Sunniti e sciti sulla via della seta – Pompeo De Angelis

Selim I
Chiediamoci chi sono i sunniti e chi gli sciti perché quello che fanno oggi ci riguarda da vicino. I sunniti agiscono dalla Turchia e gli sciti dall’Iran. Fanno la guerra, una guerra che le radici in più di un millennio fa.
Circa trent’anni dopo la morte del Profeta, le tribù musulmane si divisero in due sette, quella di Abu Bakr, primo convertito all’Islam e quella di Alì ibn Talib dello stesso sangue di Maometto. Ciascuna dinastia promosse i propri dogmi, fece proseliti e conquistò territori. Ottocentocinquantadue anni dopo, cioè nel 1514, lo scisma non riguardò più la teologia, ma la successione nei due principali regni in cui le parti si erano attestate, uno nell’Iran Occidentale con capitale Tabriz, che innalzava la bandiera verde scita, e l’altro in Anatolia con capitale Istanbul (che gli europei seguitarono a chiamare Costantinopoli fino al 1923), che innalzava la bandiera rossa sunnita. Lo spirito delle sette, in quel tempo, si sovrappose alle discordie e alle rivalità di potere esistenti fra i regni, lungo la Via della Seta. Non fu guerra di dogmi, ma di imperi.
Il sultano di Istanbul, nel 1514, ordinò il massacro di tutti gli sciti della sua corona. L’ambasciatore di Venezia in Turchia, Nicolò Giustiniani scrisse da Pera, il 7 ottobre 1514, al senato della Serenissima: “che il Signor havea manda a far ammazzare tutti della setta dei Sofi” (1), i Safavidi. Il sultano si chiamava Selim, asceso al trono nel 1512: per consolidare il suo potere fece la lista degli sciti delle sue province, di età compresa fra i sette e i settanta anni, maschi e femmine, totalizzando la cifra di 40.000 soggetti; poi li fece tutti sgozzare o condannare alla prigione a vita. Eliminò cosi una intera generazione di eretici, purificando le sue terre. Per questa macelleria, gli storici ottomani gli hanno attribuito il soprannome di Giusto (2).

Ismail
In Asia Centrale, il re Ismail, capostipite dei Safavidi, dopo aver destituito 14 sovrani e aver tagliato loro la testa, stabilì la sede del suo impero a Tabriz nell’Iran Nord Occidentale e si proclamò Scià, difensore degli sciti, vendicatore del popolo distrutto da Selim, per portar guerra e distruzione nell’impero ottomano dei sunniti. Conosciuta la minaccia di sterminio proveniente da Ismail, il 19 marzo 1514, Selim lasciò Adrianopoli e raggiunse Istanbul. Cedette al figlio Solimano di vent’anni il governo e mosse il suo esercito, lui stesso alla testa dei giannizzeri, verso il confine orientale. Stazionò a Trebisonda (Trobzon), ultima sede dell’impero greco cristiano sulle rive del Mar Nero, ma già occupato dagli ottomani, baluardo sulla Via della Seta e iniziò la marcia verso l’Armenia (Erminia), con 140.000 uomini ben armati, tra cui 80.000 cavalieri, più 40.000 riserve, 60.000 cammelli e 5.000 vivandieri che trasportavano gli attrezzi a dorso di mulo. Mentre muoveva le tende, Selim scrisse una prima lettera a Ismail. Le sue lettere ci facilitano la spiegazione degli argomenti, dei toni e degli scopi che distinguevano le sette negli anni del Rinascimento musulmano del XVI secolo. Per penetrare l’epoca, ci avvaliamo di ampie citazioni delle quattro lettere ottomane in cui rifulge il genio particolare di Selim. La prima è del 23 aprile 1514:
“Io, capo sovrano degli Ottomani, maestro degli eroi di questo secolo, che riunisco la forza e la potenza di Feridun, la maestà e la gloria di Alessandro Magno, la giustizia e la clemenza di Keikosrev; io, lo sterminatore degli idolatri, il terrore dei tiranni e dei faraoni di questo secolo, alla cui presenza si umiliano i re orgogliosi e ingiusti e che stritola con una mano gli scettri più duri; io, il glorioso Sultano Selim, figlio del Sultano Bayezid-Can, figlio del Sultano Murad-Can, io ti indirizzo con grazia la parola, a te, Emiro Ismail, capo delle truppe persiane, simile nella tirannia a Sohak e a Efrasiab e predestinato a perire come l’ultimo Dario, per farti conoscere che le opere provenienti dall’Altissimo non sono prodotto del capriccio o della follia, ma che esse racchiudono una infinità di misteri impenetrabili allo spirito umano.”
