazia”: la logica della rappresentanza è surrogata dalla logica della pubblicità commerciale, assunta a modello della propaganda politica. Il codice politico è contaminato dal codice multimediale della spettacolarità e della personalizzazione. Il potere persuasivo dei grandi mezzi di comunicazione di massa ha vanificato anche gli ultimi residui “partecipativi” e “rappresentativi” della democrazia pluralistica. I partiti di massa sono scomparsi. Le direzioni centrali dei partiti non ricorrono più alla mediazione comunicativa delle strutture di base e del proselitismo degli iscritti e dei militanti. Non ne hanno più alcun bisogno, perché ci sono strumenti molto più efficaci ed economici per farlo: i canali delle televisioni pubbliche e private.

In questo senso, i nuovi soggetti politici non sono più, propriamente, i “partiti”, ma ristrettissime élites di imprenditori elettorali che, in concorrenza pubblicitaria fra di loro, si rivolgono direttamente alle masse dei cittadini-consumatori offrendo, attraverso lo strumento televisivo e secondo precise strategie di marketing, i propri prodotti simbolici. E, mentre l’astensionismo politico tende ad aumentare in tutto il mondo occidentale, a cominciare dagli Stati Uniti, le forze politiche sono sempre più impegnate nelle sofisticate alchimie di riforme elettorali che fanno della volontà del “popolo sovrano” l’oggetto passivo e inconsapevole dei calcoli di breve periodo della classe politica.

I soggetti politici che detengono il potere della comunicazione attraverso i grandi mezzi di comunicazione di massa – pubblici e soprattutto privati – si muovono in uno spazio che è al di fuori e al di sopra della cittadinanza. Non sono soltanto sottratti ad ogni controllo democratico, ma sono in grado di esercitare un’influenza insinuante sui modelli di consumo e sulle propensioni politiche dei cittadini, riducendoli così a “nuovi sudditi”, servi inconsapevoli di una tirannia subliminale, obbedienti a un regime di potere in larga parte occulto. Per nessuno, neppure per lo specialista più esperto di comunicazione, è agevole verificare i significati e l’attendibilità dei messaggi che riceve, né stabilire l’affidabilità della fonte. Non sono le grandi ideologie che in questo modo si affermano, ma piuttosto il loro surrogato impolitico: la docilità sociale, la passività consumistica, la venerazione del potere e della ricchezza.

Eppure, c’è chi non abbandona un atteggiamento ottimistico. Antonio Negri, ad esempio, ha sostenuto che la crisi delle cittadinanze nazionali, l’erosione della sovranità degli Stati e l’affermarsi di un ordine imperiale del mondo è foriero anche di sviluppi positivi, nel senso che prelude all’affermarsi di una cittadinanza cosmopolitica, di un universalismo delle “moltitudini”, capaci di insediarsi entro le strutture di potere dell’impero globale, occupandole senza distruggerle. Altri autori ritengono che, lungi dall’essere un fattore di inclusione e di eguaglianza, la cittadinanza è un privilegio di status, ultimo relitto premoderno delle diseguaglianze personali, in contrasto con l’universalità dei diritti fondamentali.