L’onnipotenza di Dio, nella teologia espressa da Selim in questa lettera, permette allo spirito dell’uomo di capire una cosa del mistero: la vita eterna ultraterrena spetta solo a chi segue la religione del “principe dei profeti, il califfo dei califfi, il braccio destro di Dio nella misericordia”, cioè il Profeta del Corano:
“Tu, Emiro Ismail, abbandonandoti senza freni alle più infami sregolatezze, hai osato sciogliere il fascio delle leggi musulmane e hai permesso il libertinaggio e la violenza, il massacro di quelli che, tra gli uomini, sono i più virtuosi e i più rispettabili, hai permesso la distruzione delle scuole e dei templi, la profanazione delle tombe, il disprezzo degli ulema, dei dottori e degli emiri discendenti dal Profeta, il sacrilegio deli libri del Corano, l’anatema dei califfi legittimi”.
Il sultano Selim si proclamò apostolo dell’islamismo e pertanto obbligato a liberare le province e i popoli che “gemono sotto il giogo” del traditore sunnita. Guerra di religione, dunque.
“Io ho deciso di spogliarmi dei miei ornamenti imperiali per vestire la corazza e la cotta di maglia, di spiegare la mia bandiera sempre vittoriosa, di radunare le mie armate invincibili, di estrarre il gladio vendicatore dal fodero della mia collera e di marciare con i miei soldati, la cui spada mena colpi mortali e le cui frecce raggiungono il nemico fin nella costellazione del Sagittario.”
L’armata ottomana ebbe davanti un viaggio di 600 km in linea d’aria, che le carovane percorrevano in circa un mese, per arrivare a Tabriz. Superate le colline che sovrastano la costa, il serpentone militare affrontò le alture aride e rocciose che portano all’altopiano di Erzurum a 1950 metri d’altezza sul livello del mare, circondato da altissime vette. Una seconda lettera di Selim a Ismail contiene ingiurie e provocazioni contro lo scià, tanto per scaldare gli animi. La carovana in armi marciò per due settimane lungo una pista sabbiosa schiaffeggiata dal vento e traversò una zona dove ulivi di pietra sgorgano la “naft”, un olio per accendere il fuoco, che sostituisce la legna, in questa zona dove, nel terreno oleoso, non crescono alberi.

Battaglia di Chaldiran, 23 agosto 1514
Una terza lettera fu scritta da Erzurum: “Noi [si sono aggiunti vari alleati più o meni convinti alla guerra], ti domandiamo di abbandonare il possesso dei territori violentemente staccati dai nostri stati… Ma se, per tua sfortuna, persisti nella condotta passata, se, ubriaco della tua potenza e del tuo coraggio, vuoi proseguire il corso delle tue iniquità, vedrai in pochi giorni le tue pianure coperte dalle nostre tende e inondate dalle nostre truppe.” Ormai gli argomenti dogmatico-religiosi sono trascurati e il senso della gloria personale della grandezza del regno predominano. L’armata del Sultano costeggia il monte Ararat di biblica memoria e traversa l’Armenia (Erminia). Lo scià Ismail infine risponde al Sultano Selim e gli manda un ambasciatore con la missiva e il dono di una scatola d’oro piena di oppio. La lettera del 18 luglio dice: “Se voi non mandate i vostri cavalli e i vostri schiavi giannizzeri, non faremo suola da scarpe con i caschi (zerculahi) che portate in testa. Io non passerò il fiume Murad Tschai, ma se volete trovarmi, passate!” Il dono dell’oppio fu talmente offensivo che il Sultano fece tagliare lingua, naso e orecchie al povero ambasciatore persiano. Alfonso Ulloa ci ragguaglia sul significato dell’oppio nella sua epoca: “Haveva in costume Sultan Selim, come abbiamo ancora inteso dire dal Serenissimo Andrea Gritti duce (doge) di Venezia di pigliar per bocca alle volte una semenza nata in Turchia, che leva a gli huomini la memoria delle cose gravi e fastidiose, e gli rende molto sciolti e allegri, e dura per alcuna ora” (3) Insomma, l’avversario che superava i confini era un semplice vizioso, non un nemico settario. L’enorme truppa turca avanzava sulla terra bruciata dai guastatori persiani, mentre l’esercito rimaneva invisibile. I giannizzeri chiesero di tornare a casa, ma il sultano non desistette, offrì maggiori compensi pecuniari e inviò un’ultima lettera al sunnita: “Ismail Behadir! Ho già marciato più settimane senza poterti incontrare, né te, né la tua armata. Non so se sei vivo o morto; tu non sei altro che astuzia e intrigo? Se hai paura chiama un medico che ti curi… Se continui a nasconderti, non ti sarà più possibile crederti un uomo; segui i miei consigli, cambia il tuo elmo con un cappello da donna, la tua cotta di maglia con un parasole e rinuncia alla tua ambizione di governare.” E alla lettera era aggiunto un regalo di vesti da femmina. Non si trattò di più di una guerra dogmatica, come si era dichiarato all’inizio, ma del confronto fra Savafidi e Ottomani nel punto cruciale dell’itinerario fra l’Estremo Oriente e l’Europa. Scrutando dalle alture di Tschaldiran, gli esploratori turchi videro le tende dei persiani nella piana di Tanasafi. Lo scià aveva abbandonato la ritirata strategica, si era spostato in avanti e aveva accettato lo scontro, prima di Tabriz. Il 24 agosto la cavalleria turca attaccò e si scontrò con quella persiana in una nuvola di polvere, da cui uscirono vittoriosi i cavalieri di Ismail, che, galoppando verso l’altura, si trovarono di fronte alla bocca dei cannoni portati dai turchi in segreto a dorso di cammello. Il colpo decisivo fu menato dai giannizzeri e vista la rotta dei suoi, Ismail fuggì per ripiegare su Derghezin. Il 5 settembre Selim entrò a Tabriz e spedì i messaggi della sua vittoria al figlio Solimano, al governatore di Adrianopoli, al Can di Crimea, al sultano d’Egitto, al doge di Venezia. Impiegò un anno per tornare a Istanbul, facendo stragi dei capi delle varie città lungo la via del ritorno, sottomettendo il Kurdistan.

Selim I
Il racconto di queste gesta serve a mostrare che non è esistita, fin dall’origine, una guerra di religione fra i musulmani, ma una rivalità per il predominio sulla Via della Seta, sullo stesso tratto del viaggio di ritorno in patria di Marco Polo, tra il 1292 e il 1295. Il percorso da Trebisonda a Tabriz del sultano Selim ricalca esattamente quello del veneziano e dei successivi mercanti da e per Pechino. Il commercio di seta, di spezie e di incenso tra Cina, India e Europa determinò scambi culturali e politici su cui fu importante stabilire il potere politico, in lizza con altri. In quelle stesse zone la “naft”, il petrolio, inserisce altri percorsi: le linee degli oleodotti verso la Cina e verso l’Europa (4). Le aree di comunicazione fra Occidente e Oriente sono quelle dove sono accumulati i ruderi dei palazzi imperiali musulmani, dove vivono premier neo musulmani con la nostalgia di corone perdute nel XIX secolo. Adesso cadono le bombe dei droni sulle povere case dei sudditi e le esplosioni dei kamikaze devastano i ritrovi della gente qualsiasi. Il Profeta Maometto sta godendosi il Paradiso. Sulla terra, sunniti e sciti, con bandiere verdi e rosse, combattono una guerra senza dei.
Il conflitto locale è una scheggia antica della geopolitica, quella che gestisce il nuovo secolo in cui si forma l’immensa regione euroasiatica. Pechino guarda all’Europa come prospettiva e quindi si espande sul versante dell’Asia Centrale ripercorrendo anch’essa la Via della Seta. Mosca diventa centrale nel nuovo continente. Washington si stacca, scivolando a occidente del mondo di Marco Polo.
Pompeo De Angelis
1. Sanuto Marino, Diari composti fra il 1496 e il 1553, a cura di Fullin, Stefani, Barozzi, Berchet, Allegri. Venezia 1893-1903.
2. Idem sopra. I Diari contengono un ritratto di Selim, prima dell’ascesa al trono, stilato dal senatore veneziano Foscolo, datato al 1505: “Questo Signore di anni 38, rosso la faccia, mostra crudelissimo e per questo amato dai jannizeri, più tosto bruto che altramente.”
3. Alfonso Ulloa, Libro dell’Origine de’ Turchi, Venezia 1558.
4. La Central Asian Gas Pipeline indirizza verso la Cina il metano raccolto da Turkmenistan, Uzbekistan e Kazakistan…” in Lotta Comunista n° 545, gennaio 2016: “Mosca guarda all’Asia e pensa all’Europa” di D.B.
L’ha ribloggato su Leo Rugens.
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