Non ci sarà pace e giustizia nel mondo, né rispetto dei diritti soggettivi, si sostiene, finché non saranno abbattute le frontiere degli Stati dietro le quali si annida il particolarismo delle cittadinanze nazionali. Solo una cittadinanza planetaria e un ordinamento giuridico globale sono finalità coerenti per chi abbia a cuore la tutela e la promozione dei diritti fondamentali delle persone e non dei soli cittadini. Queste tesi sono ispirate da presupposti filosofici che rinviano o all’universalismo umanitario del comunismo utopico o alla tradizione del moralismo kantiano, che ha trovato autorevoli epigoni in pensatori come Hans Kelsen, Jurgen Habermas, John Rawls, Ulrich Beck. Si tratta di filosofie globaliste che sembrano trascurare che la dottrina dei diritti dell’uomo, l’esperienza dello Stato di diritto e del costituzionalismo, le istituzioni liberal-democratiche si sono affermate nel contesto delle cittadinanze nazionali, dopo il superamento dell’universalismo politico e giuridico del Medioevo, entro i confini degli Stati nazionali europei. La proiezione universalistica di queste esperienze, al di là della sua vistosa assenza di realismo politico, dà per scontata la natura universale dei valori (europei ed occidentali) ai quali esse si sono ispirate, a cominciare dai diritti dell’uomo e dalle istituzioni democratiche. Ma, si tratta di un’assunzione tanto rischiosa quanto controversa, poiché l’universalismo etico e giuridico dei Western globalists ha dato ampia prova di essere paradossalmente in sintonia con l’universalismo neocoloniale delle potenze occidentali. Nell’ultimo decennio del secolo scorso, autori globalisti e cosmopoliti come Habermas, Rawls, Beck e, almeno in parte, lo stesso Bobbio, hanno approvato come guerre giuste, perché “umanitarie”, le guerre di aggressione scatenate dall’Occidente contro Stati sovrani non in grado di difendersi: si pensi alla guerra per il Kosovo e agli attacchi contro Afghanistan e Iraq. Così, può concludere Danilo Zolo: «La cancellazione della cittadinanza nazionale e dei suoi valori in nome dell’ideale universalistico della cittadinanza universale è una strada che conduce, nonostante le buone intenzioni dei suoi sostenitori, nelle braccia dell’imperialismo statunitense e del suo progetto di egemonia mondiale mascherato sotto le vesti della diffusione planetaria dei valori occidentali».

Che cosa è possibile fare, dunque? Quali strategie adottare sul terreno della difesa delle conquiste fondamentali della cittadinanza? «Sul terreno propriamente politico – aggiunge Zolo −, una coerente teoria della cittadinanza dovrebbe proporre una “lotta per i diritti” che non si risolva in parole d’ordine generiche e moralistiche. In alternativa alla retorica secolare del bene comune e dei doveri dei cittadini occorrerebbe mettere a punto una tavola di rivendicazioni normative rivolte contro i rischi crescenti di discriminazione cui vanno incontro i cittadini – per non parlare degli stranieri – non affiliati alle grandi corporazioni economiche, finanziarie, multimediali, professionali e religiose».

Mentre la tutela dei diritti civili – libertà e proprietà – appartiene, per così dire, alla normalità fisiologica della cittadinanza e dello Stato di diritto, solo il conflitto sociale è in grado di restituire effettività all’esercizio dei diritti politici, riscattandoli dalla loro condizione di puro cerimoniale elettorale, e di garantire l’adempimento delle aspettative che stanno dietro ai cosiddetti “diritti sociali”. Si tratta di interessi e di aspettative che lo Stato di diritto come tale non è incline a riconoscere stabilmente, se non in termini assistenziali.

Infine, andrebbe tematizzata l’esigenza di garantire non soltanto le libertà politiche e il diritto all’informazione dei cittadini, ma anche la loro “autonomia cognitiva”, in quello che il filosofo Jacques Derrida chiamerebbe l’”aggiornamento della democrazia”. La libera cittadinanza è una questione di matura e libera auto-consapevolezza.

Nell’uso moderno, il termine “cittadinanza” ha due significati distinti: uno teorico-politico e l’altro più propriamente giuridico. Nel primo caso, “cittadinanza” designa lo status sociale di cittadino, e cioè, il complesso delle condizioni politiche, economiche e culturali che sono garantite a chi sia a pieno titolo membro di una comunità sociale organizzata. In questo caso, il termine “cittadino” si oppone, prima ancora che a quello di “straniero”, a quello di “suddito” (o, più anticamente, di “schiavo”, “servo”). Il cittadino, a differenza del suddito, è titolare di diritti civili e politici (nel Novecento anche di “diritti sociali”) ed è in linea di massima legittimato a farli valere anche nei confronti dell’autorità politica. Nel secondo caso, il termine “cittadinanza” designa uno status normativo, e cioè l’iscrizione di un soggetto – per connessioni territoriali, per legami di parentela, per libera opzione, ecc. – nell’ordinamento giuridico di uno Stato. In questa accezione formale, il termine “cittadino” si oppone oggi, nel diritto interno come in quello internazionale, esclusivamente a quello di “straniero” (o di “apolide”). Il tema della cittadinanza riguarda, in questo caso, le situazioni giuridiche o di fatto che ciascuno Stato definisce – sotto i profili distinti del diritto privato e del diritto pubblico – come condizioni per il possesso, l’acquisto o la perdita della qualità di cittadino e della titolarità dei diritti e dei doveri connessi a tale qualità.

L’idea che lo sviluppo tecnologico-informatico contenesse anche enormi, inesplorate potenzialità civili e democratiche, è affiorata da tempo, ed è stata negli ultimi dieci anni il controcanto positivo o, quantomeno, speranzoso alle geremiadi sui processi di alienazione culturale, mentale e sociale connessi alla rivoluzione elettronica. I cultori di Internet vi hanno sempre visto i vantaggi di calcolo, di velocità di comunicazione, di connessione individuale di massa. Ma, l’affermarsi planetario dei Social Networks ha dato a queste aspettative gambe, ruote, ali. Da Herr Gutenberg a Mister Google, il cammino secolare della società dell’informazione, è finalmente approdato sulle terre feconde della cittadinanza locale e globale, sul terreno di una liberaldemocrazia a misura dei nostri tempi. Armati del nostro telefonino o del nostro pc, in connessione personale e diretta con i nostri contemporanei, scavalcando tutti i tradizionali mediatori – sacerdoti, esperti, intellettuali – abbiamo smesso di essere gli abitanti di un pianeta di naufraghi della cittadinanza e possiamo elevarci all’altezza delle sfide poste dalla globalizzazione e dal potere delle élites economiche e politiche. Sulla struttura portante della Rete si possono edificare le conoscenze e le biblioteche universali, si può – come dicono gli internauti – condividere, ci si può mobilitare per buone cause civili o sociali, si possono sperimentare forme inedite e di massa di partecipazione, si può inventare e decidere insieme a milioni di nostri simili senza nulla perdere dei nostri inalienabili diritti individuali. La Rete, il web, Facebook, Twitter, Youtube sono soprattutto “relazione”, una rete globale di relazioni personali. Conseguentemente, temi come Internet, la banda larga e il wireless, sono diventati punti importanti del programma politico ed elettorale e di una proposta originale per una “nuova cittadinanza” e un nuovo tipo di governo, che promuove la discussione e ascolta le idee che provengono dal basso, dal territorio, come ha dimostrato l’esperienza di Obama.

Obama ha vinto anche sul fronte dei finanziamenti scegliendo una strategia che consisteva nel rifiuto dei finanziamenti delle lobby e nella creazione di una rete di piccoli e medi donatori che offrivano da 5 dollari ad un massimo di 2.300 raccolti principalmente attraverso Internet. Con questo sistema, Obama ha raccolto cinque volte i fondi ottenuti dal suo rivale MacCain, che aveva privilegiato le forme tradizionali di finanziamento.

L’aspetto più straordinario, mai abbastanza sottolineato della campagna online di Obama, non è stato tanto quello della comunicazione politica di tipo verticale – dagli utenti al sito ufficiale di Obama – bensì quello della comunicazione orizzontale degli utenti, degli elettori, dei volontari tra di loro per conversare, confrontarsi, creare eventi, raccogliere fondi.

Sono passati meno di due anni dall’elezione di Obama e dal suo straordinario exploit. Due anni dalla scoperta della Rete e delle sue potenzialità come mezzo non solo di comunicazione, ma di azione politica, di cittadinanza attiva, su larga scala, giacché su scala minore non erano mancate esperienze di mobilitazione politica attraverso il web – basti pensare, per l’Italia, all’esempio del Blog di Beppe Grillo.

La lezione di cittadinanza democratica che ne ricaviamo dall’uso della Rete è che la mobilitazione politica non è esclusiva di nessuno, né della sinistra, né della destra, né di Obama né di nessun altro.

La seconda lezione è che l’informazione, la comunicazione, il confronto, liberano gli elettori e anche i militanti, i cittadini, dalla sudditanza all’ideologia, al leader, al partito. Se l’ideologia, il leader, il partito delude i suoi sostenitori, anche soltanto per inadeguatezza alla soluzione dei problemi condivisi con altri, allora i cittadini non-sudditi sono in grado di ritirare il consenso e mobilitarsi per trasferirlo ad un altro pensiero organizzato in progetto, ad un altro candidato leader o ad un altro partito.

L’interattività è il contrario della sudditanza. La nuova cittadinanza, virtuale e attiva, appartiene a tutti perché non è proprietà di nessuno.